La mia prima volta
di
XY
genere
prime esperienze
Questa è la cronaca vera della mia prima esperienza sessuale. La mia personalissima “prima volta” è stata “omo”, me consenziente, con un adulto, ma è anche una storia come tante altre, che nella sua generalità, si ripete da sempre. Noi maschietti tale svezzamento l’abbiamo provato nel 99 per cento dei casi (un parente, un amico di famiglia) ma – e non parlo delle solite ricerche del proprio corpo con coetanei altrettanto curiosi - quasi nessuno confesserà mai per vergogna, o chissà per quale altro motivo, di averla mai sperimentata.
Mia madre, come andava di moda in quegli anni, era certa che due settimane in campagna, “per cambiare aria” mi avrebbero fatto bene alla salute e la stessa cosa ribadiva il nostro medico di famiglia che, pur di accontentarla e togliersela di torno, era sempre pronto a condividerne pensieri e fobie.
Così i miei genitori a settembre, impossibilitati a muoversi per motivi di lavoro, mi “caricarono” su un treno con destinazione un paesino dell’albese dove, grazie all’ospitalità di vecchi amici di famiglia che mi attesero all’arrivo in stazione facendomi molte feste, alloggiai per due settimane.
Ci andai mal volentieri, lo confesso, anche perché immaginavo che sarei andato incontro a due settimane lunghe e noiose, lontano dagli amici.
Allora avevo 12 anni e non “venivo” ancora ma avevo gli ormoni che andavano a mille e ogni occasione era buona per toccarmi, anzi, per “segarmi”, termine meno formale ma più usato da noi ragazzini.
Io lo facevo, di norma, tre, quattro volte al giorno.
Ovunque avessi un briciolo di intimità mi masturbavo senza ritegno: appena sveglio, oppure la notte nel tepore del mio letto intiepidito a dovere dallo scaldino; durante la giornata in piedi, sul water, che mi appariva come una gigantesca fica di porcellana; oppure d’estate, al mare, tenendomi con una mano a un gavitello mentre l’altra era chiusa attorno all’oggetto del mio piacere solitario in uno spossante “su e giù”.
D’inverno, con i miei al lavoro, mi crogiolavo avvicinando il mio pisello al termosifone di casa e poi godevo smanettandomi col sedere appoggiato al caldo calorifero in un va e vieni sempre più veloce.
In treno il movimento del vagone sulle rotaie e, sull’autobus, gli scossoni dovuti alle buche, avevano di solito la prerogativa di accendermi eroticamente facendomelo rizzare: per nascondere l’imbarazzante situazione ero allora costretto a coprirmi la patta appoggiandovi sopra le gambe il cappotto o qualunque cosa avessi a portata di mano.
Quella mattina, durante il viaggio in treno verso la collina piemontese, mi successe la stessa cosa e, per evitare sguardi indiscreti e curiosi al mio pacco ormai gonfio, mi precipitai nel cesso del vagone di seconda classe.
Mi sbottonai con furia i calzoni, sputai un po’ di saliva sulle dita e, poi, sulla cappella già dilatata per far scivolare meglio la pellicina che la ricopriva. Ero in precario equilibrio, con una mano attaccata al finestrino, ma ciò non mi impedì di segarmi e godere fino a quando qualcuno bussò discretamente alla porta.
Nella cascina, la notte faceva già piuttosto freddo e i due anziani e ospitali coniugi la sera, prima di andare a dormire, si premuravano di farmi sempre trovare nel letto il “prete” uno scaldino di legno con un mattone rovente all’interno per avere le lenzuola tiepide e non soffrire il freddo.
Durante il giorno spesso mi isolavo nel fienile che era diventato il mio rifugio quotidiano: lo raggiungevo salendo una scala a pioli e, nascosto fra le balle di fieno, mi sbottonavo i calzoncini procurandomi il mio piacere solitario.
La mia permanenza a ……. negli ultimi giorni del mio soggiorno era coincisa con la festa del paese: nella piazza grande assemblarono un grande e artistico palco coperto per il ballo e, a poca distanza, venne installato anche un mini lunapark, con una piccola giostra e altri giochi.
Fu in quell’occasione che conobbi Bruno. Aveva la mia stessa età ed era il più piccolo della famiglia di quei nomadi che erano accampati in una grande roulotte a poca distanza dalla giostra.
In quella casa mobile, convivevano a stretto contatto i suoi genitori, la sorella di Bruno, Carmen, e un cugino quindicenne, Giuseppe.
La madre del mio amico era piuttosto corpulenta, con un seno enorme che divenne ben presto oggetto delle mie performances solitarie.
Il papà di Bruno era invece un uomo piuttosto magro e trasandato ma muscoloso, che indossava perennemente un paio di jeans e una canottiera senza maniche che un tempo doveva essere stata bianca. Aveva le mani grandi e callose, sempre nere e unte di grasso a causa della continua manutenzione del motore della giostra che spesso si fermava con lamentosi borbottii.
Con Bruno giocavamo un po’ a tutto e praticamente eravamo sempre insieme come due fratelli.
Una mattina mi disse se volevo andare con lui e suo padre in campagna a cogliere o, meglio, a rubare un po’ d’uva in una vigna poco distante.
Saremmo andati con l’auto e la novità mi intrigava molto perché era un macchinone molto imponente, di quelli con i fari e gli alettoni posteriori triangolari che rendevano quel Fiat 2300 simile a una luccicante Cadillac.
Dissi subito di sì e fissammo l’appuntamento per il primo pomeriggio, davanti alla giostra.
Arrivai con qualche minuto di anticipo ma trovai Bruno stranamente immusonito.
Capii subito il motivo del suo broncio: suo padre, all’ultimo momento, lo aveva obbligato a stare di guardia alla giostra.
“Io però potevo andare lo stesso, così avrei fatto compagnia al suo genitore” aggiunse laconicamente.
Rimasi un attimo titubante: che ci andavo a fare senza il mio amichetto con cui divertirmi? E che compagnia avrei fatto a quell’uomo ispido e con la barba lunga, sempre incavolato col mondo intero e così poco loquace da incutere soggezione al solo guardarlo?
Poi la voglia di salire su quel macchinone color crema, scintillante di cromature e con il cruscotto che pareva la sala comandi di un’astronave, ebbe il sopravvento.
Salii sulla luccicante vettura sprofondando in quei sedili soffici e in finta pelle che parevano la poltrona della nonna.
Uscimmo dal paese e lui inizialmente restò silenzioso, quasi scocciato della mia ingombrante presenza.
