La mia prima volta (vista da lui) epilogo

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LA MIA PRIMA VOLTA (vista da lui) /EPILOGO

Continuai ad accarezzare Lino dappertutto e a baciarlo con dolcezza mentre pensavo a quanto ero stato favorito dalla sorte ad incontrare un fiorellino così voglioso e imberbe da far crescere e svezzare. Già mi vedevo intento ad insegnargli le prime nozioni: dal sessantanove alle linguate sugose nelle orecchie, dal succhiotto sul collo al premio finale quando lui stesso, voglioso, ne ero certo, mi avrebbe implorato di essere penetrato, sì, di essere sverginato, come supremo e incondizionato atto di amore.
Con mio nipote Giuseppe la prima volta non avevo neppure usato la crema bensì un po’ di saliva ma, con quel giovanissimo genovese che avevo davanti dalla cadenza così curiosa e arrapante, sarebbe stato diverso: mentre lui mi avrebbe chiesto di essere violato gli avrei prima riempito il culetto di Nivea; prima sul roseo e grinzoso fiorellino e poi dentro quel buco delle delizie, facendo scivolare piano piano le mie dita piene di unguento dentro di lui.
Lo avrei massaggiato a lungo facendo entrare e uscire il mio indice più e più volte per rendere quel canale scivoloso e meno doloroso al passaggio della mia cappella. Sì, lo avrei penetrato con dolcezza, poco per volta: prima con la punta del glande facendola entrare e uscire più volte; poi avrei violato il suo primo anellino fermando la mia cappella all’ingresso e aspettando che fosse lui a chiedermi di proseguire…..
Mentre lo accarezzavo e sognavo il momento di prendermi la sua verginità ad un tratto lo sentii intristirsi. Mi disse che sarebbe partito il giorno dopo per tornare a casa e trattenne a stento le lacrime: ”Domani torno a Genova, quando potremo rivederci?”
“Verrò a trovarti io tesoruccio”. Poi gli diedi un morso feroce strappandogli un urlo e lasciando il segno della mia dentatura sulla sua spalla sinistra: “Ora mi appartieni, sei la mia piccola troia, lo sai vero? Presto sarò a Genova col luna park e ci rivedremo ancora tante volte, sai. Questa volta sarò solo e faremo l’amore sul mio letto, all’interno della roulotte. Vedrai, sarà bellissimo”.
L’adolescente si leccò in modo voluttuoso le labbra per farmi capire quanto lo desiderasse. Mentre io riavviavo il motore per tornare in paese mi disse “Non voglio perderti, ma non dirlo a nessuno, neppure a tuo figlio Bruno o a tuo nipote Giuseppe”.
“Ho paura di non vederti mai più” aggiunse, mentre due lacrimoni gli scendevano lungo le guance. “Voglio essere tuo qui, adesso; voglio che sia tu a prendermi per primo, a cogliermi. Mi hai stregato e ti sono riconoscente e debitore per questi momenti che mi hai regalato”.
Le parole di quel ragazzino avevano una loro logica stringente, dettata, certamente, dal suo basso ventre, ma non solo. Ragionava come un adulto e temeva, giustamente, che il coronamento di quella sua prima esperienza sessuale con me potesse allontanarsi e sciogliersi nel tempo mentre aveva la possibilità di raggiungere il massimo dei suoi desideri ora, accanto al suo maestro.
Era tardi, accidenti, ma la luce del sole era ancora abbastanza alta. Guardai nuovamente l’orologio ma in cuor mio avevo già deciso di non perdere quella magica occasione da Mille e una notte e, a quel punto, scelsi di girare l’auto infilandola in uno stretto tratturo che fungeva da divisorio tra due vigne.
Tolta così l’auto dalla strada, ora nascosta alla vista di eventuali curiosi, mi chinai su Lino abbracciandolo e slinguandolo. Le mani del ragazzino si avvinghiarono alla mia schiena, accarezzandomi e graffiandomi.
Mi tirai leggermente su i calzoni e intimai a Lino di non muoversi da quella posizione. Scesi dall’auto e aprii il portabagagli rovistando nella cassetta degli attrezzi. Quindi come una furia risalii in macchina e mi tolsi anch’io le scarpe, i calzoni e le mutande rimanendo in canottiera.
Salii nuovamente su di lui che era rimasto con gli occhi chiusi in trepida attesa del mio ritorno. Gli slacciai le scarpe da ginnastica e le feci cadere sullo stuoino dell’auto. Poi gli alzai leggermente i piedi per favorire l’uscita dei calzoncini e delle mutande che tolsi con frenesia per poi alzare leggermente la sua schiena dal sedile e sfilargli la maglietta.
