Una bigotta impenitente

di
genere
incesti

Una bigotta impenitente

1.
Zia Giuditta era una donna austera, che incuteva un timore riverenziale negli interlocutori, persino nei familiari. Aveva superato i 60 anni e si era pensionata, abbandonando il suo lavoro di maestra elementare e dedicandosi a tempo pieno alle opere pie. Era la sorella più grande di mia madre e viveva sola nella vecchia casa gentilizia di famiglia, non molto distante dalla nostra. Donna di chiesa, non aveva voluto sposarsi, non so se per il suo carattere troppo rigido o per via delle dicerie che in paese le attribuivano relazioni inconfessabili con i vari parroci che si erano alternati in cattedrale. La sua era una figura matronale e, anche se era sempre vestita in maniera castigatissima, non poteva occultare la sua corporatura robusta e rotonda, i fianchi larghi e pronunciati, il seno prominente compresso a forza nel busto e un culone maestoso.
Si mostrava sempre accigliata ed anche con noi familiari era alquanto brusca ed avara di sorrisi. Andare da lei per noi nipoti era una vera afflizione, anche perché non lesinava rimproveri di ogni genere. Quando passava da casa per salutare mia madre c’era un fuggi fuggi di noi nipotini, nel tentativo di scampare alle sue occhiate ed alle sue parole mai gentili. Ma, a dire di mia madre, non era cattiva e andava presa per il suo verso; eppoi, anche se non richiedeva mai un aiuto, vivendo da sola dovevamo certamente farci carico di prestarle la massima attenzione e collaborazione.
Avevo compiuto 15 anni e cominciavo a guardare con occhi un po’ morbosi alle ragazze ed alle donne; ma zia Giuditta mi appariva proprio l’opposto dell’immagine che mi ero fatto del sesso femminile. Se le donne erano quelle, meglio restare illibati per l’eternità, pensavo tra me e me. E siccome la zia, quando mi incontrava, non faceva altro che tuonare contro le tentazioni dell’adolescenza, io la evitavo il più possibile.
Ma un bel giorno non potei proprio sottrarmi dal recarmi a casa sua: mia madre insistette con determinazione perché le portassi delle conserve che aveva messo da parte per lei e perché le chiedessi se avesse bisogno di qualche altra cosa. Bussai al portone della casa patrizia, ma nessuno veniva ad aprire. Insistei un altro paio di volte, ma ancora niente. Aspettai qualche minuto, poi sbuffando mi stavo preparando a riportare indietro l’otre che mi aveva dato mia madre, quando avvertii un piccolo tramestìo e, subito dopo, sul portone comparve la zia: avevo uno sguardo al solito imbronciato, ma mi colpirono i suoi capelli un po’ scarmigliati, il volto ancora un po’ bagnato e l’accappatoio scuro che l’avvolgeva. Era evidente che si stava lavando. Mi scusai con lei per il disturbo, mi

rispose farfugliando parole incomprensibili. Scrutò quello che portavo con me, mi disse di entrare e mi precedette sino alla cucina, dove posai il recipiente delle conserve. Mi disse di sedermi, di bere un po’ d’acqua per dissetarmi e di aspettarla lì per qualche minuto, chè avrebbe terminato quel che stava facendo in bagno.
Nella casa regnava un silenzio tombale, risuonavano solo i suoi movimenti in bagno, più frenetici e rumorosi del solito. Incuriosito, non resistei alla voglia di andare a vedere cosa succedeva, senza paura di essere sgridato. Mi mossi in punta di piedi e mi avvicinai alla porta del bagno che era socchiusa e che lasciava intravedere il lavabo e lo specchio. Proprio nello specchio si rifrangeva il corpo enorme della zia, intenta a finire di asciugarsi, ed ebbi modo di guardare, per la prima volta nella mia vita, le sue nudità: le sue mammellone polpose e un po’ cadenti, con due aureole scure molto dilatate; una pancia ampia con un ombelico incavato e un bassoventre ricoperto da folta peluria scura; due cosce piene e tornite dalla cellulite; due chiappone rotonde ma abbastanza sode con un solco alto e profondo. Per me fu come scoprire un nuovo continente: per la prima volta vedevo in zia Giuditta una donna, matura sì ma alquanto appetitosa, e non quella gelida e acida precettrice di rigore e di catechismo. E debbo dire che quella visione aveva immediatamente prodotto una reazione nei miei pantaloni e, se ne avessi avuto la libertà, sicuramente mi sarei sparato una bella sega.
