La sabbia di Pilmiro (cap.1 di 4)
di
Diagoras
genere
sentimentali
"Quando due bolle s’incontrano, esplodono entrambe... e nasce un fiore di loto."
(Detto cinese)
Erano tre anni che lavoravo in quel villaggio turistico.
Il signor Markopoulos, il proprietario dell’intero complesso e vecchio compagno di scuola ed amico di mio padre, mi aveva offerto il posto il giorno stesso della solenne inaugurazione della grande struttura turistica.
Mi aveva assunto, viste le mie ancora scarse esperienze lavorative, come addetto alla spiaggia.
Il mio lavoro consisteva nel portare i lettini, nell’aprire e chiudere gli ombrelloni, nell’ascoltare le richieste dei turisti e, di conseguenza, tentare di risolvere tutti quei piccoli problemi che su una spiaggia, affollata di vacanzieri, ogni giorno si presentavano numerosi.
Il signor Markopoulos voleva sempre che gli ospiti del villaggio trascorressero una vacanza serena, ed il servizio che il personale era tenuto a prestare doveva essere all’altezza delle sue aspettative, puntuale, efficiente ed impeccabile: era molto esigente in questo, e tutti noi che eravamo suoi dipendenti non potevamo di certo battere la fiacca.
Era un lavoro sicuramente ben pagato, ma estremamente duro e faticoso: stare per sei mesi l'anno sotto il sole, dalla mattina alla sera, sette giorni su sette, non è per nulla semplice, ve lo garantisco.
Mi ricordo che alla sera ero sempre distrutto dalla fatica, stanco morto e cotto dal sole: ma, a ventiquattro anni, trovavo lo stesso le energie per andare a divertirmi, come del resto tutti i ragazzi della mia età facevano.
E, d'altronde, era impossibile non farlo.
Nella discoteca del villaggio, nelle piscine aperte anche di notte, tra le feste sulla spiaggia e le uscite nei locali dei paesi vicini, la vita non si fermava mai; le ragazze straniere erano le "prede" di noi isolani, in quelle torride nottate estive.
Anche se, a pensarci bene, il più delle volte, le "prede" eravamo proprio noi ragazzi del posto: le ragazze, ma anche le signore con qualche annetto di più, non si facevano certo scrupoli nel farci intendere quali fossero i loro desideri.
E, come potete ben immaginare, la cosa non c’infastidiva di certo.
Vivere sull'isola dove ero nato mi piaceva, ma il mio sogno nascosto era quello di trasferirmi ad Atene o a Salonicco, e di aprire in una di quelle città un piccolo ristorante.
Era un sogno, naturalmente, perchè le mie finanze non erano allora particolarmente brillanti, e quelle della mia famiglia lo erano ancora di meno.
Avevo due fratelli e una sorella, tutti più piccoli di me, e lo stipendio d’impiegato comunale di mio padre bastava a malapena ad andare avanti dignitosamente.
Ed era per questa ragione che, da quando avevo iniziato a lavorare, contribuivo ad aiutare a casa per quello che potevo, e tutta la famiglia si era così potuta permettere qualche comodità in più.
Ma al di là dei sogni e dei progetti, ero contento della mia vita e del mio lavoro, e ancor di più di tutte le avventure sentimentali e sessuali che, di continuo, mi capitavano.
Era quello, dunque, il mio terzo anno di lavoro al villaggio.
Ogni settimana, di solito la domenica, avveniva il ricambio dei clienti.
Chi aveva finito la vacanza ripartiva, per lasciare il posto ai nuovi che arrivavano. C'era, ovviamente, anche chi restava due settimane, ed assisteva a tutto questo via vai con una certa aria di superiorità e di soddisfazione.
L'isola, di dimensioni estremamente ridotte, non poteva ospitare un aeroporto, e così i turisti arrivavano da tutta Europa con i loro voli a Santorini: quindi venivano trasferiti, con battelli e piccoli traghetti, ai villaggi della nostra isola.
Quel lunedì dei primi di agosto scesi in spiaggia al mattino presto.
Come facevo ogni giorno, e prima che la spiaggia si affollasse, mi concedevo una lunga nuotata, per togliermi il sonno dagli occhi e dalla mente.
