La mia prima volta (vista da lui)

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LA MIA PRIMA VOLTA (vista da lui)

Conobbi Paolino durante una mia sosta in un paesino dell’albese dove con la mia piccola giostra mi ero fermato in occasione della festa patronale.
Il giovane era in vacanza, ospite di una famiglia di contadini, vecchi amici di famiglia, che lo tennero con loro per un paio di settimane.
Facemmo conoscenza casualmente. Nella piazza grande avevano assemblato un grande e artistico palco coperto per il ballo e, a poca distanza, venne installata anche la piccola giostra della quale ero il proprietario.
Fu in quell’occasione che Paolino conobbe mio figlio Bruno. Avevano la stessa età e il mio ragazzo era il più piccolo della nostra famiglia nomade. Ci eravamo accampati con la roulotte a poca distanza dalla giostra e in quella casa mobile, convivevamo a stretto contatto io, mia moglie Rosa, i miei figli Carmen e Bruno, e un cugino quindicenne, Giuseppe, che, rimasto orfano di entrambi i genitori, avevamo praticamente in affido.
All’esterno della roulotte, appese a una vecchia corda, mi moglie stendeva mutande, reggiseni e magliette di varia misura e mi ero accorto che l’amichetto di mio figlio si soffermava spesso nelle vicinanze goloso, probabilmente, di poterle toccare, odorare e baciare, immaginandosi cosa potevano contenere una volta indossati.
Mia moglie era infatti piuttosto corpulenta: aveva un seno enorme che, di questo ne ero certo, era oggetto delle performances solitarie di mio nipote e, altrettanto sicuramente, di Paolino.
Io ero un tipo piuttosto magro e trasandato ma muscoloso e indossavo perennemente un paio di jeans che ormai stavano in piedi da soli, e una canottiera traforata e senza maniche che, come diceva scherzando mia moglie Rosa, un tempo doveva essere stata bianca.
Avevo anche le mani grandi e callose, nerastre e unte di grasso ma non me ne curavo molto perché ero sempre a smanettare il motore della giostra ormai vecchia e bisognosa di una continua manutenzione.
Bruno e Paolino giocavano un po’ a tutto e praticamente erano sempre insieme come due fratelli.
Una mattina dissi a mio figlio di invitare Paolino in campagna. Saremmo andati tutti insieme con la macchina a cogliere o, meglio, rubare un po’ d’uva in una vigna poco distante.
Avevo raccolto alcune confidenze di mio figlio che, ingenuamente, su mia pressione, mi aveva raccontato alcuni temi dei loro discorsi infantili: le prime curiosità sul sesso.
Avevo così scoperto Paolino non “veniva” ancora ma aveva gli ormoni che andavano a mille e che ogni occasione era buona per toccarsi, anzi, per “segarsi”, termine meno formale ma più usato dai ragazzini.
Lo faceva, di norma, tre, quattro volte al giorno.
Ovunque avesse un briciolo di intimità si masturbava senza ritegno: appena sveglio, oppure la notte nel tepore del letto intiepidito a dovere dallo scaldino; durante la giornata in piedi, sul water, che gli appariva come una gigantesca fica di porcellana; oppure d’estate, al mare, tenendosi con una mano a un gavitello mentre l’altra era chiusa attorno all’oggetto del suo piacere solitario in uno spossante “su e giù”.
Il pensiero e le fantasie più ricorrenti andavano a due ragazze genovesi, entrambe sorelle maggiori di due suoi amici.
Le immaginava invitanti e disponibili e sognava le loro tette da baciare, i loro culetti da accarezzare e lunghe scopate, pensieri che gli provocavano delle erezioni continue e prolungate.
Mio figlio aggiunse che d’inverno, con i genitori al lavoro, Paolino si crogiolava avvicinando il pisello al termosifone di casa e poi godeva smanettandosi col sedere appoggiato al caldo calorifero in un va e vieni sempre più veloce.
Sempre Bruno in altre occasioni, su mia richiesta, mi confessò diversi fatti: raccontò ad esempio che in treno il movimento del vagone sulle rotaie e, sull’autobus, gli scossoni dovuti alle buche, avevano di solito la prerogativa di accendere eroticamente l’amichetto facendoglielo rizzare.