Ora era completamente nudo e cominciai a baciare dappertutto il suo corpo in modo forsennato, soffermandomi sui capezzoli. Poi lo feci girare invitandolo a inginocchiarsi sul sedile per porre così in bella vista il suo sedere che mi parve di una bellezza mozzafiato: aveva due mezze mele incantevoli, sode e dure e le baciai estasiato. Le dischiusi leggermente all’altezza del solco e la vista del suo fiorellino, rosato e grinzoso, mi seccò le labbra. Dio com’era bello.
Tirai su dallo stomaco tutta la saliva che potevo e cominciai a umettargli il buchetto con la lingua e provai per quanto potevo a infilargliela dentro sputandoci sopra tutta la saliva. Con l’indice gli titillai il forellino inumidito sditalinandolo teneramente.
Lino cominciò a muovere circolarmente il sedere facendomi capire quanto gradisse quel massaggio anale e iniziò a godere in modo evidente: dapprima con tenui sospiri che poco a poco divennero veri e propri mugolii mentre le spinte verso il mio dito divennero sempre più forti.
“Ti piace, vero tesoro? Lo sento dalle tue contrazioni e dai tuoi sospiri. Godi bello di zio, prenditi tutto il piacere che vuoi ma parlami, mi piace sentire la tua voce; dimmi cosa provi mentre godi, esprimi ciò che la fantasia ti suggerisce per gioire ancora di più”.
Il mio uccello era diventato enorme e, come una camera d’aria, pulsava gonfio di desiderio. Il mio cazzo era pronto a passare dall’inferno di quell’attesa snervante, al paradisiaco momento in cui avrei assaporato quel frutto peccaminoso e acerbo.
Non c’era alcuna via di mezzo e tale era il mio desiderio e la tensione emotiva che quando Lino iniziò a parlare temetti addirittura di sborrare immediatamente, senza arrivare a mordere e assaporare quella mela.
“Mmmhhhh, ti voglio dentro zietto, non resisto più”
“Sono qui per questo angelo mio, ma ricorda che all’inizio potresti sentire un po’ di dolore. Quando vuoi io sono pronto ed entrerò in te piano piano; sarai tu stesso a dirmi quando e quanto mi vorrai dentro di te”.
Mi appoggiai sulla sua schiena vellutata e glabra baciando e dando alcuni morsetti alle sue spalle e al collo: il mio cazzo ora poggiava dolcemente sul suo solco, in attesa di entrare in quel paradiso. Lino muoveva e spingeva il culo verso di me in preda ad un desiderio ormai irrefrenabile. Ma io non volevo prendere in modo ferino quell’adolescente in calore e chino in trepida attesa a pecorina sui sedili della mia auto.
Non cercavo più un ormai facile quanto animalesco accoppiamento ovvero uno sfogo sessuale fine a se stesso, voluto da un vecchio porco come me, come si trattasse di un buco qualsiasi da riempire.
La sua verginità valeva ben altro ed io mi sentivo un artista che, dopo aver sgrossato un blocco di marmo, con i tocchi finali del martello stava per dare un’anima a quel capolavoro vivente.
Ero finalmente pronto. Feci alzare Lino e, senza smettere di baciarlo, lo misi a sedere di fronte a me con la schiena appoggiata sul volante: il suo uccello era all’altezza della mia bocca e io lo inghiottii golosamente mentre il ragazzino, in una posizione di precario equilibrio, poggiò entrambe le mani sulla mia testa per non cadere.
Iniziai un lungo e spossante pompino mentre il giovane a occhi chiusi mi tirava i capelli: spingeva in avanti e si lamentava, tormentato dai miei colpi di lingua e dai miei denti ma non volevo che quel fiore rosa e appuntito mi morisse improvvisamente in bocca.
Lasciai così il suo uccello, presi il suo giovane corpo fra le braccia e lo girai ancora: ora all’altezza della mia bocca avevo quel fantastico mandolino rosa e, aperte le sue due mezze mele con le dita, iniziai a leccare quel ben di dio che avevo di fronte. Infilai la lingua in mezzo al solco e poi la passai sul suo fiorellino che aveva iniziato a contrarsi in modo indecente. Lino stava godendo come un porcellino e stringeva con le mani il volante mentre urlava “ancora, ancora non smettere mai! Dài zietto prendimi, infilami dentro qualcosa di duro. Sei cattivo sai, cosa aspetti, ti prego fammi tuo!”
Avevo il cazzo che pareva dover esplodere da un momento all’altro e stavo rischiando di inondargli la schiena di sborra. Fu a quel punto che, incapace di attendere oltre, aprii il barattolino di grasso preso in precedenza dalla cassetta degli attrezzi. Vi intinsi un dito che poi passai lungo il solco di Lino e il fresco di quella pomata per auto sparsa sulla pelle gli diede i brividi.