La cosa mi intimorì non poco perché non sapevo come comportarmi per essergli gradito e non di impiccio, per assecondarlo in qualche modo.
Ero arrivato persino a pensare di aver fatto una stupidaggine ad essere salito su quel macchinone.
Improvvisamente, quando raggiungemmo lo sterrato, una deviazione che dalla carrozzabile conduceva in aperta campagna, aprì finalmente la bocca: aveva una voce roca e bassa, che oggi definirei sensuale ma che allora mi parve sinistra.
Erano le parole di un adulto che si rivolge quasi con sufficienza a un bamboccio non in grado di comprenderlo appieno e, nel parlarmi, mi indicò con lo sguardo il torrente che scorreva alla nostra destra.
Mi disse se ero mai stato giù al fiume, dove le donne lavavano i panni.
Al mio diniego continuò a parlare raccontandomi che stavano sempre con le vesti alzate per non bagnarle e che molte di loro erano anche senza mutande.
Aggiunse che quelle femmine, come tutte le donne del resto, erano sempre sudice e poco sincere e che una volta al mese avevano pure le loro “cose”; il che le rendeva ancora più sporche!
“Non sono come noi maschi, capisci? Noi siamo semplici e onesti, ci diciamo sempre le cose senza finzioni e a viso aperto. Non ho ragione?”
Annuii più per convenienza che, stante la mia giovane età, per certezze assolute ma devo anche confessare che quelle frasi mi avevano inorgoglito: si era confidato a cuore aperto con un ragazzino come me, come fossi un suo coetaneo e, poi, perché non ammettere che quelle parole mi avevano provocato un certo formicolio in mezzo alle gambe?
Mentre guidava mi accorsi che ogni tanto il suo sguardo cadeva sui miei calzoncini: i suoi discorsi sulle lavandaie e le loro nudità infatti mi avevano eccitato non poco e avevo il pisello duro come un sasso anche se tentavo di nascondere la mia erezione con i gomiti poggiati sulle gambe.
Nel maneggiare il cambio per scalare marcia, accidentalmente la sua mano toccò in modo fuggevole la mia coscia sinistra.
Dopo quella prima volta il movimento però si ripetè e le sue nocche, mentre guardava la strada e fingeva indifferenza, sfiorarono più volte e sempre più pesantemente la mia gamba.
Ciò accese ancor più il mio desiderio: ad ogni cambio di marcia mi toccava la pelle liscia e levigata passando la mano callosa sulla mia gamba nuda che avevo spostato impercettibilmente verso di lui per favorire il contatto,
Ogni volta che lui mi toccava e vellicava la mia setosa peluria sentivo partire una scarica elettrica che raggiungeva il mio cervello e poi tornava giù, sino al mio basso ventre e a quel terminale chiamato uccello che pareva lanciarmi sconosciuti richiami e ondate di lussuria.
Finalmente arrivammo ai bordi di una vigna seminascosta da una stretta curva e il papà di Bruno a quel punto accostò l’auto e spense il motore.
Scendemmo dalla macchina e dal portabagagli estrasse un cestino di vimini e una cesoia da giardiniere.
Iniziò a tagliare alcuni grappoli con una mano mentre con l’altra pareva soppesarli ad uno ad uno: una manovra che a me parve estremamente sensuale e lasciva.
Mentre lo guardavo all’opera rimasi affascinato e stregato da quei movimenti e, ogni volta che le lame con un colpo secco tagliavano il tralcio, rabbrividivo come pervaso da una strana e maliziosa eccitazione che non riuscivo o, forse, non volevo bloccare.
Poi finalmente si fermò e ripose la cesoia nel cesto ormai colmo. Scrutandomi fisso negli occhi, sorridendo, si toccò la patta dei pantaloni: “a me scappa la pipì e a te?”
Scioccamente scossi la testa e rimasi lì impalato mentre lui, forse per nascondere la delusione, si allontanò velocemente sparendo dietro un filare per svuotare la vescica.
La sua fu una pisciata particolarmente lunga: sentivo il rumore scrosciante dell’urina che, sbattendo sulla terra secca e arida, aveva un suono secco e crepitante.
Immaginavo il leggero vapore che sicuramente saliva dal terreno così innaffiato e mi pareva persino di sentire l’odore acre e pungente del piscio, di vederne il colore chiaro e ambrato. Tali sensazioni tumultuose ebbero l’effetto di eccitarmi ancora di più e di convincermi che ero stato uno sciocco a non approfittare del suo invito a urinare insieme.
Io e i miei amichetti lo facevamo spesso e chiamavamo quel gioco gara “a chi piscia più lungo”: in realtà ci guardavamo i piselli e li confrontavamo prima di segarci sul bordo della siepe.
Dicendo no a quell’uomo avevo perso un’occasione forse unica, quella di osservare da vicino l’uccello di un adulto che voleva amichevolmente rapportarsi con me senza alcuna forzatura, solo per verificare quanto fosse grande il suo batacchio rispetto al mio.
Morivo dal desiderio di arrivare al più presto a casa per potermi smanettare in santa pace e placare così la mia impellente voglia ma i miei erotici pensieri da dedicare al mio piacere solitario improvvisamente mutarono.
Il suo ritorno alla mia vista fu infatti imprevisto e choccante: il papà di Bruno non si era affatto ricomposto, anzi. Riapparve con i calzoni completamente aperti e, mentre con una mano sulla cintura si teneva su le braghe, con l’altra avviluppava il suo uccello che fuoriusciva prepotentemente dalle mutande bianche lasciando intravedere una cappella simile per dimensioni a un fungo porcino.
Era un cazzo possente, duro e svettante che a me parve di una misura mostruosa rispetto al mio pisello: guardavo con meraviglia e, insieme, sedotto, quella biscia carnosa che cresceva e si gonfiava, ergendosi verso l’alto.
Lui si avvicinò fissandomi come un serpente di fronte a un coniglietto e tornò a sorridermi invitante: “fammi un po’ vedere cosa nascondi in mezzo alle gambe; sono curioso di vedere se ce l’hai più grosso di mio nipote Giuseppe”.
Lasciò il suo cazzo libero di svettare e passò la mano rimasta inoperosa sotto le mie palle lisciandole e stringendole un poco: “Dài zuccherino, sbottonati i calzoncini e fammi vedere il tuo tesoro”.
Mi aveva colto sul vivo e risentito pensai che anche se il mio pisello poteva avere una minore dimensione di quello di suo nipote c’era comunque una bella differenza di età fra me e Giuseppe che di anni ne aveva ben quindici!