Mio figlio aggiunse che per nascondere l’imbarazzante situazione più di una volta Paolino era stato costretto a coprirsi la patta appoggiando sopra le gambe il cappotto o qualunque cosa avesse a portata di mano.
Ma il suo racconto non si fermò lì aggiungendovi diversi particolari: durante il viaggio in treno verso il Piemonte e le sue basse e coltivate colline, all’amichetto era successo di nuovo e, per evitare sguardi indiscreti e curiosi al pacco ormai gonfio, si era precipitato nel cesso del vagone di seconda classe.
“Si era sbottonato con furia i calzoni, e, sputata un po’ di saliva sulle dita e, poi, sulla cappella già dilatata per far scivolare meglio la pellicina che la ricopriva, si era masturbato a lungo – mi disse Bruno vergognandosi un po’ - Pur in precario equilibrio, con una mano attaccata al maniglione del finestrino, si era segato fino a quando qualcuno bussò discretamente alla porta per fargli capire che aveva impellenti necessità fisiologiche”.
Nella cascina in cui era ospite, la notte faceva già piuttosto freddo i due anziani e ospitali coniugi la sera, prima di andare a dormire, si premuravano di fargli sempre trovare nel letto il “prete” uno scaldino di legno con un mattone rovente all’interno per non soffrire il freddo e potersi infilare nel lettone con le lenzuola tiepide.
Confesso che le rivelazioni fattemi da Bruno continuavano ad arraparmi e, per un paio di volte, rivolsi le mie attenzioni a mia moglie scopandola con violenza ma pensando a Paolino. Una mattina, allontanati con una scusa i miei figli, mentre mia moglie era scesa in paese a fare la spesa, riuscii ad appartarmi anche con Giuseppe, che fottevo da quasi un anno. Mio nipote era diventato da un anno il mio oggetto di piacere, la mia valvola di sfogo: mi facevo succhiare l’uccello e, quando capitava l’occasione, lo prendevo nella roulotte “a pecorina”, una posizione che mi piaceva molto e che lui apprezzava perché contemporaneamente lo segavo e non era raro che sborrassimo insieme.
Ma era Paolino che ora mi faceva impazzire dal desiderio, soprattutto dopo aver saputo che il ragazzino durante il giorno spesso si isolava nel fienile della cascina, il suo rifugio quotidiano: lo raggiungeva salendo una scala a pioli appoggiata accanto all’ingresso della stalla e, nascosto fra le balle di fieno per evitare sguardi indiscreti dall’esterno, si sbottonava i calzoncini procurandosi un lungo e voluttuoso piacere solitario.
Forte di quelle novità, e sempre più voglioso di conoscere meglio l’amico di mio figlio, mi ero accorto che la mia auto intrigava molto quel giovane perché era un macchinone molto imponente, di quelli con i fari e gli alettoni posteriori triangolari che rendevano quel Fiat 2300 simile a una luccicante Cadillac.
Chiesi così a mio figlio di invitare il suo amichetto a fare un giro in macchina: in campagna avremmo rubato anche un po’ d’uva.
Bruno mi confermò l’interesse di Paolino alla gita e fissammo l’appuntamento per il primo pomeriggio, davanti alla giostra.
Il ragazzino arrivò con qualche minuto di anticipo ma, forte della mia autorità paterna, obbligai mio figlio a restare di guardia alla giostra.
Udii Bruno che, imbronciato, rivolgendosi sgarbatamente all’amico, disse: “Mio padre ha detto che tu puoi andare lo stesso, così gli farai compagnia”.
Paolino era rimasto un attimo titubante: “Che ci vado a fare senza potermi divertire con te? E che compagnia farei a tuo padre, un uomo ispido, con la barba sempre lunga di tre giorni e un’espressione perennemente incavolata col mondo intero e così poco loquace da incutere soggezione al solo guardarlo?”
Poi la sua voglia di salire su quel macchinone color crema, scintillante di cromature e con il cruscotto che pareva la sala comandi di un’astronave, ebbe il sopravvento.
Salì sulla mia luccicante vettura sprofondando in quei sedili soffici che parevano la poltrona in finta pelle della nonna.