Tornai alla chetichella in cucina e cercai di farmi passare quella improvvisa ed inattesa eccitazione. Dopo cinque minuti la zia riapparve in cucina, più ordinata e rilassata, pettinata e profumata, e riuscì persino ad abbozzare un sorriso. Le chiesi se non aveva più bisogno di me e se potevo tornare a casa. Mi disse di sì e mi pregò di ricordare a mia madre che l’indomani era stata ordinata una messa in suffragio dell’anima di mia nonna.
Uscii di corsa dalla casa anche per occultare alla vista di zia Giuditta il vistoso rigonfiamento dei miei pantaloni, ma per la prima volta avevo provato una forte attrazione per lei, e della cosa ero francamente stupefatto.
Certo è che da quel giorno cominciai a guardarla con altri occhi e anche lei entrò di prepotenza nella galleria delle donne cui dedicavo le mie seghe pomeridiane. Per questa ragione, anziché evitarla, come avevo fatto sino ad allora, ricercai le occasioni per andare più spesso da lei, con grande soddisfazione di mia madre che vedeva in questo mio nuovo atteggiamento il segno della mia incipiente maturità. Ma debbo dire che la zia cominciò a trattarmi con minore distanza e con minore cipiglio: evidentemente, la mia maggiore frequentazione della casa la faceva sentire un po’ meno sola.
La consuetudine delle visite e il clima di maggiore fiducia mi avevano liberato del senso di timore e di impaccio che avevo sempre avvertito verso la zia, e mi ero reso più padrone di me e più disinvolto. Pur stando attento a non suscitare qualche sua reazione, mi muovevo più liberamente in casa, cercavo di spiarla quando si piegava per raccogliere qualcosa e mostrava in un solo colpo le proporzioni matronali del culo e del seno, trattenendo sempre più a fatica l’eccitazione, che puntualmente sfogavo il pomeriggio quando mi masturbavo immaginando di chiavarmela in tutte le più svariate e sfrenate posizioni.
Una mattina, intorno a mezzogiorno, ero andato da lei a portarle un vassoio di dolci che mia madre aveva fatto in casa. Mi aveva fatto entrare ed accomodare in cucina, come sempre; ma aveva una strana agitazione, si era ritirata in camera sua e non ne veniva fuori nemmeno dopo un quarto d’ora. Un po’ incuriosito e un po’ preoccupato, mi avvicinai alla sua camera da letto e mi misi a guardare attraverso lo spioncino della serratura. Lo spettacolo che si apriva dinanzi ai miei occhi era a dir poco sconvolgente: la zia era sdraiata sul letto a gambe larghe e faceva roteare in mezzo alle cosce un poderoso cetriolo, dimenando tutto il bacino ed emettendo sospiri languidi e lascivi, mentre con la mano libera si comprimeva uno dei capezzoli. Zia Giuditta si stava masturbando alla grande e farfugliava parole indecifrabili, l’unica delle quali riuscii a comprendere distintamente era “Genesio”.