Obbedii comunque. Come un automa le mie mani sfilarono timidamente dalle mutande, divenute ormai troppo strette, il mio uccello che, di fronte al suo, mi parve un passerottino.
Lo prese finalmente in mano e, con un sospiro, lo soppesò come aveva fatto in precedenza con i grappoli d’uva: quasi per magìa il suo palpeggiamento sotto i testicoli ebbe l’effetto di farmi tornare il pisello nuovamente duro.
“Andiamo un po’ più in là” disse “la gente è tanto cattiva, sai” e, posandomi una mano sulla spalla e premendo le dita, mi sospinse sin dietro a un filare, in prossimità di un maestoso albero di noce.
“Le noci mi piacciono” pensai scioccamente mentre lo seguivo in preda a un delirio dei sensi che ancora non afferravo pienamente dove mi avrebbe condotto.
Arrivati sin sotto l’albero lui mi avvicinò ulteriormente a sé con un braccio stretto sulla mia schiena: il suo corpo ora aderiva completamente al mio e la sua mano scese a scompigliarmi i capelli e accarezzarmi il viso, che poggiavano entrambi all’altezza del suo torace.
Con l’altra mano si scappellò interamente il glande che posò sul mio. A quel punto diede il via a un lento movimento simile in tutto e per tutto al va e vieni di una sega: la sua mano ora conteneva come un corpo solo le due cappelle e la pellicina del suo uccello andava a coprire dolcemente il mio glande per poi liberarlo in modo altalenante.
Si chinò leggermente e mi baciò i capelli e poi il collo provocandomi brividi di piacere.
I miei calzoni e le mutandine caddero definitivamente imprigionandomi le caviglie mentre la sua ruvida mano, che prima mi accarezzava capelli, scese lungo la mia schiena per poi soffermarsi per qualche attimo sul mio sedere messo a nudo.
Sentivo le sue dita scorrere lungo il solco alla ricerca del punto più caldo e nascosto e qui si insinuarono dolcemente mentre brividi mai raggiunti in precedenza mi squassavano il ventre.
Le sue mani, grazie a un movimento incessante davanti e dietro il mio corpo, mi provocarono un tremolio prepotente, con vibrazioni sconosciute che velocemente si propagarono su ogni centimetro della mia pelle.
Ad ogni movimento oscillatorio sentivo la sua mano pulsare e premere alternativamente sulla mia spalla e sul mio culo glabro.
Ansimava e godeva ed io, raggiunto e trafitto da mille scariche elettriche, tremavo e godevo con lui che mi stava facendo raggiungere l’estasi, il paradiso dei sensi.
Avrei voluto restare così per sempre ma dopo qualche minuto di piacere assoluto si staccò da me e, a gambe leggermente piegate e divaricate cominciò a masturbarsi violentemente finché vidi diversi fiotti bianchi e cremosi uscire dalla sommità della sua violacea ed enorme cappella sino a ricadere sulla terra concimandola.
Dalla sua bocca uscirono dapprima dei rantoli gutturali seguiti alla fine da un grido strozzato.
Poi, con andatura traballante si avvicinò a un tralcio, staccò una foglia di vite e si ripulì lentamente.
Io intanto avevo iniziato a segarmi da solo, sempre più velocemente e, per un paio di volte, mi riempii le dita di sugosa saliva che poi passavo sulla cappella in fiamme per rendere più scorrevole lo sfregamento.
Ero un cerino ardente e quel concitato finale del nostro amplesso mi aveva travolto: tremavo dalle dita dei piedi ai capelli e mi smanettavo in modo forsennato, a occhi chiusi. Non sentivo neppure dolore per quel filetto che rischiava di spezzarsi per la violenza inusitata di quei colpi d’ariete che non conoscevano stanchezza né pause.
Dalla mia bocca - ero ormai privo di un qualunque senso di imbarazzo o soggezione - uscirono dei mugolii in tutto simili a quelli emessi in precedenza da quel porcone mentre trovava sfogo alla sua libidine sborrando come un torrente in piena.
Guardarlo e ascoltare i suoi mugolii era stato per me un lussurioso piacere che immaginavo intenso e supremo anche se a me, purtroppo, era ancora precluso.
Io infatti non venivo ancora e sarei rimasto lì a masturbarmi all’infinito, stregato da quel moto perpetuo che assicurava solo piacere senza nulla chiedere.
Fu il papà di Bruno a risvegliarmi da quel sogno di cui ormai ero il solo protagonista: “Dài sbrigati, che si fa tardi”.
Lui si era già rivestito e, impaziente, si era acceso una sigaretta.
Io, a malincuore, mi fermai sull’orlo del precipizio e riposi il prezioso oggetto del mio piacere, rosso e infiammato, nelle mutande.
Ormai la mia vacanza era agli sgoccioli e avrei perso il mio nuovo, personale maestro di vita, colui che mi stava svezzando avviandomi a un mondo dei balocchi ricolmo di inusitati piaceri fino a pochi minuti prima inimmaginabili.
Pensavo al mio letto vuoto, al water, al fienile. Dentro a quei pensieri ora trovava posto solo quell’uccello maestoso e il desiderio di toccarlo, di stringerlo e farlo ingrossare fra le mie piccole dita. C’era la voglia di farmi accarezzare a lungo da quelle mani rugose, forti e tenere insieme, che sapevano sempre dove andare facendo suonare come fosse uno strumento il mio corpo, teso come una corda di violino.
Risaliti in macchina, innestando la prima mi riaccarezzò una gamba e infilò la mano fin dentro le mie cosce.
Sentendo fra le dita il mio desiderio ancora vivo e inalterato ebbe un momento di tenerezza: “mi hai dato un piacere immenso sai; sarà il nostro piccolo segreto e se lo vorrai presto ti offrirò altri momenti di intimità ed estasi, ti insegnerò tutti i segreti del nostro corpo, ti farò diventare grande. Vuoi?”
Sì, lo volevo e, mentre guidava lentamente, chiusi gli occhi e allargai le gambe per fargli capire quanto gradissi le sue attenzioni unitamente alle sue parole.
Aveva acceso il riscaldamento ed io, appoggiandomi allo schienale, feci scendere leggermente il corpo e le gambe nude verso il basso.
Sentii la sua mano, che aveva momentaneamente lasciato le mie cosce, premere leggermente sulla mia testa attirandola verso di sé, finché il mio viso raggiunse l’incavo del suo basso ventre: improvvisamente sentii sulla guancia il tepore del suo uccello che silenziosamente, dopo averlo estratto dai calzoni, era nuovamente sbocciato come un fiore di campo.