Uscimmo dal paese e io inizialmente restai silenzioso, fingendo di essere scocciato della sua ingombrante presenza.
La cosa lo intimorì non poco perché non sapeva come comportarsi per essermi gradito e non di impiccio, per assecondarmi in qualche modo.
Improvvisamente, quando raggiungemmo lo sterrato, una biforcazione che dalla carrozzabile conduceva in aperta campagna, aprii finalmente la bocca: mi uscì una voce roca e bassa, gonfia di desiderio che oggi definirei sensuale ma che allora mi parve alquanto sinistra.
Quel ragazzino mi intrippava, lo confesso, ed era quello il motivo per cui avevo fatto in modo di farlo salire sull’auto con una motivazione alquanto banale.
Le mie erano le parole di un adulto che si rivolge quasi con sufficienza a un bamboccio non in grado di comprendermi appieno e, nel parlargli, indicai con lo sguardo il torrente che scorreva alla nostra destra.
Gli chiesi se era mai stato giù al fiume, dove le donne lavavano i panni.
Al suo diniego continuai a parlare raccontandogli che stavano sempre con le vesti alzate per non bagnarle e che molte di loro erano anche senza mutande.
Aggiunsi che quelle femmine, come tutte le donne del resto, erano sempre sudice e poco sincere e che una volta al mese avevano pure le loro “cose”; il che le rendeva ancora più sporche!
“Non sono come noi maschi, capisci? Noi siamo semplici e onesti, ci diciamo sempre le cose senza finzioni e a viso aperto. Non ho ragione?”
Paolino annuì più per convenienza nei miei confronti che, stante la sua giovane età, per certezze assolute ma quelle frasi lo avevano inorgoglito: ero un uomo eppure mi ero confidato a cuore aperto con un ragazzino come lui, come fossi un suo coetaneo e, poi, mi avvidi che quelle parole gli avevano provocato un certo formicolio in mezzo alle gambe.
Mentre guidavo ogni tanto il mio sguardo cadeva sui suoi calzoncini: mi accorsi soddisfatto che i miei discorsi sulle lavandaie e le loro nudità lo avevano eccitato non poco e che aveva il pisello duro come un sasso anche se tentava di nascondere la sua erezione con i gomiti poggiati sulle gambe.
Nel maneggiare il cambio per scalare marcia, accidentalmente la mia mano toccò in modo fuggevole la sua coscia sinistra.
“So che tu e Bruno vi toccate, me lo ha detto sai” azzardai. Paolino rimase muto. Capii di aver colto nel segno e gongolai, ormai certo che stavo per esaudire le mie voglie.
Dopo quella prima volta ripetei il movimento e le mie nocche, mentre guardavo la strada e fingevo indifferenza, sfiorarono più volte e sempre più pesantemente la sua gamba.
Ciò accese ancor più il mio desiderio: ad ogni cambio di marcia gli toccavo la pelle liscia e levigata passando la mia mano callosa sulla sua gamba nuda che aveva spostato impercettibilmente verso di me per favorire il contatto.
Ogni volta che lo toccavo e vellicavo la sua setosa peluria sentivo partire una scarica elettrica che raggiungeva il mio cervello e poi tornava giù, sino al mio basso ventre e a quel terminale chiamato uccello che pareva lanciarmi ben conosciuti richiami e ondate di lussuria.
Finalmente arrivammo ai bordi di una vigna seminascosta da una stretta curva e, a quel punto, accostai l’auto e spensi il motore.
Scendemmo dalla macchina e dal portabagagli estrassi un cestino di vimini e una cesoia da giardiniere.
Con una mano iniziai a sforbiciare alcuni grappoli mentre con l’altra li soppesavo ad uno ad uno: una manovra che a Paolino parve estremamente sensuale e lasciva.
Mentre mi guardava all’opera notai che, affascinato e stregato dai mie movimenti aveva le labbra secche e, ogni volta che le lame con un colpo secco tagliavano il tralcio, rabbrividiva come pervaso da una strana e maliziosa eccitazione.
A quel punto mi fermai e riposi la cesoia nel cesto ormai colmo. Scrutandolo fisso negli occhi, con un sorriso complice, da maschi, mi toccai la patta dei pantaloni: “a me scappa la pipì e a te?”