Nella mia mente scattò subito il collegamento: era quello il nome del parroco della chiesa che lei frequentava, un uomo dal portamento compassato, sui 50 anni, con i capelli grigi e un po’ radi e due occhi profondi velati dagli occhiali da vista. A quella scena conturbante, comunque, non riuscii a resistere, me lo tirai fuori dai pantaloni e cominciai a menarmelo; sborrai dopo qualche minuto dentro il fazzoletto che avevo in tasca e, dopo averle gridato dal corridoio che avevo fretta di andare, sgattaiolai fuori della sua casa ancora frastornato da quella scoperta.
Nei giorni successivi sentii la voglia di scavare di più nella vita segreta di mia zia, cominciando con il cercare di capire se ci fosse qualcosa tra lei e don Genesio. Mi appostavo nei pressi della chiesa e restavo nascosto a lungo per seguire il viavai delle bigotte. Dopo alcuni giorni di osservazione mi accorsi che ad un orario preciso, circa le 15 del pomeriggio, quando tutti pranzano o riposano nelle loro case e il portone della chiesa era chiuso, la zia Giuditta si infilava alla chetichella dentro la porticina socchiusa della canonica e non ne usciva se non dopo un’ora e mezza, stavolta dalla porta principale della chiesa che, nel frattempo era stata riaperta dal sagrestano. I miei sospetti si erano rivelati fondati.
Era chiaro che don Genesio riceveva la visita di zia Giuditta per ragioni non propriamente pastorali. Mi scervellavo per capire come fare per scoprire la verità, per sorprenderli sul fatto. Entrai in chiesa, finsi di raccogliermi in preghiera, in realtà mi misi a perlustrare attentamente con gli occhi la disposizione delle uscite verso l’interno e, approfittando della disattenzione generale, mi infilai nel corridoio buio che portava alla canonica e mi resi conto che un paio di finestroni posti in alto guardavano appunto verso l’interno.
Il giorno dopo mi inventai una scusa e dissi a mia madre che non sarei tornato a pranzo. Mi rifugiai in chiesa prima dell’orario di chiusura antimeridiana (le 13.30) e, non visto, mi nascosi nell’androne della canonica, accovacciandomi appunto vicino ad uno dei finestroni del corridoio. Restai lì in silenzio più di un’ora, con un’ansia che cresceva tra la paura di essere scoperto e l’eccitazione di essere testimone di una scena di sesso e di peccato. Verso le 14.30 sentii i primi rumori e mi affacciai al finestrone: don Genesio stava mettendo ordine nel suo studio e mi sembrava particolarmente su di giri. Mi sistemai meglio per godermi la scena e non dovetti pazientare troppo.
Alle 15 in punto la zia Giuditta entrò con fare furtivo nella canonica, si avvicinò a don Genesio e si genuflesse per baciargli la mano. Il parroco, che era seduto alla sua poltrona non si mosse, fece un segno della croce sulla testa della zia e pose la sua mano sopra i suoi capelli, come volesse assecondarla nelle sue preghiere. Mia zia, restando in ginocchio e seguendo un copione che doveva essere ben collaudato, armeggiava sulla patta dei pantaloni del parroco e gli aveva tirato fuori un bastone di tutto rispetto che presto sparì dentro la sua bocca. Stavo assistendo ad uno straordinario bocchino e per l’eccitazione incontenibile avevo cominciato anch’io a tirarmelo; guardavo mia zia che se lo lavorava divinamente con la bocca e con la lingua e quel sant’uomo di don Genesio che godeva con il capo reclinato sulla spalliera della poltrona. Ad un certo punto il parroco aveva delicatamente allontanato la bocca di mia zia dal suo arnese e, fattala rialzare e girare di spalle, le aveva sollevato la lunga gonna scoprendole il culone maestoso e l’aveva fatta piegare in avanti, facendole appoggiare le mani sul bordo della scrivania. Poi aveva tirato fuori un tubetto di crema e ne aveva spalmato il contenuto con cura lungo il solco delle chiappe della zia, indirizzando subito dopo il bastone ancora ben teso verso il buco del culo.