“Senti com’è grosso. E’ merito tuo sai – sussurrò con dolcezza accarezzandomi a lungo – Puoi baciarlo se vuoi”.
Istintivamente mi girai completamente sul fianco e, come avevo fantasticato, lo presi finalmente fra le mani. Con le labbra dischiuse circondai quel tronco nodoso che mi veniva offerto come un dono del cielo e lo baciai timidamente.
“Leccalo un po’ e succhialo, te lo meriti questo premio caro; mostrami quanto sei bravo” mi sussurrò.
L’auto si fermò dolcemente su un lato della carreggiata e io presi in bocca la sua cappella sfidando i successivi conati di vomito provocati da quel precipitoso ingoio mai fatto prima e così maldestramente profondo.
Era caldo e gommoso e imparai presto a sbocchinarlo per bene mentre mi si ingigantiva in bocca. Scendevo e risalivo senza sosta sbavando su quel tronco nodoso che aveva ormai la dimensione di una banana matura.
Come lui stesso mi aveva suggerito guidandomi in quel nuovo gioco, gli cosparsi la cappella di saliva che, con lentezza esasperante, suggevo come un’ape operaia. Sentivo crescere quel frutto divino nella mia bocca mentre lui rantolava e mi accarezzava la testa:“Bagnalo ancora di saliva; così, bravo; no, attento a non stringerlo troppo con i denti; ossignur, mi farai morire; senti, amore, senti come ti scopo in bocca!”.
Improvvisamente lo sentii urlare mentre le sue mani spingevano su e giù con violenza la mia testa sulla sua cappella. Tenendomi fermo mi riempì di sborra la cavità orale e poi gli occhi, le guance, il naso e persino i capelli.
Mi aveva spruzzato dappertutto e un rigolo cremoso mi scendeva da un lato della bocca: lo raccolse con le dita e mi diede da leccare con la lingua quel nettare, acidulo e forte che aveva il sapore di uno yogurt senza zucchero.
Poi tornai con le labbra sulla sua cappella e, con voluttuosi colpi di lingua, eliminai le ultime gocce rimaste, ormai prive di forza, sul glande.
Restammo entrambi sdraiati sui sedili ansimando e con gli occhi semichiusi in preda a dolorosi spasmi in mezzo alle gambe.
Improvvisamente sentii frugare nella mia patta e mi accorsi con gioia che la sua mano mi aveva liberato il pisello stretto come in una morsa dalle mutande: lo tirò fuori completamente e iniziò a segarmi con dolcezza per poi chinarsi prendendolo a sua volta in bocca.
“Voglio il tuo…. voglio ancora il tuo uccello in bocca – mormorai in piena estasi – dammelo di nuovo da succhiare, ti prego”.
Ma lui non mi ascoltò. Voleva farmi partecipe e complice del suo appena raggiunto piacere e dalla mia gola fuoriuscirono, sempre più forti, lamentosi sospiri.
Mi aveva aspirato come un corpo unico cappella e tronco, facendoli annegare nella saliva che mi elargiva copiosa risucchiando e suggendo. Medesimo trattamento riservò alle mie palline ingoiandole ad una ad una e riempendole di sugosa saliva. Poi risalì nuovamente lungo il pisello impadronendosi nuovamente della cappella e ricominciò a pompare, questa volta strizzandomi leggermente i capezzoli. Li lasciò liberi e infine accarezzò il solco del mio sedere per poi insinuare un dito nel mio fiorellino bollente ma senza forzarlo.
A mia volta gli presi fra le mani i radi capelli lisciandoli.
Ero in preda a un deliquio che non potendo trovare uno sbocco naturale stava trasformandosi in un mix di sofferenza e piacere: la mia cappella ormai resa ipersensibile da quei magici colpi di lingua mi provocava sussulti pazzeschi mentre lui mi teneva fermi i fianchi per impedire che il mio uccello gli sfuggisse di bocca. Il suo dito medio, che massaggiava deliziosamente il mio fiorellino anale, diede il colpo di grazia al mio godimento. Improvvisamente, una scarica elettrica partì dal mio cervello e in un baleno raggiunse la mia cappella esplodendo come un fuoco d’artificio.
Sentii quel liquido risalire dentro di me come un fiume in piena, impossibile da fermare. Spaventato provai a liberare il mio pisello ma lui, premendo la bocca sul mio basso ventre, lo imprigionò e, anzi, scendendo ancor più verso il basso, ingoiò tutta la cremosità che stava fuoriuscendo.
Quel nettare era la mia prima sborrata! Era il mio miele, la mia crema quella che lui stava inghiottendo facendomi morire, godere e gridare insieme.
Avevo ancora gli occhi chiusi e il cuore che mi batteva a mille mentre lui risaliva su di me chiudendo e innalzando le mie mani dentro le sue, con i nostri uccelli che si toccavano.
Sentii la sua barba sfregarmi su una guancia e poi la sua voce che languidamente mi sussurrava in un orecchio: “apri la bocca, tesoro; fammi entrare dentro di te”.
Sentii le sue labbra che si poggiavano voluttuosamente sulle mie leccando e sbavando, come fossero burro cacao posato sulle increspature.
Poi con la punta della lingua si insinuò nella mia bocca forzandola sino ad aprirla per riversarvi miele; la sua lingua finalmente libera prese a spalmarlo sul mio palato per poi cercare il mio organo del gusto avvolgendolo e attorcigliandolo come un cavatappi carnoso: sentivo l’acre sapore della nostra sborra sulle papille e il mio pisello ancora muoversi alla ricerca di un desiderio che pareva non placarsi mai.
Restammo così abbracciati a lungo. “mi hai donato la tua prima sborrata ed è stato stupendo averlo fatto insieme come veri uomini” mormorò “Mi hai fatto godere più tu che mio nipote Giuseppe anche se lui da tempo mi offre tutto il suo corpo”. Nel dirmi quelle parole mi solleticò leggermente le chiappe e accarezzò il fiorellino nascosto per farmi capire meglio.
Non era giusto che mi dicesse quelle parole anche perché – pensai - chissà da quando lui e suo nipote, più grande di me, si divertivano insieme. Ad un tratto mi sentii più triste; ma forse era solo gelosia.
Io sarei partito il giorno dopo per tornare a casa e trattenni a stento le lacrime:”Domani torno a Genova”.