Paolino stranamente scosse la testa e rimase lì impalato mentre io, forse per nascondere la delusione, mi allontanai velocemente sparendo dietro un filare per svuotare la vescica.
La mia fu una pisciata particolarmente lunga: ascoltavo il rumore scrosciante, e per me musicale, dell’urina calda che, sbattendo sulla terra secca e arida, aveva un suono secco e crepitante.
Mentre guardavo il leggero vapore che saliva dal terreno così innaffiato mi toccavo e sentivo nelle narici l’odore acre e pungente del piscio, ne vedevo il colore chiaro e ambrato. Tali sensazioni tumultuose ebbero l’effetto di eccitarmi ancora di più e, dato un ultimo scrollone all’uccello ancora pendulo ma già “basanotto”, mi convinsi che Paolino non aveva accolto il mio invito a urinare insieme solo per timidezza.
Quel muto diniego non aveva senso perché le vibrazioni che quell’adolescente mi aveva trasmesso erano reali e palpabili: in auto lo avevo sentito fremere al contatto delle mie mani sulla sua coscia, avrebbe potuto finalmente vedere il cazzo di un adulto, magari toccarlo, e, tornato a casa, raccontare quell’avventura ai suoi compagni di giochi dandosi delle arie da adulto.
Di certo lui e i suoi amichetti si guardavano i piselli e li confrontavamo prima di segarsi seminascosti da qualche parte, magari nel parco pubblico.
Non mi diedi per vinto e a quei torbidi pensieri che si accavallavano dentro di me l’ucccello mi tornò nuovamente duro. Morivo dal desiderio di dar sfogo alle mie pulsazioni e pensai addirittura di arrivare al più presto a casa per potermi sfogare con mia moglie o con mio nipote per placare così la mia impellente voglia.
Ma ero altrettanto certo che quel ragazzino col quale mi ero appartato in campagna avesse le mie stesse fantasie erotiche: anche per lui, forse, era pronto un altro piacere ma solitario con cui trastullarsi, magari concependo con la fantasia di toccare il mio uccello. Confuso da tutte queste considerazioni non mi diedi comunque per vinto finché ebbi un’idea.
Così il mio ritorno alla sua vista fu coronato da una visione per lui choccante e imprevista: non mi ero affatto ricomposto, anzi. Riapparvi davanti a lui con i calzoni completamente sbottonati e, mentre con una mano sulla cintura mi tenevo su le braghe, con l’altra avviluppavo il mio uccello che fuoriusciva prepotente e straripante dalle mutande bianche lasciandogli intravedere una cappella simile per dimensioni a un fungo porcino.
Il mio era un cazzo possente, duro e svettante che gli parve sicuramente di una misura mostruosa rispetto al suo pisello: guardava sbigottito e, insieme, sedotto, la mia biscia carnosa che cresceva e si gonfiava, ergendosi verso l’alto.
Mi avvicinai fissandolo come un serpente di fronte alla preda e tornai a sorridergli invitante: “fammi un po’ vedere cosa nascondi in mezzo alle gambe; sono curioso sai, e vorrei vedere se ce l’hai più grosso di Giuseppe, mio nipote”.
Lasciai il mio cazzo libero di svettare e passai la mano rimasta inoperosa sotto il cavallo dei suoi pantaloncini sfiorandogli le palle, lisciandole e stringendole un poco: “Dài zuccherino, slacciati i calzoni e fammi vedere il tuo tesoro”.
L’uccello gli si era leggermente ammosciato, ma, alle mie parole, la sua timidezza si sciolse come per incanto e obbedì. Come un automa le sue mani sfilarono timidamente dalle mutande, divenute ormai troppo strette, il suo uccello che, di fronte al mio, gli parve sicuramente un passerottino.
Lo presi finalmente in mano e, con un sospiro, lo soppesai come avevo fatto in precedenza con i grappoli d’uva: quasi per magìa il mio palpeggiamento sotto i testicoli ebbe l’effetto di fargli tornare il pisello nuovamente duro.
