La direttrice del carcere III
di
alice822
genere
saffico
Io vorrei che mi aiutasse a fare i primi passi nella nuova vita" dice in fretta.
Usa questa espressione un po’ convenzionale che deve avere sentita da qualcuno, forse dallo psicologo del carcere o dalla stessa assistente sociale.
Cerco di non manifestare la sorpresa e una recondita gioia che mi fiorisce dal profondo. Se potesse essere manifestata in una frase, questa gioia diventerebbe: “non t’ho perduta!”
"Cosa ti fa pensare che io ti possa aiutare? Lo sai qual è il mio compito. Al di là del carcere…”
“Sì ma io ho capito che lei ci tiene a noi!" Mi interrompe “tutte le volte che mi ha ricevuto io ho sentito…ho sentito…” le parole sembrano di nuovo non venirle, forse non trovandone di appropriate. Guardando basso si arrende a un’unica frase: “lei ci ha sempre aiutato”
"Sì, è vero, ho avuto sempre a cuore il vostro cammino qua dentro” rispondo “Ma ora tu sei fuori, cosa posso fare io per…” di nuovo mi interrompe: “vorrei che mi seguisse anche ora.”
Mi si stringe il cuore. Tocca a me ora a non sapere cosa dire.
“Lei può capire quali siano i problemi” continua “che si incontrano in carcere. E quelli che si incontrano dopo.”
"Questo è vero. Tuttavia non sono preparata per questo tipo di aiuto.”
“Mi basterebbe parlare con lei qualche volta”
“...E poi non posso aiutarvi tutte”
“Forse sono l’unica a chiederglielo”
“Cara Veronica…”
"Non voglio ritornare alla vita di prima!”
“Io non so se posso…”
“Non ho altri che lei”
Ancora una volta la voce mi si strozza in gola.
Mentre il muscolo cardiaco continua a picchiare contro lo sterno, sento che sto per deglutire. Mi sforzo di non farlo. Ho terrore che qualsiasi mio comportamento possa tradire la verità della mia vita interiore, come un giocatore di poker.
Gli occhi di Veronica sono rivolti verso il basso. Aspetta una mia risposta.
Cerco di rimanere impassibile. Questa poverina non può sapere che anch'io ho bisogno di lei, ma in maniera inconfessabile.
“Ci devo pensare" le rispondo, poi mi sbilancio “lasciami il tuo numero di cellulare. Prometto che ti chiamerò in qualunque caso.”
Una volta a casa posso lasciare che il ronzio dei pensieri mi invada la mente. Non ho mai apprezzato quei personaggi dei films americani dove, alla prima difficoltà, si fanno un dito di whisky. Col bicchiere in mano, dopo avere preso un’abbondante sorsata del liquore, cerco di realizzare quel che è avvenuto durante la giornata. Quel colpo di fucile al petto della visita di lei. La penso silenziosa nella cucina di casa sua, probabilmente disinteressata ai discorsi dei famigliari. O forse a ridere felice alle mie spalle, contenta di avermi presa in giro, di essersi beffata di una povera lesbica.
No, devo mantenere l'obiettività, era sincera. E molto probabilmente non si è accorta dell’effetto che mi fa. Forse sono io ad averla ingannata, fingendo in questi anni un interessamento che non era ispirato solamente da edificanti propositi. Ora è una donna libera. Invece di ricevere interessamento per mia iniziativa è lei a chiedermelo. Mentre mangio un trancio di pizza prendo una risoluzione. L’aiuterò, anche se non so come. Le permetterò di parlare con me. E sarò brava nel dissimulare la passione che mi suscita. Sarà la mia penitenza.
Prendo il cellulare. Che faccio, telefonarle troppo presto può smascherare il mio equivoco interessamento? Devo attendere qualche giorno? E poi cosa potrò dirle? Sì, ti aiuterò per il resto della vita? Ti darò dei soldi? Sono disposta a un solo incontro al mese e solo per un anno? Che tortura. Perché le ho chiesto il numero? Potevo darle quello dell’ufficio, e poi alla sua telefonata, se ci fosse stata, farmi negare. Ecco, avrei dovuto fare così.
Il foglietto dove ho scritto il suo numero è di fronte a me. Lo digito e aspetto.
“Pronto” la sua voce è sospettosa. Non sa che sono io. Teme forse una telefonata di qualche sua disgraziata vecchia conoscenza. Sullo sfondo si sente la voce di un televisore con un noto programma serale.
“Sono io Veronica”
“Aspetti” sento che si muove e il suono del televisore attenuarsi fino a scomparire.
“Ecco, sono sola” nella sua voce un tono di ansietà.
“Ho pensato a quello che mi hai detto. Voglio accettare la tua proposta, anche se non capisco in che modo potrei assolverla. C’è qualcosa che vuoi dirmi ora?"
“Non…niente di particolare. Sono a casa dei miei genitori.”
“Lo immaginavo. Hai già incontrato altre persone?”
“Sì, sapevano che oggi uscivo. Mi hanno fatto una festicciola nel bar sotto casa. Ho paura”
"E perché? Di che cosa? Cosa ti succede Veronica? In che guai sei?”
“Nessun guaio particolare, no, no. Solo che alcuni tipi mi hanno accennato che potrei darmi da fare per trasportare alcuni “pacchetti”. Sanno che non ho rendite e i miei sono poveri. Danno per scontato che io possa lavorare per loro.”
“Capisco. Non devi dargli confidenza. Non accettare. O per te sarà la fine.”
“Lo so non dovrei. Ma questo ambiente mi risucchia” sento che sta per piangere “non voglio tornare indietro ma non so se ce la farò”
A queste parole mi risolvo.
“Vieni a casa mia, ne parleremo ancora. Ti mando il mio indirizzo.”