“Verrò a trovarti tesoruccio”. Poi mi diede un morso feroce strappandomi un urlo e lasciando il segno della sua dentatura sulla mia spalla sinistra: “Ora mi appartieni, sei mio. Presto sarò a Genova per la fiera e ci rivedremo ancora tante volte, sai.”
Non risposi ma mi leccai le labbra mentre riavviava il motore per tornare in paese.
Mia madre, come andava di moda in quegli anni, era certa che due settimane in campagna, “per cambiare aria” mi avrebbero fatto bene alla salute e la stessa cosa ribadiva il nostro medico di famiglia che, pur di accontentarla e togliersela di torno, era sempre pronto a condividerne pensieri e fobie.
Così i miei genitori a settembre, impossibilitati a muoversi per motivi di lavoro, mi “caricarono” su un treno con destinazione un paesino dell’albese dove, grazie all’ospitalità di vecchi amici di famiglia che mi attesero all’arrivo in stazione facendomi molte feste, alloggiai per due settimane.
Ci andai mal volentieri, lo confesso, anche perché immaginavo che sarei andato incontro a due settimane lunghe e noiose, lontano dagli amici.
Allora avevo 12 anni e non “venivo” ancora ma avevo gli ormoni che andavano a mille e ogni occasione era buona per toccarmi, anzi, per “segarmi”, termine meno formale ma più usato da noi ragazzini.
Io lo facevo, di norma, tre, quattro volte al giorno.
Ovunque avessi un briciolo di intimità mi masturbavo senza ritegno: appena sveglio, oppure la notte nel tepore del mio letto intiepidito a dovere dallo scaldino; durante la giornata in piedi, sul water, che mi appariva come una gigantesca fica di porcellana; oppure d’estate, al mare, tenendomi con una mano a un gavitello mentre l’altra era chiusa attorno all’oggetto del mio piacere solitario in uno spossante “su e giù”.
D’inverno, con i miei al lavoro, mi crogiolavo avvicinando il mio pisello al termosifone di casa e poi godevo smanettandomi col sedere appoggiato al caldo calorifero in un va e vieni sempre più veloce.
In treno il movimento del vagone sulle rotaie e, sull’autobus, gli scossoni dovuti alle buche, avevano di solito la prerogativa di accendermi eroticamente facendomelo rizzare: per nascondere l’imbarazzante situazione ero allora costretto a coprirmi la patta appoggiandovi sopra le gambe il cappotto o qualunque cosa avessi a portata di mano.
Quella mattina, durante il viaggio in treno verso la collina piemontese, mi successe la stessa cosa e, per evitare sguardi indiscreti e curiosi al mio pacco ormai gonfio, mi precipitai nel cesso del vagone di seconda classe.
Mi sbottonai con furia i calzoni, sputai un po’ di saliva sulle dita e, poi, sulla cappella già dilatata per far scivolare meglio la pellicina che la ricopriva. Ero in precario equilibrio, con una mano attaccata al finestrino, ma ciò non mi impedì di segarmi e godere fino a quando qualcuno bussò discretamente alla porta.
Nella cascina, la notte faceva già piuttosto freddo e i due anziani e ospitali coniugi la sera, prima di andare a dormire, si premuravano di farmi sempre trovare nel letto il “prete” uno scaldino di legno con un mattone rovente all’interno per avere le lenzuola tiepide e non soffrire il freddo.
Durante il giorno spesso mi isolavo nel fienile che era diventato il mio rifugio quotidiano: lo raggiungevo salendo una scala a pioli e, nascosto fra le balle di fieno, mi sbottonavo i calzoncini procurandomi il mio piacere solitario.
La mia permanenza a ……. negli ultimi giorni del mio soggiorno era coincisa con la festa del paese: nella piazza grande assemblarono un grande e artistico palco coperto per il ballo e, a poca distanza, venne installato anche un mini lunapark, con una piccola giostra e altri giochi.
Fu in quell’occasione che conobbi Bruno. Aveva la mia stessa età ed era il più piccolo della famiglia di quei nomadi che erano accampati in una grande roulotte a poca distanza dalla giostra.
In quella casa mobile, convivevano a stretto contatto i suoi genitori, la sorella di Bruno, Carmen, e un cugino quindicenne, Giuseppe.
La madre del mio amico era piuttosto corpulenta, con un seno enorme che divenne ben presto oggetto delle mie performances solitarie.
Il papà di Bruno era invece un uomo piuttosto magro e trasandato ma muscoloso, che indossava perennemente un paio di jeans e una canottiera senza maniche che un tempo doveva essere stata bianca. Aveva le mani grandi e callose, sempre nere e unte di grasso a causa della continua manutenzione del motore della giostra che spesso si fermava con lamentosi borbottii.
Con Bruno giocavamo un po’ a tutto e praticamente eravamo sempre insieme come due fratelli.
Una mattina mi disse se volevo andare con lui e suo padre in campagna a cogliere o, meglio, a rubare un po’ d’uva in una vigna poco distante.
Saremmo andati con l’auto e la novità mi intrigava molto perché era un macchinone molto imponente, di quelli con i fari e gli alettoni posteriori triangolari che rendevano quel Fiat 2300 simile a una luccicante Cadillac.
Dissi subito di sì e fissammo l’appuntamento per il primo pomeriggio, davanti alla giostra.
Arrivai con qualche minuto di anticipo ma trovai Bruno stranamente immusonito.
Capii subito il motivo del suo broncio: suo padre, all’ultimo momento, lo aveva obbligato a stare di guardia alla giostra.
“Io però potevo andare lo stesso, così avrei fatto compagnia al suo genitore” aggiunse laconicamente.
Rimasi un attimo titubante: che ci andavo a fare senza il mio amichetto con cui divertirmi? E che compagnia avrei fatto a quell’uomo ispido e con la barba lunga, sempre incavolato col mondo intero e così poco loquace da incutere soggezione al solo guardarlo?
Poi la voglia di salire su quel macchinone color crema, scintillante di cromature e con il cruscotto che pareva la sala comandi di un’astronave, ebbe il sopravvento.
Salii sulla luccicante vettura sprofondando in quei sedili soffici e in finta pelle che parevano la poltrona della nonna.
Uscimmo dal paese e lui inizialmente restò silenzioso, quasi scocciato della mia ingombrante presenza.
La cosa mi intimorì non poco perché non sapevo come comportarmi per essergli gradito e non di impiccio, per assecondarlo in qualche modo.
Ero arrivato persino a pensare di aver fatto una stupidaggine ad essere salito su quel macchinone.