Nel notare piacevolmente impressionato che la mia mano aveva ottenuto l’effetto desiderato mi soffermai ad accarezzare e a scappellare lascivamente il suo uccello che, al contatto, era tornato immediatamente in tiro.
“Andiamo un po’ più in là” dissi “sai, la gente è tanto cattiva” e, posandogli una mano sulla spalla e premendo le dita sulla scapola, lo sospinsi sin dietro a un filare, in prossimità di un maestoso albero di noce dove mi ero liberato la vescica.
Arrivati sin sotto l’albero lo avvicinai ulteriormente a me con un braccio stretto sulla sua schiena: avevo tirato sin sotto le ascelle la mia canotta liberando così i capezzoli diventati duri e pungenti come due chiodi.
Il mio corpo ora aderiva completamente al suo e la mia mano scese a scompigliargli i capelli e accarezzargli il viso, che poggiavano entrambi all’altezza del mio torace.
Con l’altra mano mi scappellai interamente il glande che posai sul suo. A quel punto diedi il via a un lento movimento simile in tutto e per tutto al va e vieni di una sega: la mia mano ora conteneva come un corpo solo le due cappelle e la pellicina del mio uccello andava a coprire dolcemente il suo glande per poi liberarlo in modo altalenante.
Mi chinai leggermente e gli baciai i capelli e poi il collo provocandogli brividi di piacere.
I suoi calzoni e le mutandine caddero definitivamente imprigionandogli le caviglie mentre la mia ruvida mano, che prima gli accarezzava capelli, scese lungo la sua schiena per poi soffermarsi per qualche attimo sul suo sedere messo a nudo.
Le mie dita scorrevano lungo il solco alla ricerca del punto più caldo e nascosto e qui si insinuarono dolcemente mentre ne sentivo i suoi brividi virginali squassargli il ventre.
Le mie mani, grazie a un movimento incessante davanti e dietro il suo corpo, gli provocarono un tremolio prepotente, con vibrazioni sconosciute che velocemente si propagarono su ogni centimetro della sua pelle.
Ad ogni movimento oscillatorio la mia mano pulsava e premeva alternativamente sulla sua spalla e poi sul suo culo glabro.
Ansimavo per il piacere e pure Paolino, raggiunto e trafitto da mille scariche elettriche, tremava e godeva con me facendomi raggiungere l’estasi, il paradiso dei sensi.
Avrei voluto restare così per sempre ma dopo qualche minuto di piacere assoluto dovetti staccarmi da lui e, a gambe leggermente piegate e divaricate, cominciai a masturbarmi violentemente finché diversi fiotti bianchi e cremosi uscirono dalla sommità della mia violacea ed enorme cappella sino a ricadere sulla terra concimandola.
Dalla mia bocca uscirono dapprima dei rantoli gutturali seguiti alla fine da un grido strozzato.
Poi, con andatura traballante mi avvicinai a un tralcio, staccai una foglia di vite e mi ripulii lentamente.
Paolino intanto aveva iniziato a segarsi, in modo sempre più sfrenato e, per un paio di volte, lo vidi riempirsi le dita di sugosa saliva che poi passava sulla cappella in fiamme per rendere più scorrevole lo sfregamento.
Era un cerino ardente e aveva il volto rosso e paonazzo. Quel concitato finale del nostro amplesso lo aveva travolto: tremava dalle unghie dei piedi ai capelli e si smanettava in modo forsennato, a occhi chiusi. Non sentiva neppure dolore per quel filetto che rischiava di spezzarsi per la violenza inusitata di quei colpi d’ariete che non conoscevano stanchezza né pause.
Dalla bocca del giovane - ormai privo di un qualunque senso di imbarazzo o soggezione - uscirono dei mugolii in tutto simili a quelli emessi in precedenza da me mentre, da vero porcone vizioso, sborrando come un torrente in piena, avevo trovato – io sì! - sfogo alla mia libidine.
Guardarmi e ascoltare i miei mugolii per Paolino era stato certamente un lussurioso piacere intenso e supremo anche se a lui, purtroppo, era ancora precluso.
Infatti non veniva ancora e sarebbe rimasto lì a masturbarsi all’infinito, stregato da quel moto perpetuo che assicurava solo piacere senza nulla chiedere.
