La neve può essere tiepida (cap.4 di 7)
di
Diagoras
genere
sentimentali
Mi stavano curando e mi stavano rifocillando.
Quella famiglia di contadini russi rappresentava la mia temporanea salvezza.
Avevo incontrato gente semplice, buona ed onesta; cercavano di riscaldare non solo il mio corpo, ma anche la mia anima smarrita.
Il giorno successivo il tutto si ripetè per tre volte.
Al mattino, al pomeriggio e alla sera.
Il padre cercava di salvarmi i piedi dal congelamento e Natasha mi portava da mangiare.
Cominciavo a sentirmi meglio: quel gelo, che pensavo non mi avrebbe più abbandonato, lentamente se ne stava andando, grazie al calore delle coperte e di quella parete di legno sempre calda, e grazie, soprattutto, alle cure che mi venivano prestate.
Sentivo di non avere più la febbre e i piedi stavano recuperando sensibilità, e quelle minestre calde, di cavoli e patate, mi stavano restituendo parte dell'energia che avevo perso in quei lunghi giorni di marcia e di freddo.
Anche la mente aveva ripreso a ragionare con maggiore lucidità: incominciavo a pensare a cosa fare, a dove andare, visto che non sarei potuto rimanere in quella legnaia in eterno: ma più i miei pensieri s’indirizzavano verso il futuro che mi attendeva, più mi assaliva lo sconforto di trovarmi in una situazione senza una reale via d’uscita.
Ed il secondo giorno della mia permanenza fra quella brava gente, d’improvviso, lo spettro della morte tornò a presentarsi in tutta la sua drammaticità.
Il padre e Natasha erano andati via da poco, quando, agitati e preoccupati, e senza alcun preavviso, tornarono di corsa nella legnaia.
La tavola che chiudeva il mio nascondiglio fu tolta in tutta fretta e subito Natasha si lasciò cadere accanto a me.
Quindi il padre, il più velocemente possibile, riposizionò la tavola e la legna sopra di essa, chiudendo in quello spazio ristretto la figlia insieme a me, e, sempre con efficiente rapidità, uscì dalla legnaia, tirandosi la cigolante porta alle spalle.
I due non si erano detti nemmeno una parola, probabilmente perché non c’era bisogno di parlare.
Non capivo cosa diavolo stesse succedendo.
Guardai Natasha, in quel tenue chiarore che la luce del giorno faceva filtrare dall'esterno: ma lei aveva sul volto un’espressione seria e preoccupata, completamente diversa da quella delle volte precedenti in cui mi aveva portato da mangiare.
Quando i suoi occhi incontrarono i miei, la ragazza si portò un dito alle labbra, facendomi il chiaro segno di tacere e di non fare nessun rumore.
Passarono alcuni minuti interminabili e poi sentii le voci, voci di uomini, soldati o partigiani, che parlavano con i genitori di Natasha; li sentii entrare in casa e avvicinarsi alla parete dietro la quale eravamo nascosti, sicuramente per scaldarsi al calore della stufa.
E fu allora che capii.
Quel nascondiglio, quella tana dove mi stavano ospitando, era il rifugio predisposto per Natasha, il luogo dove i genitori la nascondevano per evitarle il rischio, se non la certezza, della violenza da parte degli uomini, fossero essi soldati russi o partigiani, o gruppi di sbandati che rubavano e violentavano.
La tenevano nascosta per proteggerla, per salvare la cosa più importante e preziosa che quella vita stentata aveva donato loro.
Sicuramente avevano dovuto difendere la figlia anche dai tedeschi, e forse dagli italiani, quando la loro avanzata era sembrata travolgente.
Cercavano amorevolmente di salvarle la vita, tentando disperatamente, e con tutti i mezzi a loro disposizione, di custodire quel tesoro che la provvidenza aveva offerto loro.
Era l'amore assoluto e incondizionato di una madre e di un padre verso la figlia.
Natasha era immobile, lo sguardo fisso davanti a sè, persa in pensieri che sicuramente la tormentavano e l’atterrivano.
Restammo così per un tempo che mi parve lungo e terribile, fino a quando non sentimmo quegli uomini andare via.
Forse un'ora dopo che se ne furono andati, il padre tornò e fece uscire la figlia, riportandola in casa.
Erano ormai quattro giorni che mi trovavo nascosto in quella legnaia, e le mie condizioni di salute erano decisamente migliorate; i piedi erano tornati alla normalità, caldi e sensibili, e quel senso di sfinimento che mi aveva prostrato era alla fine del tutto scomparso.
A ventiquattro anni si faceva in fretta a recuperare le forze, anche nelle condizioni più disagiate.
Credo fosse pomeriggio inoltrato di quel quarto giorno, quando il padre di Natasha venne da me.
Da solo, in quell’occasione.
