999
di
Xilia
genere
dominazione
Eccoti lì, umiliata e sofferente, malgrado tu mi avessi sottolineato che proprio oggi non era possibile. Forse proprio per questo.
Come da mia richiesta ti sei tolta jeans e collant, hai indossato la minigonna più corta che avevi in armadio e malgrado fuori l’inverno abbia ormai sostituito l’autunno, sei uscita in strada. Hai camminato fino al parco più vicino soffrendo per il freddo e per gli sguardi ludibri alle tue gambe nude e lì ti sei seduta su una delle panchine che fiancheggiano il viale ghiaiato. Rabbrividendo per il contatto del metallo ghiacciato con la pelle delle cosce hai aspettato il mio messaggio.
È arrivato dopo oltre un’ora.
Levati le mutande, spalanca le gambe e metti le mani dietro la schiena. Rimani così, senza coprirti per nessuna ragione e conta fino a mille. Anzi, siccome ieri sei stata brava e hai bevuto tutto, facciamo novecentonovantanove. Poi potrai tornare a casa.
Lo farai, come sempre, perché se tu non mi ubbidissi ciecamente il rapporto tra noi due a cui evidentemente tieni molto, e che ti riempie tanto l’esistenza da farti sentire veramente viva, perderebbe ogni suo senso, prosciugandosi.
Ti alzi, sfili gli slip e li butti nella borsetta, ti risiedi al centro della panca, divarichi al limite le gambe, tremando di freddo e di paura, porti le mani dietro la schiena e sottovoce inizi il conteggio.
“Uno, due, tre, quattro...”
L’aria gelida sfiora il tuo inguine e vasocostringe le tue intimità.
“Trentanove, quaranta...”
Il tempo scorre lentissimo.
“Novantotto, novantanove, cento...”
Una coppietta si avvicina.
“Centodieci, centoundici...”
Ti passa davanti. Ti vede.
“Centotredici, centoquattordici...”
Ridacchiano, proseguendo.
“Centodiciannove, centoventi...”
Il ragazzo si gira più volte mentre si allontanano.
“Centotrentuno, centotrentadue...”
A trecentottantaquattro è sopraggiunto un anziano con il cane al guinzaglio. Faceva finta di nulla, sbirciando però di continuo la tua vagina bellamente esposta. Il tuo rossore s’è fatto di fuoco quando l’ansimante quadrupede ha attraversato improvvisamente il vialetto e, mentre il padrone cercava goffamente di recuperare il lungo filo riavvolgibile, ha seguito il suo olfatto ed è venuto a fare la tua conoscenza a suo modo: annusandoti con insistenza l’organo genitale.
“Vieni via! Via!” Sta strillando il vecchietto, imbarazzato quasi quanto te. Senti il naso canino contro le tue intimità e ti sforzi di non farti sopraffare dall’istinto di chiudere le gambe e scacciare il fido - aggettivo calzante - buongustaio.
Enumeri ora ad alta voce, mentre senti la ruvida lingua lapparti, per non perdere il conto.
“Quattrocentouno!... Quattrocentodue!...”
La bestiola viene finalmente strattonata via e la tua voce pian piano si calma.
Il vecchietto interrompe a metà parola le sue scuse, indeciso se sia il caso o meno di fartele, e si allontana per riaffondare il più velocemente possibile nella sua normalità.
“Quattrocentonovantanove, cinquecento...”
Il tuo corpo volontariamente sofferente e succube è qualcosa che trascende la bellezza. M’incammino verso di te.
“Cinquecentouno, cinquecentodue…”
“Cinquecentoquarantasette, cinquecentoquarantotto...”