Anche quella mattina nuotai per una ventina di minuti, godendomi l’acqua meravigliosamente fresca e cristallina.
Alla fine tornai a riva, e iniziai i miei lavori quotidiani, sentendo sulle spalle il sole già picchiare ferocemente.
Lentamente, con il trascorrere delle ore, la spiaggia si andò riempiendo di gente.
Il lunedì si respirava sempre un’aria carica di una strana eccitazione.
Quasi tutti i turisti erano al loro primo giorno di vacanza, con le loro carnagioni pallide e slavate che, prima di sera, e malgrado l’uso industriale di creme protettive, avrebbero assunto tutte le tonalità che vanno dal rosso al violaceo.
Ma la scoperta del mare meraviglioso, e di tutte le comodità e distrazioni che il villaggio poteva offrire loro, generava sempre una particolare euforia, che poi, con il trascorrere dei giorni, e l’avvicinarsi della partenza e dell’inesorabile fine della vacanza, andava progressivamente scemando.
Stavo sistemando alcuni lettini sotto un ombrellone, quando una signora mi si avvicinò.
"Scusi - mi disse in inglese - potrebbe aiutarci ? Non riusciamo a far muovere le ruote della carrozzina... la sabbia...".
Si trattava di una donna sui quarantacinque anni, forse tedesca o olandese.
Era sicuramente una bella donna, bionda, snella ed attraente, ma il suo sguardo aveva un qualcosa di triste e di rassegnato, quasi che un dolore insondabile si fosse annidato da troppo tempo in quegli occhi: non era certamente lo sguardo felice e spensierato di una persona al suo primo giorno di vacanza.
" Certo, signora. Vengo subito a darle una mano ".
Mi avviai dietro di lei, risalendo la spiaggia, fino alla passerella in legno che, dal corpo centrale del villaggio, e costeggiando la piscina, arrivava al limitare della sabbia: ero pronto a caricarmi l'ennesimo passeggino, o magari un carrozzino, con qualche infante urlacchiante e piagnucoloso.
Ma anche questo faceva parte del mio lavoro quotidiano.
Avvicinandomi, vidi un uomo sulla cinquantina accanto ad un ragazzino di forse dodici o tredici anni.
L'uomo teneva le mani appoggiate sulla spalliera di una carrozzina, sulla quale era seduta una ragazza molto giovane e molto carina.
Doveva avere sicuramente poco più di vent'anni.
Era bionda come il grano, con un cappellino da baseball in testa, e dal quale i morbidi capelli fuoriuscivano in una cascata fin sulle spalle.
Il viso, incantevole e delicato, ma dall'espressione dura e seria, era dominato da due occhi azzurri e penetranti, intelligenti e profondi.
L'ossatura delle spalle e delle braccia era minuta, ma sotto la maglietta bianca che indossava s’intravedevano le forme piene del seno.
Avvertii una fitta al cuore, vedendo che aveva le gambe paralizzate.
Insieme al padre, sollevammo la carrozzina dai due lati e la trasportammo sulla spiaggia, fino all'ombrellone che la direzione aveva loro assegnato; la posammo con delicatezza all'ombra, ed i genitori mi ringraziarono educatamente per l'aiuto.
" Di nulla. Quando avete bisogno di qualcosa, chiamatemi " risposi loro.
Sorrisi imbarazzato alla ragazza e feci per andar via.
" Come ti chiami ? " mi chiese lei all’improvviso, guardandomi dritta negli occhi.
" Dimitri. Mi chiamo Dimitri. E tu ? " le risposi.
" Erika. Grazie Dimitri. Papà non avrebbe di certo potuto portarmi fin qui da solo ".
" Figurati. Anzi, se desideri qualcosa... io sono sempre qui in giro...".
" Grazie ".
Me ne andai verso la mia postazione, un ombrellone più grande, quasi in riva al mare, che era un pò l'ufficio di tutto il personale di spiaggia, con la sua voce dolce e musicale nelle orecchie, provando un profondo senso di pena e di tristezza per lei.