Fu io a risvegliarlo da quel sogno di cui ormai era il solo protagonista: “Dài sbrigati, che si è fatto tardi”.
Io mi ero già rivestito e guardandomi intorno, preoccupato e impaziente, mi ero acceso una sigaretta.
Il ragazzino, a malincuore, si fermo sull’orlo del precipizio e ripose l’oggetto del suo piacere, rosso e infiammato, nelle mutande.
Ero ormai certo che dentro ai lussuriosi pensieri di Paolino di sicuro ora non c’era più posto per le enormi tette e il culo sino al giorno prima così arrapanti di mia moglie. Nella sua mente ora si era localizzato solo il mio uccello maestoso e il desiderio di toccarlo, di stringerlo e vederlo ingrossare fra le sue esili dita.
In lui ora c’era solo la voglia di farsi accarezzare a lungo dalle mie mani rugose, forti e tenere insieme, che sapevano sempre dove andare facendo suonare come fosse uno strumento il suo giovane corpo, teso come una corda di violino.
Risaliti in macchina, innestando la prima gli riaccarezzai una gamba e infilai la mano là dove le sue cosce si univano.
Sentendo fra le dita il suo desiderio ancora vivo e inalterato ebbi un momento di tenerezza: “Mi hai dato un piacere immenso sai e sentivo il tuo cuoricino battere all’impazzata; sarà il nostro piccolo segreto e, per ricompensarti, presto ti offrirò altri momenti di intimità ed estasi, ti indicherò tutti i punti più desiderabili e caldi, ti insegnerò le gioie del nostro corpo, ti farò diventare grande e pronto ai piaceri della vita. Vuoi?”
La sua mano si allungò sino alla mia coscia toccandola e accarezzandola più volte in un muto desiderio.
Mamma mia! Non solo lo voleva, lo bramava! Mentre guidavo lentamente, chiuse gli occhi e allargò le gambe per farmi capire quanto gradisse le mie attenzioni unitamente a quelle eccitanti parole, dolci come il miele.
Nell’abitacolo era sceso un silenzio strano e irreale, come quando visto un lampo si resta in attesa dell’immancabile boato del tuono. Avevo acceso il riscaldamento e lui, appoggiandosi allo schienale, si lasciò andare leggermente verso il basso con il corpo e le gambe nude.
La mia mano, che aveva momentaneamente lasciato le sue cosce, premette leggermente sulla sua testa attirandola verso di me, finché il suo viso raggiunse poco per volta il mio ombelico e, infine, l’incavo del mio basso ventre.
Le mie dita ora si muovevano nervosamente vicino al suo orecchio. Aveva gli occhi socchiusi quando improvvisamente sentì sulla guancia il tepore della mia carne: era il mio uccello che, sgusciato dai calzoni, era nuovamente sbocciato come un fiore di campo.
“Senti com’è tornato gonfio amore. Ed è solo merito tuo sai – sussurrai con dolcezza accarezzandogli a lungo i capelli – So che vorresti baciarlo e non sarò certo io a negarti questo piacere per te nuovo”.
Istintivamente si girò completamente sul fianco e impugnò il mio tronco nodoso fra le mani. Con le labbra dischiuse lo avvolse sulla sommità: era un dono del cielo quello che gli offrivo e, grato, lo baciò timidamente per poi ritrarsi.
“Leccalo un po’ e succhialo, ti meriti questo premio caro; mostrami quanto sei bravo” gli sussurrai.
Fermai dolcemente l’auto su un lato dello sterrato e il ragazzo prese completamente in bocca la mia cappella sfidando i successivi conati di vomito provocati da quel precipitoso ingoio mai fatto prima e così maldestramente profondo.
Il mio cazzo era caldo e gommoso e imparò presto a sbocchinarmi per bene mentre la mia banana, indurendosi, si ingigantiva nella sua bocca. Scendeva e risaliva senza sosta sbavando sul mio tronco bollente e venoso che aveva ormai assunto la dimensione di quel frutto maturo da lui sbucciato con le labbra.
Come io stesso gli avevo suggerito guidandolo in quel nuovo coinvolgente gioco, mi cosparse la cappella di saliva che, con lentezza esasperante, suggeva come un’ape operaia.