La scena diventava sempre più arrapante e, quando con una serie di colpi piuttosto forti don Genesio era entrato trionfalmente nelle viscere di zia Giuditta, senza che lei emettesse alcun lamento, la mia masturbazione arrivò al culmine e feci appena in tempo a tirar fuori un fazzoletto per raccogliere il getto potente del mio seme. Quasi contemporaneamente il buon parroco aveva estratto il suo pistolone dalle chiappe di zia Giuditta e l’aveva fatta girare e inginocchiare davanti a sé, poi le aveva aperto la camicia, aveva tirato fuori con grande padronanza dal corpetto le sue grandi zinne ed aveva piazzato l’arnese proprio nel bel mezzo. La zia, senza profferire alcuna parola, aiutandosi con le mani, aveva cominciato a far scorrere su e giù il cazzo di don Genesio tra le sue mammelle, praticandogli una masturbazione eccezionale, alla quale il prelato non resistette se non pochi minuti, dopo di che eiaculò abbondantemente inondandole della sua crema biancastra il seno e il collo sino al mento. La zia prontamente si spalmò il liquido sulla pelle, massaggiandosi energicamente le zinne, e poi immediatamente riprese in bocca il bastone del parroco ancora gocciolante e lo nettò con la lingua.
Rimasero così, lui sempre seduto alla sedia col capo riverso all’indietro, lei in ginocchio con la faccia adagiata sul cazzo e sui coglioni di lui, per diversi minuti. Poi si rialzarono, si ricomposero e si inginocchiarono affiancati in preghiera.
La scena era al limite dell’inverosimile. Avevano scopato senza ritegno, ma l’avevano fatto assorti, senza fiatare, come seguendo un rituale religioso, e alla fine chiedevano perdono a Dio dei loro peccati….. Certo è che, finita la preghiera, lei si era nuovamente inginocchiata per baciare la mano al parroco e lui l’aveva rapidamente congedata con una benedizione.
Ancora confuso e incredulo scesi di soppiatto dal mio nascondiglio, o meglio osservatorio, e rientrai in chiesa, giusto in tempo con l’orario di riapertura pomeridiana. Quella cui avevo assistito era stata una visione scioccante, che capovolgeva ai miei occhi l’idea che avevo di mia zia, oltre che del buon parroco. Per tutto il pomeriggio, la sera e la notte non feci che pensare a quel che avevo visto; ero contrariato, ma anche eccitato dalla scoperta, e non riuscivo a decidere quale comportamento tenere verso mia zia.


2.
La mattina seguente, intorno alle 10, senza pensarci troppo, quasi macchinalmente mi recai a casa della zia. Non mi aspettava e, quando venne ad aprirmi, notai che mi guardava con aria sospettosa ed interrogativa. Entrai quasi senza salutare e mi diressi immediatamente verso la cucina, riempiendo subito un bicchiere d’acqua per dissetarmi.
La zia mi seguì e continuò a guardarmi intensamente per penetrare il segreto di quel mio comportamento inusuale. Poi sbottò e mi chiese cosa avessi. Le risposi con un grugno lamentoso, aumentando in tal modo l’enigmaticità della situazione. Lei si accorse che c’era qualcosa di sospetto nel mio silenzio, ma non poteva immaginare la ragione del mio atteggiamento. Allora tornò ad essere la burbera che era sempre stata e mi redarguì acidamente, dandomi dello scostumato e del perdigiorno e invitandomi senza troppe remore a tornarmene a casa.
Mi alzai di scatto, con il volto imbronciato e mi diressi verso l’uscio, ma prima di uscire lanciai un’imprecazione pronunciando il nome proibito: don Genesio. La zia restò come fulminata, sbiancò all’improvviso, ebbe appena la forza di chiamarmi mascalzoncello, ma via via le parole le rimanevano in bocca. La lasciai così interdetta, ancora sotto l’effetto della inattesa scudisciata, e scappai via.