Non mi hai mai disubbidito. Mai. Nemmeno quando ho esagerato. Nemmeno quando ti ho chiesto di tatuarti Sono la cagna di MS su un gluteo. Ogni volta che riguardo quel marchio, da vacca di mia proprietà, e ripenso a quante volte hai risposto al tatuatore perplesso “Sì, sono sicura”, la tua voglia di essere sottomessa, torturata, umiliata... mi commuove. Vorrei prenderti il dolce viso tra le mani e riempirlo di baci, ringraziarti per ciò che sei e cercare d’esprimerti quanto mi renda felice che tu esista, che tu abbia scelto me, ma so che non gradiresti. E così le carezze che vorrei farti diventano schiaffi, le parole d’amore ordini duri e impietosi. I baci sputi. E i sorrisi lacrime.
“Cinquecentonovantanove, Seicento...”
Sono ormai alle tue spalle, ma ancora non lo sai.
“Seicentosessantacinque, seicentosessantasei...”
Quando appoggio la mano sulla tua spalla sobbalzi.
“Sei... seicentosessanta... sette... seicento...”
Mi infilo nel colletto e scendo fino al seno.
“...Sessantotto, seicento... sessanta...”
Lo palpo.
“...Nove... Sei... Seicento...”
Guardi in basso cercando di capire se la mano sia davvero la mia.
“...Settanta...”
Prendo il capezzolo tra pollice e indice.
“...Sei... cento...”
Lo stringo, lo torco.
“Settantuno! Seicento...”
Stai quasi gridando.
Lo tiro. Gli conficco l’unghia del pollice.
“…Settanta...”
La sofferenza traspare cristallina dalla tua voce.
“…Due... Seicento... settanta... tré.”
Continuando a torturarti il capezzolo tiro fuori di tasca ciò che ho raccolto da terra prima mentre ti osservavo e te li porto davanti al viso per mostrarteli.
“Seicentosettantotto, seicentosettantanove...”
Sento una vibrazione di panico.
“Sei... centottanta...”
I tre ricci di ippocastano, ancora chiusi, sono eccezionalmente grandi.
“Seicentottantuno, seicentottantadue...”
Abbasso il braccio.
“Seicentottantatré, seicentottantaquattro, seicentottantac...”
Senti i corti aculei di riccio contro la delicata pelle tra le tue gambe.
“...Cinque... Seicentottanta... sei...”
Li senti farsi largo e affondare dolorosamente nella tua carne.
“Seicento... Seicentottasette... Seicentottantotto...”
Ti scappa un gemito straziante, poi riprendi difficoltosamente il conteggio.
“Seicentonovantatré, seicentonovantaquattro...”
Ti spingo dentro anche il secondo riccio, che entrando si apre aumentando ulteriormente di volume mentre le castagne fuoriescono nella tua vagina.
“Settecentouno, settecentodue...”
Singhiozzi piangendo.
“Settecentodieci, settecentoundici...”
Provo ad infilarti dentro anche il terzo, invano.
“Settecentoventiquattro, settecentoventicinque...”
Allora lo affondo oltre il tuo perineo, schiacciandolo tra il tuo ano ed il ferro della panchina.
“Settecentotrentasei, Settecentotrentasette...”
Sei meravigliosa. Così sofferente e in lotta con te stessa per resistere all’ennesimo supplizio.
“Settecentoquarantotto, settecentoquarantanove...”
Non posso fare a meno di chinarmi per baciarti sul collo, prima di allontanarmi senza nemmeno essermi fatto vedere.
“Settecentonovantanove, ottocento...”
Pochi minuti prima che finisca anche questo tormento ti passa davanti un gruppetto di ragazzi.
“Ottocentocinquantadue, ottocentocinquantatré...”
Si fermano a osservarti. Ti chiedono qualcosa a cui non rispondi.
“Ottocentosessantanove ottocentosettanta...”
Estraggono i loro smartphone e iniziano a fotografarti.
“Ottocentottantotto, ottocentottantanove...”
Una ragazza col piercing tra le narici si avvicina per un primissimo piano del tuo sesso, poi alza il braccio fino a inquadrare il tuo bellissimo viso stravolto dal dolore e dalla vergogna.