Ed era la prima volta che Natasha non lo accompagnava.
L’uomo aveva in mano abiti lisi e rammendati e un paio di scarpe che avevano visto tempi migliori, e anche un piccolo tascapane con un pò di viveri: mi guardò a lungo e in quello sguardo lessi tutte le parole che non potevamo dirci.
Era giunto il momento che io me ne andassi.
Era dispiaciuto, lo capivo dall’espressione seria del suo volto, ma dovevo assolutamente andare via.
La mia presenza era, per tutti loro, un rischio troppo grande; se i soldati o i partigiani mi avessero trovato lì, in quella casa, l’intera famiglia sarebbe stata fucilata.
E capii anche che la paura di quell'uomo non era tanto per sè stesso, ma per la moglie e la figlia.
Guardandolo sempre fisso negli occhi, annuii, in segno di comprensione, ringraziandolo mutamente per tutto quello che aveva fatto per me.
L'uomo tirò fuori della tasca un foglietto di carta sgualcito e me lo mise davanti agli occhi. Era come un disegno fatto da un bambino ai primi anni di scuola: una casa, il bosco alle sue spalle e, dopo il bosco, non si capiva quanto dopo, una strada.
Il padre di Natasha mi stava indicando la via per avere ancora una pallida speranza di salvezza.
Mi doveva mandare via, e sicuramente era dispiaciuto per quel suo gesto, ma voleva ancora una volta aiutarmi: i suoi occhi non mi vedevano come un nemico, ma solo come un ragazzo che avrebbe potuto essere suo figlio.
Nel disegno c'era anche una luna nel cielo.
Me ne sarei dovuto andare di notte, proprio quella notte che stava per arrivare.
Lo guardai, annuendo ancora.
Gli tesi la mano e lui me la strinse, a lungo.
Anche se non capiva l'italiano, lo ringraziai, sperando che intuisse la mia gratitudine dal tono della mia voce commossa.
Mi mostrò ancora una volta quel suo strano sorriso a metà, forse il massimo che le preoccupazioni di quei giorni gli potevano concedere, e andò via, lasciandomi solo nel rifugio che mi aveva salvato.
Dovevo andarmene.
E anche presto.
La notte era prossima.
Togliere loro il pericolo della mia presenza in quella casa: era quello l'unico modo che avevo a disposizione per mostrargli tutta la mia riconoscenza e gratitudine.
Era ora di ricominciare a cercare la strada per tornare a casa.
Riprendeva la mia strenua lotta per la sopravvivenza.
- continua -
Quella famiglia di contadini russi rappresentava la mia temporanea salvezza.
Avevo incontrato gente semplice, buona ed onesta; cercavano di riscaldare non solo il mio corpo, ma anche la mia anima smarrita.
Il giorno successivo il tutto si ripetè per tre volte.
Al mattino, al pomeriggio e alla sera.
Il padre cercava di salvarmi i piedi dal congelamento e Natasha mi portava da mangiare.
Cominciavo a sentirmi meglio: quel gelo, che pensavo non mi avrebbe più abbandonato, lentamente se ne stava andando, grazie al calore delle coperte e di quella parete di legno sempre calda, e grazie, soprattutto, alle cure che mi venivano prestate.
Sentivo di non avere più la febbre e i piedi stavano recuperando sensibilità, e quelle minestre calde, di cavoli e patate, mi stavano restituendo parte dell'energia che avevo perso in quei lunghi giorni di marcia e di freddo.
Anche la mente aveva ripreso a ragionare con maggiore lucidità: incominciavo a pensare a cosa fare, a dove andare, visto che non sarei potuto rimanere in quella legnaia in eterno: ma più i miei pensieri s’indirizzavano verso il futuro che mi attendeva, più mi assaliva lo sconforto di trovarmi in una situazione senza una reale via d’uscita.
Ed il secondo giorno della mia permanenza fra quella brava gente, d’improvviso, lo spettro della morte tornò a presentarsi in tutta la sua drammaticità.
Il padre e Natasha erano andati via da poco, quando, agitati e preoccupati, e senza alcun preavviso, tornarono di corsa nella legnaia.
La tavola che chiudeva il mio nascondiglio fu tolta in tutta fretta e subito Natasha si lasciò cadere accanto a me.
Quindi il padre, il più velocemente possibile, riposizionò la tavola e la legna sopra di essa, chiudendo in quello spazio ristretto la figlia insieme a me, e, sempre con efficiente rapidità, uscì dalla legnaia, tirandosi la cigolante porta alle spalle.
I due non si erano detti nemmeno una parola, probabilmente perché non c’era bisogno di parlare.
Non capivo cosa diavolo stesse succedendo.
Guardai Natasha, in quel tenue chiarore che la luce del giorno faceva filtrare dall'esterno: ma lei aveva sul volto un’espressione seria e preoccupata, completamente diversa da quella delle volte precedenti in cui mi aveva portato da mangiare.