Nei giorni successivi non mi feci vivo con lei, ma ebbi modo di controllare che le sue visite pomeridiane in canonica si erano tutto ad un tratto interrotte. Ma la mia sfacciata allusione era stata un allarme troppo esplicito per restare così, senza seguito.
La reazione di zia Giuditta non fu immediata, ma evidentemente meditata con attenzione. Attese di incontrare mia madre all’uscita della chiesa e si lamentò ampiamente del mio modo di fare, aggiungendo che frequentavo pessime compagnie e che lei avrebbe voluto farmi un fervorino come si deve. Mamma trasecolò, non aveva la minima percezione della fondatezza delle lagnanze di zia, ma se ne preoccupò al punto che quando rientrai in casa mi fece una scenata inaudita. A mamma non potevo (e non volevo) spiegare le cose che avevo visto; mi limitai a rassicurarla che avrei chiarito tutto con la zia e che sarei passata a trovarla quanto prima. Ma mi tenevo alla larga dalla casa di zia Giuditta, un po’ perchè continuavo a credere che prima o poi sarebbe stata lei a cercarmi, un po’ perché non sapevo da dove ricominciare con lei, dopo essere stato testimone dei suoi furtivi e lascivi incontri con il parroco.
Un giorno la incrociai casualmente per strada e non ebbi modo di evitarla; quando mi vide si fermò e mi squadrò aggrottando le sopracciglia. Mi scusai balbettando di non essere passato da lei negli ultimi giorni, le preannunciai una visita per le 15 (la fatidica ora x).
Per quanto un pò impacciato, mi presentai puntuale alla sua porta. La trovai particolarmente nervosa, ma piuttosto aggiustata e più desiderabile del solito. Mi fece accomodare come sempre in cucina e si sedette di fronte a me, come se dovesse sottopormi ad un esame.
Mi sentivo in suo pugno. Con la forza della disperazione mi feci coraggio e decisi di giocare all’attacco. Cominciai con lo scusarmi per l’orario, ma aggiunsi perfidamente che avevo avuto modo di constatare che a quell’ora l’avevo vista qualche volta uscire di casa per recarsi in chiesa. Accusò il colpo ma trattenne l’ira, comprese che non poteva trattarmi come un ragazzino impertinente, cominciò a interrogarsi su quello che passava per la mia mente.
Visto il suo imbarazzo pensai di continuare nell’offensiva e, simulando la più sconcertante ingenuità, le chiesi come mai recasse in chiesa in un orario in cui la chiesa è notoriamente chiusa. Non rispose alla domanda, cercò di ribaltare la situazione chiedendomi cosa ci facessi in giro io a quell’ora. Non mi scomposi, le spiegai che certe volte non avevo voglia di stare in camera a riposare o a studiare e che gironzolavo per il paese per ingannare la noia, anzi che alcune volte mi ero intrufolato in chiesa passando dalla canonica.
A quell’affermazione arrossì violentemente e mi chiese come fosse stato possibile per me passare inosservato agli occhi del parroco. Sghignazzando lievemente le spiegai che a quell’ora il parroco era intento in ben altre faccende e che, anzi, mi era capitato di osservarlo in atteggiamenti un pò curiosi con qualche bigotta. La zia era un peperone, aveva abbassato gli occhi, con un filo di voce riuscì a chiedermi, quasi implorante, se e che cosa avevo visto. Ora ero io ad averla in pugno.
Decisi di approfittare della evidente difficoltà della zia. Mi avvicinai di più a lei e, facendo un pò il misterioso, le soffiai in un orecchio che, senza volerlo, avevo assistito ad una strana seduta spirituale tra il parroco ed una devota. Dissi che non ci avevo capito molto, ma che ricordavo bene l’accaduto. E, prima che la zia potesse dire alcunché, cominciai a descriverle al rallentatore la scena cui avevo assistito, chiedendo lumi proprio a lei circa i movimenti dei due.