“Va bene”
“Domani?”
“Domani”
Fine terza parte
Usa questa espressione un po’ convenzionale che deve avere sentita da qualcuno, forse dallo psicologo del carcere o dalla stessa assistente sociale.
Cerco di non manifestare la sorpresa e una recondita gioia che mi fiorisce dal profondo. Se potesse essere manifestata in una frase, questa gioia diventerebbe: “non t’ho perduta!”
"Cosa ti fa pensare che io ti possa aiutare? Lo sai qual è il mio compito. Al di là del carcere…”
“Sì ma io ho capito che lei ci tiene a noi!" Mi interrompe “tutte le volte che mi ha ricevuto io ho sentito…ho sentito…” le parole sembrano di nuovo non venirle, forse non trovandone di appropriate. Guardando basso si arrende a un’unica frase: “lei ci ha sempre aiutato”
"Sì, è vero, ho avuto sempre a cuore il vostro cammino qua dentro” rispondo “Ma ora tu sei fuori, cosa posso fare io per…” di nuovo mi interrompe: “vorrei che mi seguisse anche ora.”
Mi si stringe il cuore. Tocca a me ora a non sapere cosa dire.
“Lei può capire quali siano i problemi” continua “che si incontrano in carcere. E quelli che si incontrano dopo.”
"Questo è vero. Tuttavia non sono preparata per questo tipo di aiuto.”
“Mi basterebbe parlare con lei qualche volta”
“...E poi non posso aiutarvi tutte”
“Forse sono l’unica a chiederglielo”
“Cara Veronica…”
"Non voglio ritornare alla vita di prima!”
“Io non so se posso…”
“Non ho altri che lei”
Ancora una volta la voce mi si strozza in gola.
Mentre il muscolo cardiaco continua a picchiare contro lo sterno, sento che sto per deglutire. Mi sforzo di non farlo. Ho terrore che qualsiasi mio comportamento possa tradire la verità della mia vita interiore, come un giocatore di poker.
Gli occhi di Veronica sono rivolti verso il basso. Aspetta una mia risposta.
Cerco di rimanere impassibile. Questa poverina non può sapere che anch'io ho bisogno di lei, ma in maniera inconfessabile.
“Ci devo pensare" le rispondo, poi mi sbilancio “lasciami il tuo numero di cellulare. Prometto che ti chiamerò in qualunque caso.”
Una volta a casa posso lasciare che il ronzio dei pensieri mi invada la mente. Non ho mai apprezzato quei personaggi dei films americani dove, alla prima difficoltà, si fanno un dito di whisky. Col bicchiere in mano, dopo avere preso un’abbondante sorsata del liquore, cerco di realizzare quel che è avvenuto durante la giornata. Quel colpo di fucile al petto della visita di lei. La penso silenziosa nella cucina di casa sua, probabilmente disinteressata ai discorsi dei famigliari. O forse a ridere felice alle mie spalle, contenta di avermi presa in giro, di essersi beffata di una povera lesbica.
No, devo mantenere l'obiettività, era sincera. E molto probabilmente non si è accorta dell’effetto che mi fa. Forse sono io ad averla ingannata, fingendo in questi anni un interessamento che non era ispirato solamente da edificanti propositi. Ora è una donna libera. Invece di ricevere interessamento per mia iniziativa è lei a chiedermelo. Mentre mangio un trancio di pizza prendo una risoluzione. L’aiuterò, anche se non so come. Le permetterò di parlare con me. E sarò brava nel dissimulare la passione che mi suscita. Sarà la mia penitenza.
Prendo il cellulare. Che faccio, telefonarle troppo presto può smascherare il mio equivoco interessamento? Devo attendere qualche giorno? E poi cosa potrò dirle? Sì, ti aiuterò per il resto della vita? Ti darò dei soldi? Sono disposta a un solo incontro al mese e solo per un anno? Che tortura. Perché le ho chiesto il numero? Potevo darle quello dell’ufficio, e poi alla sua telefonata, se ci fosse stata, farmi negare. Ecco, avrei dovuto fare così.
Il foglietto dove ho scritto il suo numero è di fronte a me. Lo digito e aspetto.
“Pronto” la sua voce è sospettosa. Non sa che sono io. Teme forse una telefonata di qualche sua disgraziata vecchia conoscenza. Sullo sfondo si sente la voce di un televisore con un noto programma serale.
“Sono io Veronica”
“Aspetti” sento che si muove e il suono del televisore attenuarsi fino a scomparire.
“Ecco, sono sola” nella sua voce un tono di ansietà.
“Ho pensato a quello che mi hai detto. Voglio accettare la tua proposta, anche se non capisco in che modo potrei assolverla. C’è qualcosa che vuoi dirmi ora?"
“Non…niente di particolare. Sono a casa dei miei genitori.”
“Lo immaginavo. Hai già incontrato altre persone?”
“Sì, sapevano che oggi uscivo. Mi hanno fatto una festicciola nel bar sotto casa. Ho paura”
"E perché? Di che cosa? Cosa ti succede Veronica? In che guai sei?”
“Nessun guaio particolare, no, no. Solo che alcuni tipi mi hanno accennato che potrei darmi da fare per trasportare alcuni “pacchetti”. Sanno che non ho rendite e i miei sono poveri. Danno per scontato che io possa lavorare per loro.”
“Capisco. Non devi dargli confidenza. Non accettare. O per te sarà la fine.”
“Lo so non dovrei. Ma questo ambiente mi risucchia” sento che sta per piangere “non voglio tornare indietro ma non so se ce la farò”
A queste parole mi risolvo.
“Vieni a casa mia, ne parleremo ancora. Ti mando il mio indirizzo.”
“Va bene”
“Domani?”
“Domani”
Fine terza parte
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