“Novecento. Novecentouno...”
Un altro inizia una diretta su un social network e strilla esagitato in camera dove si trova e con chi. “Non ci crederete mai! Non ci crederete mai!” Ripete prima di girare verso di te la fotocamera.
“Novecentoventiquattro, novecentoventicinque...”
Poi iniziano i selfie.
C’è chi per autocelebrarsi ti si siede accanto, chi ai piedi, in modo da immortalare con se stesso la tua vulva arrossata, chi ti mette un braccio intorno alle spalle (ma senza toccarti, come per un atavico rispetto nei confronti della vittima sacrificale) e chi alle spalle fingendo, almeno così mi pare da qui, di stringerti i seni.
“Novecentonovanta, novecentonovantuno...”
I ragazzi iniziano a contare ad alta voce con te. Percepiscono anche loro dal tuo affanno che è quasi finita.
“Novecentonovantasette!”
“Novecentonovantotto!”
“Novecentonovantanove!...”
Richiudi le gambe, ti alzi in piedi riabbassando la minigonna e ti allontani velocemente.
Ci son rimasti male; s’erano tenuti l’apogeo del pathos per il numero a quattro cifre.
Fanno un’ultima foto al riccio che tenevi tra le chiappe e che è rotolato a terra mentre camminavi via e se ne vanno ridacchiando.
Mi incammino dietro di te, con calma, come dovresti fare tu. Ancora non te ne sei accorta, ma dalla borsetta che tenevi tra le mani dietro la schiena ti ho rubato le chiavi di casa e quindi sarai costretta ad aspettarmi davanti al portone di casa. Non sarà piacevole, lo so, con il freddo che hai e con i due ricci ancora dentro di te. Con tutta quella gente che passa di lì e che in buona parte conosci...
Mi fermo davanti al primo bar che trovo, faccio volare le tue chiavi nell’aria gelida e le riafferro al volo. Poi entro. Ci vuol proprio un caffè.
Magari faccio anche uno spuntino...
Ti amo.
Altri miei racconti li potete trovare qui: vivereperraccontare.wordpress.com
Come da mia richiesta ti sei tolta jeans e collant, hai indossato la minigonna più corta che avevi in armadio e malgrado fuori l’inverno abbia ormai sostituito l’autunno, sei uscita in strada. Hai camminato fino al parco più vicino soffrendo per il freddo e per gli sguardi ludibri alle tue gambe nude e lì ti sei seduta su una delle panchine che fiancheggiano il viale ghiaiato. Rabbrividendo per il contatto del metallo ghiacciato con la pelle delle cosce hai aspettato il mio messaggio.
È arrivato dopo oltre un’ora.
Levati le mutande, spalanca le gambe e metti le mani dietro la schiena. Rimani così, senza coprirti per nessuna ragione e conta fino a mille. Anzi, siccome ieri sei stata brava e hai bevuto tutto, facciamo novecentonovantanove. Poi potrai tornare a casa.
Lo farai, come sempre, perché se tu non mi ubbidissi ciecamente il rapporto tra noi due a cui evidentemente tieni molto, e che ti riempie tanto l’esistenza da farti sentire veramente viva, perderebbe ogni suo senso, prosciugandosi.
Ti alzi, sfili gli slip e li butti nella borsetta, ti risiedi al centro della panca, divarichi al limite le gambe, tremando di freddo e di paura, porti le mani dietro la schiena e sottovoce inizi il conteggio.
“Uno, due, tre, quattro...”
L’aria gelida sfiora il tuo inguine e vasocostringe le tue intimità.
“Trentanove, quaranta...”
Il tempo scorre lentissimo.
“Novantotto, novantanove, cento...”
Una coppietta si avvicina.
“Centodieci, centoundici...”
Ti passa davanti. Ti vede.
“Centotredici, centoquattordici...”
Ridacchiano, proseguendo.