Quel frutto divino cresceva nella sua bocca mentre io rantolavo e sussultavo alzando più volte il bacino per favorirne l’ingoio. Gli accarezzavo la testa chiamandolo con strani epiteti, come fosse una femmina: “Bagnalo ancora di saliva; così, sei proprio una brava bocchinara sai; no, attenta a non stringerlo troppo con i denti porcona; mmmmmhhh, sei proprio una vacca da monta; nessuno mi ha mai fatto godere così tanto, dài troietta”.
Nel sussurrargli tali oscenità, alcune delle quali a lui incomprensibili, gli avevo preso la testa fra le mani per tenerlo più fermo. Spingevo su e giù il mio cazzone nella sua bocca e ripresi a parlargli alternando a termini ancora più osceni e lussuriosi, mielate parole: “Ossignur, mi farai morire; senti amore, senti come ti scopo in bocca! Dài piccola troia, pompa, pompa puttanella in calore, pompami che ora ti sborro in quella bocca da bocchinara”.
Improvvisamente mi misi a urlare mentre le mie mani spingevano su e giù con violenza la sua testa sulla mia cappella. Poi, tenendolo fermo come un burattino i cui fili si erano improvvisamente spezzati, gli riempii di sborra la cavità orale e poi gli occhi, le guance, il naso e persino i capelli. Qualche goccia era persino finita sul sedile in similpelle ma non me ne curai affatto ghermito da ben altri stimoli.
Lo avevo letteralmente inondato dappertutto e un rigolo cremoso e filamentoso gli scendeva da un lato della bocca: lo raccolsi con le dita perché non andasse perso e gli diedi da leccare con la lingua quel nettare, acidulo e forte che aveva il sapore di uno yogurt senza zucchero.
Poi spinsi la mia cappella nuovamente sulle sue labbra e gli sussurrai di eliminare a colpi di lingua le ultime gocce rimaste, ormai prive di forza, sul glande. Ogni mia richiesta era per lui un gradevole ordine e, come fossimo in un giardino delle delizie, si affrettò con piacere ad obbedire, come uno schiavo ossequioso nei confronti del suo esigente padrone.
Restammo entrambi sdraiati sui sedili: io ansimavo come un mantice mentre Paolino, con gli occhi semichiusi, pareva in preda a dolorosi spasmi in mezzo alle gambe.
Improvvisamente decisi di frugare nella sua patta e si accorse con gioia che la mia mano gli aveva liberato il pisello stretto come in una morsa dalle mutande: lo tirai fuori completamente e iniziai a segarlo con sapiente dolcezza, per poi chinarmi maggiormente verso di lui prendendolo a mia volta in bocca.
“Ti voglio dentro di me…. voglio ancora il tuo uccello in bocca – mormorava Paolino in piena estasi libidinosa – dammelo di nuovo da succhiare, ti prego”.
“Scopami in bocca, sono la tua puttanella vogliosa – disse ripetendo le parole lascive che gli avevo sussurrato mentre mi spompinava – Dài, te ne prego; voglio ancora sbocchinarti voglio che mi vieni ancora in faccia”.
Ma io, ormai svuotato completamente, non lo ascoltai. Volevo farlo partecipe e complice del mio piacere appena raggiunto e dalla sua gola fuoriuscirono, sempre più forti, lamentosi sospiri.
Aspirai come un corpo unico cappella e tronco, facendoli annegare nella saliva che gli elargivo copiosa risucchiando e suggendo. Medesimo trattamento riservai alle sue palline ingoiandole ad una ad una e riempendole di sugosa saliva. Poi risalii nuovamente lungo il pisello impadronendomi nuovamente della cappella e ricominciai a pompare, questa volta strizzandogli leggermente i capezzoli. Li lasciai liberi e infine accarezzai il solco del suo sedere per poi insinuare il dito medio nel suo fiorellino bollente, ma senza forzarlo.
A sua volta mi prese fra le mani i radi capelli grigi lisciandoli e tirandoli per farmi comprendere appieno quanto stava godendo sotto la guida della mia bocca umida e abile.