Zia Giuditta capì perfettamente il gioco sottile che stavo conducendo con lei e comprese anche che non sarebbe servito a nulla rifugiarsi in una impennata di autoritarismo; perciò, d’un tratto, cambiò atteggiamento e tattica. Si sforzò di apparire comprensiva e di sorridere e, accarezzandomi la testa, cominciò a spiegarmi che anche i preti sono uomini e come tali non sono insensibili ai piaceri della carne. Poi, prendendo decisamente l’iniziativa, cominciò a mimare la scena che le avevo descritto. Si inginocchiò dinanzi a me, mi sbottonò i pantaloni e mi tirò fuori l’uccello, cominciando a tirarmelo. Poi continuò esattamente come l’avevo vista all’opera con don Genesio, me lo prese in bocca, lo ciucciò con grande maestria e, quando si rese conto che stavo per venire, si denudò in fretta e furia il petto e mi lasciò sborrare sui suoi seni.
Ero al settimo cielo, era il primo bocchino della mia vita, ed a farmelo era stata la donna che in quel momento desideravo di più. Mi godetti quel momento fantastico, ma non persi tempo a chiederle lumi sul prosieguo della scena. E la zia prontamente inscenò il secondo atto mettendosi di spalle, alzandosi la gonna e mostrandomi il suo culone portentoso. A quella vista il mio cazzo tornò rapidamente a inturgidirsi e, con l’aiuto delle sue mani, riuscii a introdurlo al centro delle chiappe e a spingere fino a farlo scomparire in quel paradiso di carne. Lo sfregamento del mio cazzo dentro il suo canale anale mi procurò un altro godimento inenarrabile, ma sul più bello la zia lo fece uscire, si girò e cominciò una masturbazione con le zizze (una “spagnola”, così mi fu etichettata in seguito questa specialità) inducendomi ad una seconda eiaculazione che si concluse stavolta nella sua bocca.
Ero estasiato e le dissi che era stata magnifica, che mi aveva fatto capire la forza irresistibile del desiderio d’amore, che in fondo lo stesso don Genesio meritava l’umana comprensione. Aggiunsi che il bastone del parroco mi era sembrato ben più robusto del mio; ma la zia sorniona mi rispose che, per la mia età, era già ben dotato e che promettevo bene. Rimarcò che l’adolescenza è un’età delicata, che io avevo sicuramente bisogno di completare la mia educazione sentimentale, e che lei era ben lieta di farsene carico.
La ringraziai di tutto cuore e mi prenotai per la lezione successiva. Mi disse che mi aspettava l’indomani, all’ora che più mi riusciva comoda. Le risposi guardandola negli occhi che sarei passato da lei alle 18, perché alle 15 possono sopraggiungere impegni ed imprevisti; eppoi aggiunsi che, a quell’ora, mi piaceva sostare sul sagrato della chiesa per assistere a strane manovre intorno alla canonica. Zia sorrise a denti stretti. Aveva capito che io avevo capito ed era ammirata della mia sottile intelligenza.
Da quel giorno i nostri rapporti sono completamente cambiati. Lei è molto gentile e premurosa con me e mi concede le grazie del suo corpo con grande generosità: una nave scuola di prima classe. Mi soddisfa ogni desiderio, anche il più perverso (come quello, ad esempio, di annaffiarla in vasca da bagno con la mia urina), ma vedo che si prende anche i suoi piaceri (è letteralmente ossessionata di prenderlo in culo ed assetata del mio seme, che ingoia con gusto). In pochi mesi sono diventato, grazie a lei, un amante provetto, dieci anni più avanti dei miei coetanei.
E la chiesa? Sì, continua a frequentarla quotidianamente, ma solo di mattina; non so se si incontri ancora con don Genesio, ma, se lo fa, la cosa non mi disturba più di tanto. Non ho motivo di essere geloso: mi dà tutto quello che voglio, e anche di più.
scritto il
2012-03-07
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