“Centodiciannove, centoventi...”
Il ragazzo si gira più volte mentre si allontanano.
“Centotrentuno, centotrentadue...”
A trecentottantaquattro è sopraggiunto un anziano con il cane al guinzaglio. Faceva finta di nulla, sbirciando però di continuo la tua vagina bellamente esposta. Il tuo rossore s’è fatto di fuoco quando l’ansimante quadrupede ha attraversato improvvisamente il vialetto e, mentre il padrone cercava goffamente di recuperare il lungo filo riavvolgibile, ha seguito il suo olfatto ed è venuto a fare la tua conoscenza a suo modo: annusandoti con insistenza l’organo genitale.
“Vieni via! Via!” Sta strillando il vecchietto, imbarazzato quasi quanto te. Senti il naso canino contro le tue intimità e ti sforzi di non farti sopraffare dall’istinto di chiudere le gambe e scacciare il fido - aggettivo calzante - buongustaio.
Enumeri ora ad alta voce, mentre senti la ruvida lingua lapparti, per non perdere il conto.
“Quattrocentouno!... Quattrocentodue!...”
La bestiola viene finalmente strattonata via e la tua voce pian piano si calma.
Il vecchietto interrompe a metà parola le sue scuse, indeciso se sia il caso o meno di fartele, e si allontana per riaffondare il più velocemente possibile nella sua normalità.
“Quattrocentonovantanove, cinquecento...”
Il tuo corpo volontariamente sofferente e succube è qualcosa che trascende la bellezza. M’incammino verso di te.
“Cinquecentouno, cinquecentodue…”
“Cinquecentoquarantasette, cinquecentoquarantotto...”
Non mi hai mai disubbidito. Mai. Nemmeno quando ho esagerato. Nemmeno quando ti ho chiesto di tatuarti Sono la cagna di MS su un gluteo. Ogni volta che riguardo quel marchio, da vacca di mia proprietà, e ripenso a quante volte hai risposto al tatuatore perplesso “Sì, sono sicura”, la tua voglia di essere sottomessa, torturata, umiliata... mi commuove. Vorrei prenderti il dolce viso tra le mani e riempirlo di baci, ringraziarti per ciò che sei e cercare d’esprimerti quanto mi renda felice che tu esista, che tu abbia scelto me, ma so che non gradiresti. E così le carezze che vorrei farti diventano schiaffi, le parole d’amore ordini duri e impietosi. I baci sputi. E i sorrisi lacrime.
“Cinquecentonovantanove, Seicento...”
Sono ormai alle tue spalle, ma ancora non lo sai.
“Seicentosessantacinque, seicentosessantasei...”
Quando appoggio la mano sulla tua spalla sobbalzi.
“Sei... seicentosessanta... sette... seicento...”
Mi infilo nel colletto e scendo fino al seno.
“...Sessantotto, seicento... sessanta...”
Lo palpo.
“...Nove... Sei... Seicento...”
Guardi in basso cercando di capire se la mano sia davvero la mia.
“...Settanta...”
Prendo il capezzolo tra pollice e indice.
“...Sei... cento...”
Lo stringo, lo torco.
“Settantuno! Seicento...”
Stai quasi gridando.
Lo tiro. Gli conficco l’unghia del pollice.
“…Settanta...”
La sofferenza traspare cristallina dalla tua voce.
“…Due... Seicento... settanta... tré.”
Continuando a torturarti il capezzolo tiro fuori di tasca ciò che ho raccolto da terra prima mentre ti osservavo e te li porto davanti al viso per mostrarteli.
“Seicentosettantotto, seicentosettantanove...”
Sento una vibrazione di panico.
“Sei... centottanta...”
I tre ricci di ippocastano, ancora chiusi, sono eccezionalmente grandi.
“Seicentottantuno, seicentottantadue...”
Abbasso il braccio.
“Seicentottantatré, seicentottantaquattro, seicentottantac...”