Quando i suoi occhi incontrarono i miei, la ragazza si portò un dito alle labbra, facendomi il chiaro segno di tacere e di non fare nessun rumore.
Passarono alcuni minuti interminabili e poi sentii le voci, voci di uomini, soldati o partigiani, che parlavano con i genitori di Natasha; li sentii entrare in casa e avvicinarsi alla parete dietro la quale eravamo nascosti, sicuramente per scaldarsi al calore della stufa.
E fu allora che capii.
Quel nascondiglio, quella tana dove mi stavano ospitando, era il rifugio predisposto per Natasha, il luogo dove i genitori la nascondevano per evitarle il rischio, se non la certezza, della violenza da parte degli uomini, fossero essi soldati russi o partigiani, o gruppi di sbandati che rubavano e violentavano.
La tenevano nascosta per proteggerla, per salvare la cosa più importante e preziosa che quella vita stentata aveva donato loro.
Sicuramente avevano dovuto difendere la figlia anche dai tedeschi, e forse dagli italiani, quando la loro avanzata era sembrata travolgente.
Cercavano amorevolmente di salvarle la vita, tentando disperatamente, e con tutti i mezzi a loro disposizione, di custodire quel tesoro che la provvidenza aveva offerto loro.
Era l'amore assoluto e incondizionato di una madre e di un padre verso la figlia.
Natasha era immobile, lo sguardo fisso davanti a sè, persa in pensieri che sicuramente la tormentavano e l’atterrivano.
Restammo così per un tempo che mi parve lungo e terribile, fino a quando non sentimmo quegli uomini andare via.
Forse un'ora dopo che se ne furono andati, il padre tornò e fece uscire la figlia, riportandola in casa.
Erano ormai quattro giorni che mi trovavo nascosto in quella legnaia, e le mie condizioni di salute erano decisamente migliorate; i piedi erano tornati alla normalità, caldi e sensibili, e quel senso di sfinimento che mi aveva prostrato era alla fine del tutto scomparso.
A ventiquattro anni si faceva in fretta a recuperare le forze, anche nelle condizioni più disagiate.
Credo fosse pomeriggio inoltrato di quel quarto giorno, quando il padre di Natasha venne da me.
Da solo, in quell’occasione.
Ed era la prima volta che Natasha non lo accompagnava.
L’uomo aveva in mano abiti lisi e rammendati e un paio di scarpe che avevano visto tempi migliori, e anche un piccolo tascapane con un pò di viveri: mi guardò a lungo e in quello sguardo lessi tutte le parole che non potevamo dirci.
Era giunto il momento che io me ne andassi.
Era dispiaciuto, lo capivo dall’espressione seria del suo volto, ma dovevo assolutamente andare via.
La mia presenza era, per tutti loro, un rischio troppo grande; se i soldati o i partigiani mi avessero trovato lì, in quella casa, l’intera famiglia sarebbe stata fucilata.
E capii anche che la paura di quell'uomo non era tanto per sè stesso, ma per la moglie e la figlia.
Guardandolo sempre fisso negli occhi, annuii, in segno di comprensione, ringraziandolo mutamente per tutto quello che aveva fatto per me.
L'uomo tirò fuori della tasca un foglietto di carta sgualcito e me lo mise davanti agli occhi. Era come un disegno fatto da un bambino ai primi anni di scuola: una casa, il bosco alle sue spalle e, dopo il bosco, non si capiva quanto dopo, una strada.
Il padre di Natasha mi stava indicando la via per avere ancora una pallida speranza di salvezza.
Mi doveva mandare via, e sicuramente era dispiaciuto per quel suo gesto, ma voleva ancora una volta aiutarmi: i suoi occhi non mi vedevano come un nemico, ma solo come un ragazzo che avrebbe potuto essere suo figlio.
Nel disegno c'era anche una luna nel cielo.
Me ne sarei dovuto andare di notte, proprio quella notte che stava per arrivare.
Lo guardai, annuendo ancora.
Gli tesi la mano e lui me la strinse, a lungo.
Anche se non capiva l'italiano, lo ringraziai, sperando che intuisse la mia gratitudine dal tono della mia voce commossa.
Mi mostrò ancora una volta quel suo strano sorriso a metà, forse il massimo che le preoccupazioni di quei giorni gli potevano concedere, e andò via, lasciandomi solo nel rifugio che mi aveva salvato.
Dovevo andarmene.
E anche presto.
La notte era prossima.
Togliere loro il pericolo della mia presenza in quella casa: era quello l'unico modo che avevo a disposizione per mostrargli tutta la mia riconoscenza e gratitudine.
Era ora di ricominciare a cercare la strada per tornare a casa.
Riprendeva la mia strenua lotta per la sopravvivenza.
- continua -
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