Guardai la spiaggia piena di gente che rideva e che scherzava: i bambini con le palette ed i castelli di sabbia, le coppie che passeggiavano abbracciate, i padri che giocavano nell'acqua con i figli... tutti che si muovevano e che si divertivano, che erano autonomi sulle loro gambe… e poi voltai lo sguardo verso il suo ombrellone, verso l’ombrellone di Erika, e la vidi lì, seduta all'ombra, con il cappellino in testa e le gambe coperte da un largo asciugamano... e pensai come si dovesse sentire, come dovesse soffrire della sua diversità, della sua sfortuna, di quei suoi arti paralizzati.
Nonostante il caldo soffocante di quella giornata, un lungo, angoscioso e gelido brivido mi percorse la schiena.
Erika e la sua famiglia erano effettivamente tedeschi.
La mia prima impressione si era rivelata abbastanza corretta.
Erano di Amburgo, per la precisione.
E restarono in vacanza al villaggio per due lunghe settimane.
Ogni giorno, al mattino, aiutavo il padre a trasportare la figlia fino all'ombrellone, e poi indietro per il pranzo, e quindi di nuovo sulla spiaggia fino a sera.
Durante la giornata, quando il lavoro me lo permetteva, andavo da Erika a scambiare due parole per farle compagnia, o magari a portarle una bibita fresca.
Ma se i primi giorni lo facevo per lei, per essere cortese e gentile, e per distrarla dai suoi di certo cupi pensieri, lentamente mi accorsi che il voler stare vicino a quella ragazza era un qualcosa che mi faceva sempre più piacere, che cercavo sempre più spesso l'occasione ed il pretesto per stare con lei anche solo per pochi minuti.
Purtroppo il lavoro m’impediva di dedicarle tutto il tempo che avrei voluto, ed i nostri contatti erano sempre troppo rapidi e frettolosi.
Passarono così quattro giorni.
Ma la sera del giovedì, aggirandomi per il villaggio dopo il lavoro, vidi Erika con i genitori, attorno ad un tavolo sui bordi della piscina.
Erano praticamente al buio, intenti ad ascoltare la musica che proveniva dalla spiaggia, dove si stava svolgendo la tradizionale serata folkloristica greca per i turisti.
Le note dei bouzuki arrivavano distintamente fino a loro.
Mi avvicinai e li salutai.
Mi accolsero con molto calore, ed anche Erika sembrò essere contenta della mia presenza.
Vollero a tutti i costi che mi sedessi con loro a bere una birra: mi dissero che il fratello di Erika era in giro per il villaggio, con altri ragazzini con i quali aveva fatto amicizia, e che lo stavano aspettando, per poi ritirarsi per la notte.
Erika mi chiese del mio lavoro e della vita di noi isolani, delle nostre abitudini e delle nostre tradizioni. Mi raccontò che era sempre stata affascinata dalle culture diverse dalla sua, e da quella greca in particolare.
Chiacchierammo così, per un pò, fino a quando il fratello della ragazza ritornò, ed i genitori di Erika manifestarono il desiderio di tornare nelle loro camere.
Stavano per alzarsi, quando istintivamente, e con mia stessa grande sorpresa, mi sentii dire:
" Signor Rais, se lei permette, vorrei far vedere ad Erika la festa che si sta svolgendo sulla spiaggia. E' un peccato che non possa vedere i balli greci, lei che è così appassionata della nostra cultura. Sarà mia cura riaccompagnarla personalmente alle vostre camere non appena Erika lo vorrà ".
Sicuramente mi ero spinto troppo oltre, ma volevo stare ancora un pò di tempo con lei.
Mi voltai verso Erika e mi persi nei suoi occhi.
Sorrideva felice, forse come non faceva da tempo.
Anche i suoi genitori si accorsero dell’insolito stato d’animo della figlia.
" Se Erika è contenta e ne ha voglia, per noi non ci sono problemi " disse la madre, guardando prima la figlia e poi me.
" Sì, mamma. Vorrei proprio vedere queste danze e ascoltare la musica ".
" Va bene. Allora noi andiamo. Dimitri, conto su di lei " mi disse il padre, battendomi su una spalla.
E così se n’andarono, lasciandomi solo con Erika.
- continua -
diagorasrodos@libero.it
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