Improvvisamente, quando raggiungemmo lo sterrato, una deviazione che dalla carrozzabile conduceva in aperta campagna, aprì finalmente la bocca: aveva una voce roca e bassa, che oggi definirei sensuale ma che allora mi parve sinistra.
Erano le parole di un adulto che si rivolge quasi con sufficienza a un bamboccio non in grado di comprenderlo appieno e, nel parlarmi, mi indicò con lo sguardo il torrente che scorreva alla nostra destra.
Mi disse se ero mai stato giù al fiume, dove le donne lavavano i panni.
Al mio diniego continuò a parlare raccontandomi che stavano sempre con le vesti alzate per non bagnarle e che molte di loro erano anche senza mutande.
Aggiunse che quelle femmine, come tutte le donne del resto, erano sempre sudice e poco sincere e che una volta al mese avevano pure le loro “cose”; il che le rendeva ancora più sporche!
“Non sono come noi maschi, capisci? Noi siamo semplici e onesti, ci diciamo sempre le cose senza finzioni e a viso aperto. Non ho ragione?”
Annuii più per convenienza che, stante la mia giovane età, per certezze assolute ma devo anche confessare che quelle frasi mi avevano inorgoglito: si era confidato a cuore aperto con un ragazzino come me, come fossi un suo coetaneo e, poi, perché non ammettere che quelle parole mi avevano provocato un certo formicolio in mezzo alle gambe?
Mentre guidava mi accorsi che ogni tanto il suo sguardo cadeva sui miei calzoncini: i suoi discorsi sulle lavandaie e le loro nudità infatti mi avevano eccitato non poco e avevo il pisello duro come un sasso anche se tentavo di nascondere la mia erezione con i gomiti poggiati sulle gambe.
Nel maneggiare il cambio per scalare marcia, accidentalmente la sua mano toccò in modo fuggevole la mia coscia sinistra.
Dopo quella prima volta il movimento però si ripetè e le sue nocche, mentre guardava la strada e fingeva indifferenza, sfiorarono più volte e sempre più pesantemente la mia gamba.
Ciò accese ancor più il mio desiderio: ad ogni cambio di marcia mi toccava la pelle liscia e levigata passando la mano callosa sulla mia gamba nuda che avevo spostato impercettibilmente verso di lui per favorire il contatto,
Ogni volta che lui mi toccava e vellicava la mia setosa peluria sentivo partire una scarica elettrica che raggiungeva il mio cervello e poi tornava giù, sino al mio basso ventre e a quel terminale chiamato uccello che pareva lanciarmi sconosciuti richiami e ondate di lussuria.
Finalmente arrivammo ai bordi di una vigna seminascosta da una stretta curva e il papà di Bruno a quel punto accostò l’auto e spense il motore.
Scendemmo dalla macchina e dal portabagagli estrasse un cestino di vimini e una cesoia da giardiniere.
Iniziò a tagliare alcuni grappoli con una mano mentre con l’altra pareva soppesarli ad uno ad uno: una manovra che a me parve estremamente sensuale e lasciva.
Mentre lo guardavo all’opera rimasi affascinato e stregato da quei movimenti e, ogni volta che le lame con un colpo secco tagliavano il tralcio, rabbrividivo come pervaso da una strana e maliziosa eccitazione che non riuscivo o, forse, non volevo bloccare.
Poi finalmente si fermò e ripose la cesoia nel cesto ormai colmo. Scrutandomi fisso negli occhi, sorridendo, si toccò la patta dei pantaloni: “a me scappa la pipì e a te?”
Scioccamente scossi la testa e rimasi lì impalato mentre lui, forse per nascondere la delusione, si allontanò velocemente sparendo dietro un filare per svuotare la vescica.
La sua fu una pisciata particolarmente lunga: sentivo il rumore scrosciante dell’urina che, sbattendo sulla terra secca e arida, aveva un suono secco e crepitante.
Immaginavo il leggero vapore che sicuramente saliva dal terreno così innaffiato e mi pareva persino di sentire l’odore acre e pungente del piscio, di vederne il colore chiaro e ambrato. Tali sensazioni tumultuose ebbero l’effetto di eccitarmi ancora di più e di convincermi che ero stato uno sciocco a non approfittare del suo invito a urinare insieme.
Io e i miei amichetti lo facevamo spesso e chiamavamo quel gioco gara “a chi piscia più lungo”: in realtà ci guardavamo i piselli e li confrontavamo prima di segarci sul bordo della siepe.
Dicendo no a quell’uomo avevo perso un’occasione forse unica, quella di osservare da vicino l’uccello di un adulto che voleva amichevolmente rapportarsi con me senza alcuna forzatura, solo per verificare quanto fosse grande il suo batacchio rispetto al mio.
Morivo dal desiderio di arrivare al più presto a casa per potermi smanettare in santa pace e placare così la mia impellente voglia ma i miei erotici pensieri da dedicare al mio piacere solitario improvvisamente mutarono.
Il suo ritorno alla mia vista fu infatti imprevisto e choccante: il papà di Bruno non si era affatto ricomposto, anzi. Riapparve con i calzoni completamente aperti e, mentre con una mano sulla cintura si teneva su le braghe, con l’altra avviluppava il suo uccello che fuoriusciva prepotentemente dalle mutande bianche lasciando intravedere una cappella simile per dimensioni a un fungo porcino.
Era un cazzo possente, duro e svettante che a me parve di una misura mostruosa rispetto al mio pisello: guardavo con meraviglia e, insieme, sedotto, quella biscia carnosa che cresceva e si gonfiava, ergendosi verso l’alto.
Lui si avvicinò fissandomi come un serpente di fronte a un coniglietto e tornò a sorridermi invitante: “fammi un po’ vedere cosa nascondi in mezzo alle gambe; sono curioso di vedere se ce l’hai più grosso di mio nipote Giuseppe”.
Lasciò il suo cazzo libero di svettare e passò la mano rimasta inoperosa sotto le mie palle lisciandole e stringendole un poco: “Dài zuccherino, sbottonati i calzoncini e fammi vedere il tuo tesoro”.
Mi aveva colto sul vivo e risentito pensai che anche se il mio pisello poteva avere una minore dimensione di quello di suo nipote c’era comunque una bella differenza di età fra me e Giuseppe che di anni ne aveva ben quindici!
Obbedii comunque. Come un automa le mie mani sfilarono timidamente dalle mutande, divenute ormai troppo strette, il mio uccello che, di fronte al suo, mi parve un passerottino.