Insinuai con senso rotatorio il mio medio untuoso sul suo fiorellino e iniziai un lento movimento decongestionante, facendomi strada dentro di lui seppur penetrandolo di pochi millimetri.
Ogni volta entravo un po’ più a fondo lubrificandogli il canale finché raggiunsi il primo anello anale per poi uscire e rientrare ancora più e più volte dentro di lui.
Il culo di Lino reagiva bene. Stava abituandosi a quella lieve penetrazione e, dopo le prime contrazioni dettate dal timore di sentire male, il ragazzo iniziò a collaborare: stava godendo e me ne accorsi toccandogli il cazzo che fra le mie dita diventava sempre più duro. Gli infilai due dita nel culo e senza fretta, iniziai a lavorarlo di nuovo, avanti e indietro. Sentivo che quel buchetto, stretto ed elastico, ormai era quasi pronto ad accogliere quel mostro che avevo fra le gambe.
Passai a lungo le due dita dentro il suo fiorellino e al contempo gli baciavo le chiappe; Mi sfregai il pollice colmo di balsamo sulla cappella per renderla più untuosa e scivolosa e la lasciai libera di scivolare sino al punto agognato.
“Sono qui gioia mia, pronto a esaudire il nostro desiderio” e mentre gli sussurravo quelle parole con le mani ora strette sui suoi fianchi lo feci scendere col culo verso il mio uccello e appoggiai la cappella sull’orifizio per impalarlo.
La punta del glande faticava a entrare e per favorire la penetrazione con le mani gli aprii le mezze mele per favorire l’accesso del mio cazzone che il grasso faceva scivolare via. Appoggiai il cazzo a perpendicolo e spinsi un po’ più forte: ecco, era entrato, impercettibilmente ma era entrato in quel pane di burro. Mi fermai.
“Sono qui amore, mi senti? Dimmi tu quando posso spingere un po’ di più altrimenti resto fermo”.
“Prendimi zietto mettimelo dentro un po’ di più”.
Con un colpetto feci scivolare la cappella al di là del primo anello e Lino mi morse una mano per non urlare dal dolore che quella piccola forzatura gli aveva certamente procurato. Ritrassi il mio uccello all’esterno e poi riprovai per più volte a penetrarlo, avanti e indietro. Ora Lino collaborava maggiormente e ogni volta che estraevo la cappella mi incitava a riempire quel vuoto che provava per poi mordermi il braccio ogni volta che la mia cappella entrava nel suo canale anale. Ma non era più dolore, era la goduria per la penetrazione che ormai gradiva e anelava.
Ora, grazie al grasso che avevo usato a piene mani per ammorbidirlo, sentivo scivolare il mio uccello senza alcun ostacolo. Era il momento da me agognato.
“Dài zietto spingilo forte, lo voglio ora; dammelo sino in fondo, sventrami, spaccami, sono tua”.
Ci prendemmo per mano e, assieme, le stringemmo sul comando del clacson. Con l’altra mano gli strinsi l’uccello e cominciai a segarlo dolcemente.
“Quando affonderò i miei colpi ti farò un po’ male tesoro e se non resisti schiaccia il clacson e urla oppure suonalo solo quando stai per sborrare”.
Diedi un colpo più forte e la cappella, seguita dal tronco scivoloso lo penetrò sino in fondo. Sentii la sua mano fremere e premere la leva e Lino cominciò a gridare. Ma il suo non era dolore per la profanazione avvenuta bensì urla di piacere assoluto. Le parole uscivano a fiotti dalla sua bocca e Lino aveva un solo timore, quello che qualcuno udendo quelle grida potesse spaventarsi. Il giovane sborrò quasi subito fra le mie dita ma lui voleva dell’altro: “Sì, sì riempimi tutta, più forte, più forte, pompami sìììììììì”.
Sotto quella pressione i miei colpi divennero uno, dieci, cento: il mio uccello era diventato un trapano che spingeva senza fermarsi mai. Urlavo e spingevo come un ossesso “Senti com’è grosso troia” e in un attimo sentii le palle che sbattevano contro il suo culo mentre le mie mani erano passate sui suoi fianchi e lo spingevano verso di me che ruggivo e ululavo. “Ora ti vengo dentro vaccona” e spinsi ancora più forte il mio uccello dentro il suo culo riempiendolo di sborra calda. Mentre eruttavo sborra gli diedi un forte morso sul collo facendolo urlare, questa volta sì, di dolore. Quel clacson si fermò solo quando spossato estrassi il mio uccello da quel nido. Lino lo prese in bocca e lo ripulì per bene: “sarai per sempre il mio zietto , vero?”.


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scritto il
2011-05-17
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