Era in preda a un deliquio che non potendo trovare uno sbocco naturale stava trasformandosi in un mix di sofferenza e piacere: i miei magici colpi di lingua, ora lenti e sugosi, ora frenetici, provocavano in lui sussulti pazzeschi e la sua cappella, grande quanto una ciliegia, era diventata ormai ipersensibile.
Mentre gli tenevo fermi i fianchi per impedire che il suo uccello mi sfuggisse di bocca il mio dito medio, che gli massaggiava deliziosamente l’interno del solco, ad un certo punto si insinuò leggermente nel suo fiorellino anale per poi penetrarlo con un colpo secco che lo fece sobbalzare. Per il suo godimento fu il colpo di grazia: all’improvviso una scarica elettrica gli partì dal cervello e in un baleno raggiunse la sua cappella esplodendo come un fuoco d’artificio.
Quel liquido risalì dentro di lui attraversandolo come un fiume in piena, impossibile da fermare. Spaventato provò a liberare il suo pisello dalla mia morsa labiale ma io, premendo la bocca sul suo basso ventre, lo imprigionai e, anzi, scendendo ancor più verso il basso, ingoiai tutta la cremosità che stava fuoriuscendo.
Quel nettare era la sua prima sborrata! Era il suo miele, la sua crema quella che io stavo inghiottendo facendolo morire, godere e gridare insieme.
Aveva ancora gli occhi chiusi e il cuore che gli batteva a mille mentre io risalivo su di lui chiudendo e innalzando sopra le nostre teste le sue mani intrecciate dentro le mie, con i nostri uccelli che si toccavano e si muovevano come due bisce in calore.
La mia barba sfregò su una sua guancia e poi udì la mia voce che languidamente gli sussurrava in un orecchio: “Apri la bocca, tesoro; fammi entrare dentro di te”. Le sue urla rimasero così strozzate dentro la mia bocca mentre le nostre lingue si attorcigliarono ancora in modo forsennato.
Solo dopo qualche minuto staccammo le nostre bocche da quel vortice che ci aveva tenuto incollati: le sue labbra ora si poggiavano voluttuosamente sulle mie leccando e sbavando, come fossero burro cacao posato sulle increspature per riempirle e lenire le nostre ferite amorose.
Poi con la punta della lingua mi insinuai di nuovo nella sua bocca per riversarvi altro miele e la mia lingua finalmente libera di muoversi a suo piacimento riprese a spalmare quel restante nettare sul suo palato per poi cercare il suo organo del gusto avvolgendolo e attorcigliandolo come un cavatappi carnoso. Avevo capito che il bacio alla francese era per lui una fonte di piacere nuova assoluta e a quel punto, dopo averlo lasciato respirare per qualche attimo gli ordinai di girare la lingua attorno alla mia. Mentre Paolino mugolava tornai a riempirgli la bocca: gustavo l’acre sapore della nostra sborra sulle papille e sentivo il suo pisello muoversi ancora, alla ricerca di un folle desiderio di sesso che non riusciva a placare.
Restammo così abbracciati a lungo.
“Mi hai donato la tua prima sborrata ed è stato stupendo averlo fatto insieme, come veri uomini” mormorai “Mi hai fatto godere più tu che mio nipote Giuseppe anche se lui da tempo mi offre tutto il suo corpo”. Nel dirgli quelle parole gli solleticai leggermente le chiappe e accarezzai il fiorellino nascosto sino a insinuarvi questa volta il dito indice per fargli capire meglio le mie aspettative.
Ad un tratto lo sentii intristirsi. Mi disse che sarebbe partito il giorno dopo per tornare a casa e trattenne a stento le lacrime: ”Domani torno a Genova, quando potremo rivederci?”
“Verrò a trovarti tesoruccio”. Poi gli diedi un morso feroce strappandogli un urlo e lasciando il segno della mia dentatura sulla sua spalla sinistra: “Ora mi appartieni, sei la mia piccola troia, vero? Presto sarò a Genova col luna park e ci rivedremo ancora tante volte, sai. Questa volta sarò solo e potremo usare la roulotte”.
Non rispose ma si leccò in modo voluttuoso le labbra mentre io riavviavo il motore per tornare in paese.


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2011-05-05
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