Lo prese finalmente in mano e, con un sospiro, lo soppesò come aveva fatto in precedenza con i grappoli d’uva: quasi per magìa il suo palpeggiamento sotto i testicoli ebbe l’effetto di farmi tornare il pisello nuovamente duro.
“Andiamo un po’ più in là” disse “la gente è tanto cattiva, sai” e, posandomi una mano sulla spalla e premendo le dita, mi sospinse sin dietro a un filare, in prossimità di un maestoso albero di noce.
“Le noci mi piacciono” pensai scioccamente mentre lo seguivo in preda a un delirio dei sensi che ancora non afferravo pienamente dove mi avrebbe condotto.
Arrivati sin sotto l’albero lui mi avvicinò ulteriormente a sé con un braccio stretto sulla mia schiena: il suo corpo ora aderiva completamente al mio e la sua mano scese a scompigliarmi i capelli e accarezzarmi il viso, che poggiavano entrambi all’altezza del suo torace.
Con l’altra mano si scappellò interamente il glande che posò sul mio. A quel punto diede il via a un lento movimento simile in tutto e per tutto al va e vieni di una sega: la sua mano ora conteneva come un corpo solo le due cappelle e la pellicina del suo uccello andava a coprire dolcemente il mio glande per poi liberarlo in modo altalenante.
Si chinò leggermente e mi baciò i capelli e poi il collo provocandomi brividi di piacere.
I miei calzoni e le mutandine caddero definitivamente imprigionandomi le caviglie mentre la sua ruvida mano, che prima mi accarezzava capelli, scese lungo la mia schiena per poi soffermarsi per qualche attimo sul mio sedere messo a nudo.
Sentivo le sue dita scorrere lungo il solco alla ricerca del punto più caldo e nascosto e qui si insinuarono dolcemente mentre brividi mai raggiunti in precedenza mi squassavano il ventre.
Le sue mani, grazie a un movimento incessante davanti e dietro il mio corpo, mi provocarono un tremolio prepotente, con vibrazioni sconosciute che velocemente si propagarono su ogni centimetro della mia pelle.
Ad ogni movimento oscillatorio sentivo la sua mano pulsare e premere alternativamente sulla mia spalla e sul mio culo glabro.
Ansimava e godeva ed io, raggiunto e trafitto da mille scariche elettriche, tremavo e godevo con lui che mi stava facendo raggiungere l’estasi, il paradiso dei sensi.
Avrei voluto restare così per sempre ma dopo qualche minuto di piacere assoluto si staccò da me e, a gambe leggermente piegate e divaricate cominciò a masturbarsi violentemente finché vidi diversi fiotti bianchi e cremosi uscire dalla sommità della sua violacea ed enorme cappella sino a ricadere sulla terra concimandola.
Dalla sua bocca uscirono dapprima dei rantoli gutturali seguiti alla fine da un grido strozzato.
Poi, con andatura traballante si avvicinò a un tralcio, staccò una foglia di vite e si ripulì lentamente.
Io intanto avevo iniziato a segarmi da solo, sempre più velocemente e, per un paio di volte, mi riempii le dita di sugosa saliva che poi passavo sulla cappella in fiamme per rendere più scorrevole lo sfregamento.
Ero un cerino ardente e quel concitato finale del nostro amplesso mi aveva travolto: tremavo dalle dita dei piedi ai capelli e mi smanettavo in modo forsennato, a occhi chiusi. Non sentivo neppure dolore per quel filetto che rischiava di spezzarsi per la violenza inusitata di quei colpi d’ariete che non conoscevano stanchezza né pause.
Dalla mia bocca - ero ormai privo di un qualunque senso di imbarazzo o soggezione - uscirono dei mugolii in tutto simili a quelli emessi in precedenza da quel porcone mentre trovava sfogo alla sua libidine sborrando come un torrente in piena.
Guardarlo e ascoltare i suoi mugolii era stato per me un lussurioso piacere che immaginavo intenso e supremo anche se a me, purtroppo, era ancora precluso.
Io infatti non venivo ancora e sarei rimasto lì a masturbarmi all’infinito, stregato da quel moto perpetuo che assicurava solo piacere senza nulla chiedere.
Fu il papà di Bruno a risvegliarmi da quel sogno di cui ormai ero il solo protagonista: “Dài sbrigati, che si fa tardi”.
Lui si era già rivestito e, impaziente, si era acceso una sigaretta.
Io, a malincuore, mi fermai sull’orlo del precipizio e riposi il prezioso oggetto del mio piacere, rosso e infiammato, nelle mutande.
Ormai la mia vacanza era agli sgoccioli e avrei perso il mio nuovo, personale maestro di vita, colui che mi stava svezzando avviandomi a un mondo dei balocchi ricolmo di inusitati piaceri fino a pochi minuti prima inimmaginabili.
Pensavo al mio letto vuoto, al water, al fienile. Dentro a quei pensieri ora trovava posto solo quell’uccello maestoso e il desiderio di toccarlo, di stringerlo e farlo ingrossare fra le mie piccole dita. C’era la voglia di farmi accarezzare a lungo da quelle mani rugose, forti e tenere insieme, che sapevano sempre dove andare facendo suonare come fosse uno strumento il mio corpo, teso come una corda di violino.
Risaliti in macchina, innestando la prima mi riaccarezzò una gamba e infilò la mano fin dentro le mie cosce.
Sentendo fra le dita il mio desiderio ancora vivo e inalterato ebbe un momento di tenerezza: “mi hai dato un piacere immenso sai; sarà il nostro piccolo segreto e se lo vorrai presto ti offrirò altri momenti di intimità ed estasi, ti insegnerò tutti i segreti del nostro corpo, ti farò diventare grande. Vuoi?”
Sì, lo volevo e, mentre guidava lentamente, chiusi gli occhi e allargai le gambe per fargli capire quanto gradissi le sue attenzioni unitamente alle sue parole.
Aveva acceso il riscaldamento ed io, appoggiandomi allo schienale, feci scendere leggermente il corpo e le gambe nude verso il basso.
Sentii la sua mano, che aveva momentaneamente lasciato le mie cosce, premere leggermente sulla mia testa attirandola verso di sé, finché il mio viso raggiunse l’incavo del suo basso ventre: improvvisamente sentii sulla guancia il tepore del suo uccello che silenziosamente, dopo averlo estratto dai calzoni, era nuovamente sbocciato come un fiore di campo.
“Senti com’è grosso. E’ merito tuo sai – sussurrò con dolcezza accarezzandomi a lungo – Puoi baciarlo se vuoi”.