Senti i corti aculei di riccio contro la delicata pelle tra le tue gambe.
“...Cinque... Seicentottanta... sei...”
Li senti farsi largo e affondare dolorosamente nella tua carne.
“Seicento... Seicentottasette... Seicentottantotto...”
Ti scappa un gemito straziante, poi riprendi difficoltosamente il conteggio.
“Seicentonovantatré, seicentonovantaquattro...”
Ti spingo dentro anche il secondo riccio, che entrando si apre aumentando ulteriormente di volume mentre le castagne fuoriescono nella tua vagina.
“Settecentouno, settecentodue...”
Singhiozzi piangendo.
“Settecentodieci, settecentoundici...”
Provo ad infilarti dentro anche il terzo, invano.
“Settecentoventiquattro, settecentoventicinque...”
Allora lo affondo oltre il tuo perineo, schiacciandolo tra il tuo ano ed il ferro della panchina.
“Settecentotrentasei, Settecentotrentasette...”
Sei meravigliosa. Così sofferente e in lotta con te stessa per resistere all’ennesimo supplizio.
“Settecentoquarantotto, settecentoquarantanove...”
Non posso fare a meno di chinarmi per baciarti sul collo, prima di allontanarmi senza nemmeno essermi fatto vedere.
“Settecentonovantanove, ottocento...”
Pochi minuti prima che finisca anche questo tormento ti passa davanti un gruppetto di ragazzi.
“Ottocentocinquantadue, ottocentocinquantatré...”
Si fermano a osservarti. Ti chiedono qualcosa a cui non rispondi.
“Ottocentosessantanove ottocentosettanta...”
Estraggono i loro smartphone e iniziano a fotografarti.
“Ottocentottantotto, ottocentottantanove...”
Una ragazza col piercing tra le narici si avvicina per un primissimo piano del tuo sesso, poi alza il braccio fino a inquadrare il tuo bellissimo viso stravolto dal dolore e dalla vergogna.
“Novecento. Novecentouno...”
Un altro inizia una diretta su un social network e strilla esagitato in camera dove si trova e con chi. “Non ci crederete mai! Non ci crederete mai!” Ripete prima di girare verso di te la fotocamera.
“Novecentoventiquattro, novecentoventicinque...”
Poi iniziano i selfie.
C’è chi per autocelebrarsi ti si siede accanto, chi ai piedi, in modo da immortalare con se stesso la tua vulva arrossata, chi ti mette un braccio intorno alle spalle (ma senza toccarti, come per un atavico rispetto nei confronti della vittima sacrificale) e chi alle spalle fingendo, almeno così mi pare da qui, di stringerti i seni.
“Novecentonovanta, novecentonovantuno...”
I ragazzi iniziano a contare ad alta voce con te. Percepiscono anche loro dal tuo affanno che è quasi finita.
“Novecentonovantasette!”
“Novecentonovantotto!”
“Novecentonovantanove!...”
Richiudi le gambe, ti alzi in piedi riabbassando la minigonna e ti allontani velocemente.
Ci son rimasti male; s’erano tenuti l’apogeo del pathos per il numero a quattro cifre.
Fanno un’ultima foto al riccio che tenevi tra le chiappe e che è rotolato a terra mentre camminavi via e se ne vanno ridacchiando.
Mi incammino dietro di te, con calma, come dovresti fare tu. Ancora non te ne sei accorta, ma dalla borsetta che tenevi tra le mani dietro la schiena ti ho rubato le chiavi di casa e quindi sarai costretta ad aspettarmi davanti al portone di casa. Non sarà piacevole, lo so, con il freddo che hai e con i due ricci ancora dentro di te. Con tutta quella gente che passa di lì e che in buona parte conosci...
Mi fermo davanti al primo bar che trovo, faccio volare le tue chiavi nell’aria gelida e le riafferro al volo. Poi entro. Ci vuol proprio un caffè.
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