Istintivamente mi girai completamente sul fianco e, come avevo fantasticato, lo presi finalmente fra le mani. Con le labbra dischiuse circondai quel tronco nodoso che mi veniva offerto come un dono del cielo e lo baciai timidamente.
“Leccalo un po’ e succhialo, te lo meriti questo premio caro; mostrami quanto sei bravo” mi sussurrò.
L’auto si fermò dolcemente su un lato della carreggiata e io presi in bocca la sua cappella sfidando i successivi conati di vomito provocati da quel precipitoso ingoio mai fatto prima e così maldestramente profondo.
Era caldo e gommoso e imparai presto a sbocchinarlo per bene mentre mi si ingigantiva in bocca. Scendevo e risalivo senza sosta sbavando su quel tronco nodoso che aveva ormai la dimensione di una banana matura.
Come lui stesso mi aveva suggerito guidandomi in quel nuovo gioco, gli cosparsi la cappella di saliva che, con lentezza esasperante, suggevo come un’ape operaia. Sentivo crescere quel frutto divino nella mia bocca mentre lui rantolava e mi accarezzava la testa:“Bagnalo ancora di saliva; così, bravo; no, attento a non stringerlo troppo con i denti; ossignur, mi farai morire; senti, amore, senti come ti scopo in bocca!”.
Improvvisamente lo sentii urlare mentre le sue mani spingevano su e giù con violenza la mia testa sulla sua cappella. Tenendomi fermo mi riempì di sborra la cavità orale e poi gli occhi, le guance, il naso e persino i capelli.
Mi aveva spruzzato dappertutto e un rigolo cremoso mi scendeva da un lato della bocca: lo raccolse con le dita e mi diede da leccare con la lingua quel nettare, acidulo e forte che aveva il sapore di uno yogurt senza zucchero.
Poi tornai con le labbra sulla sua cappella e, con voluttuosi colpi di lingua, eliminai le ultime gocce rimaste, ormai prive di forza, sul glande.
Restammo entrambi sdraiati sui sedili ansimando e con gli occhi semichiusi in preda a dolorosi spasmi in mezzo alle gambe.
Improvvisamente sentii frugare nella mia patta e mi accorsi con gioia che la sua mano mi aveva liberato il pisello stretto come in una morsa dalle mutande: lo tirò fuori completamente e iniziò a segarmi con dolcezza per poi chinarsi prendendolo a sua volta in bocca.
“Voglio il tuo…. voglio ancora il tuo uccello in bocca – mormorai in piena estasi – dammelo di nuovo da succhiare, ti prego”.
Ma lui non mi ascoltò. Voleva farmi partecipe e complice del suo appena raggiunto piacere e dalla mia gola fuoriuscirono, sempre più forti, lamentosi sospiri.
Mi aveva aspirato come un corpo unico cappella e tronco, facendoli annegare nella saliva che mi elargiva copiosa risucchiando e suggendo. Medesimo trattamento riservò alle mie palline ingoiandole ad una ad una e riempendole di sugosa saliva. Poi risalì nuovamente lungo il pisello impadronendosi nuovamente della cappella e ricominciò a pompare, questa volta strizzandomi leggermente i capezzoli. Li lasciò liberi e infine accarezzò il solco del mio sedere per poi insinuare un dito nel mio fiorellino bollente ma senza forzarlo.
A mia volta gli presi fra le mani i radi capelli lisciandoli.
Ero in preda a un deliquio che non potendo trovare uno sbocco naturale stava trasformandosi in un mix di sofferenza e piacere: la mia cappella ormai resa ipersensibile da quei magici colpi di lingua mi provocava sussulti pazzeschi mentre lui mi teneva fermi i fianchi per impedire che il mio uccello gli sfuggisse di bocca. Il suo dito medio, che massaggiava deliziosamente il mio fiorellino anale, diede il colpo di grazia al mio godimento. Improvvisamente, una scarica elettrica partì dal mio cervello e in un baleno raggiunse la mia cappella esplodendo come un fuoco d’artificio.
Sentii quel liquido risalire dentro di me come un fiume in piena, impossibile da fermare. Spaventato provai a liberare il mio pisello ma lui, premendo la bocca sul mio basso ventre, lo imprigionò e, anzi, scendendo ancor più verso il basso, ingoiò tutta la cremosità che stava fuoriuscendo.
Quel nettare era la mia prima sborrata! Era il mio miele, la mia crema quella che lui stava inghiottendo facendomi morire, godere e gridare insieme.
Avevo ancora gli occhi chiusi e il cuore che mi batteva a mille mentre lui risaliva su di me chiudendo e innalzando le mie mani dentro le sue, con i nostri uccelli che si toccavano.
Sentii la sua barba sfregarmi su una guancia e poi la sua voce che languidamente mi sussurrava in un orecchio: “apri la bocca, tesoro; fammi entrare dentro di te”.
Sentii le sue labbra che si poggiavano voluttuosamente sulle mie leccando e sbavando, come fossero burro cacao posato sulle increspature.
Poi con la punta della lingua si insinuò nella mia bocca forzandola sino ad aprirla per riversarvi miele; la sua lingua finalmente libera prese a spalmarlo sul mio palato per poi cercare il mio organo del gusto avvolgendolo e attorcigliandolo come un cavatappi carnoso: sentivo l’acre sapore della nostra sborra sulle papille e il mio pisello ancora muoversi alla ricerca di un desiderio che pareva non placarsi mai.
Restammo così abbracciati a lungo. “mi hai donato la tua prima sborrata ed è stato stupendo averlo fatto insieme come veri uomini” mormorò “Mi hai fatto godere più tu che mio nipote Giuseppe anche se lui da tempo mi offre tutto il suo corpo”. Nel dirmi quelle parole mi solleticò leggermente le chiappe e accarezzò il fiorellino nascosto per farmi capire meglio.
Non era giusto che mi dicesse quelle parole anche perché – pensai - chissà da quando lui e suo nipote, più grande di me, si divertivano insieme. Ad un tratto mi sentii più triste; ma forse era solo gelosia.
Io sarei partito il giorno dopo per tornare a casa e trattenni a stento le lacrime:”Domani torno a Genova”.
“Verrò a trovarti tesoruccio”. Poi mi diede un morso feroce strappandomi un urlo e lasciando il segno della sua dentatura sulla mia spalla sinistra: “Ora mi appartieni, sei mio. Presto sarò a Genova per la fiera e ci rivedremo ancora tante volte, sai.”
Non risposi ma mi leccai le labbra mentre riavviava il motore per tornare in paese.
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