Coloro che rimangono

di
genere
incesti

RACCONTO DI FINZIONE
Il racconto ha un incipit che ammetto essere lungo ma spero sinceramente che questa storia vi possa piacere e vi appassioni. Se volete un seguito non esitate a chiederlo. Per ogni considerazione scrivetemi pure alla mail scribonio53@gmail.com. Sono anche disponibile ad ascoltare le vostre storie che non riuscite a scrivere sotto forma di racconto e, se le reputerò veritiere, le potrò raccontare io per voi con la mia "penna".
Buona lettura!

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Conobbi Alessia alle superiori e ne fui subito innamorato. Era leggermente più bassa di me, con due occhi verdi che parevano riuscire a leggerti nel pensiero. Ne fui subito invaghito. Si diceva che i suoi genitori, per mandarla in quel liceo privato, dovevano tirare molto la cinghia e contare persino i centesimi: sua madre non lavorava, suo padre faceva l'ingegnere in una piccola ditta e, a loro carico, avevano anche una bambina più piccola, di qualche anno in meno di Alessia. Eppure lei, così timida, riusciva a mantenere una media dei voti molto alta e a sorvolare sui mille scherzi e battute che i compagni le facevano. Io ero di buona famiglia, ma con problemi finanziari che mi mettevano quasi nella sua situazione quindi, quasi fossimo destinati a stare insieme, diventammo amici e poi, con l'evolversi della situazione, fidanzati. Con il senno di poi credo che si sia messa con me per paura della solitudine, che fossi il solo coetaneo con cui aveva un buon rapporto e che, dopo tutto non fosse così innamorata di me come lo ero io di lei.
Poco prima del diploma, però, suo padre morì di infarto: i medici dissero che lo stress e il troppo lavoro lo avevano ucciso, ma la situazione si chiuse velocemente con una piccola pensione per la famiglia e il funerale pagato dal datore di lavoro. Eravamo giovani, ma io l'amavo sul serio, quindi decisi di sposarla per darle la possibilità di continuare a studiare all'università e coltivare i suoi sogni. Mi misi da parte, feci un passo indietro, cercai un lavoretto e mi misi sotto. La mia famiglia non accettò mai questa scelta, tagliò i contatti e le finanze. Mio padre non si presentò nemmeno in chiesa il giorno del matrimonio, mia madre non mandò neppure dei fiori.
Ci sposammo in aprile, in una giornata di brezza. Una cerimonia semplice con i familiari e qualche mio amico. Convivemmo insieme per qualche tempo ma poi, facendo due conti in tasca, capimmo che l'affitto non era sostenibile. Scendemmo a patti con la realtà e, valutando le opzioni andammo a vivere a casa della madre.

L'appartamento era relativamente piccolo: con due camere per le sorelle e una matrimoniale. Melissa, la madre di Alessia, si offrì di dormire nella vecchia camera da letto della figlia, lasciandoci la sua stanza per noi. Provai ad insistere, a dirle che non c'era bisogno, ma non volle sentire ragioni. La seconda camera singola continuò ad essere abitata da Francesca, la sorella minore.
Penso che sin da subito Melissa si sentì grata ad avermi intorno: sentiva di avere un debito con me, come se stessi sacrificando la mia futura carriera per permettere alla figlia di studiare, come se mi comportassi con mia moglie da genitore meglio di come si comportava lei, disoccupata e con una pensione appena sufficiente a sbarcare il lunario. Si impegnava in tutte le faccende domestiche, nella preparazioni di cene e pranzi deliziosi quando eravamo tutti a casa e in sporadici lavoretti come sarta. Io non la vivevo in questo modo: amavo con tutto il cuore Alessia, niente di quello che facevo era vissuto come un sacrificio fintanto che avevo la possibilità di tornare a casa alla sera, dopo orari interminabili di straordinario, e vederla in cucina, con la piccola lampada accesa, intenta a studiare.
Ma l'università la colpì in pieno con il carico di studio immenso e con le valutazioni degli esami che oscillava secondo gli umori degli insegnanti. Ecco che gli anni canonici si moltiplicarono, diventando sempre di più. In un attimo avevo venticinque anni e il cuore già stanco.

Fu in quel periodo che mi accorsi che qualcosa non andava. Alessia era cambiata, da timida e solitaria ragazza casa-scuola, iniziò ad uscire sempre di più con gli amici, litigavamo spesso, non la vedevo quasi più. Il mio umore era sempre più grigio nel vederla costantemente più lontana del giorno prima, iniziava a pesarmi tutto quello che facevo, l'amore stava via via scomparendo. Di notte, quando la sapevo in centro città con gli amici, stavo in silenzio nel letto, a domandarmi come avesse potuto essere la mia vita in quel momento, lontano da lì. Iniziai a rimpiangere la mia scelta.
Anche Melissa si accorse che qualcosa stava sfumando ma ogni tentativo di confronto con la figlia degenerava in liti furiose: non riusciva a esercitare più nessuna presa su di lei, nemmeno con il ricordo del padre o tutto ciò che io avevo fatto per lei.

E poi successe l'inevitabile: Alessia semplicemente scomparve. Tornai a casa, quel giorno, accolto da Melissa in lacrime, la camera vuota dei suoi vestiti e una semplice lettera ad aspettarmi dove lei era solita studiare alla sera. Nessuna spiegazione, nessuna scusa, nessun ringraziamento.
Non provai esattamente dolore, fu solo la realizzazione di tutta quella infelicità che mi portavo appresso da anni.
Non sapevo che fare, non avevo abbastanza soldi né energie per andarmene da quella casa, né possibilità di cambiare direzione della mia vita. Semplicemente continuai a lavorare e a tornare in quella stanza, ormai vuota, sentendomi anche io vuoto come lei.

Melissa piangeva spesso, non aveva il coraggio di guardarmi negli occhi. Poche volte, nel corso dei seguenti mesi, ci ritrovammo nella stanza da soli. Continuava a fare le sue faccende domestiche, a cucinare, ma con più intensità, come se volesse sobbarcarsi delle colpe della figlia. Più volte mi chiese il perchè continuavo ad occuparmi di loro. Molte volte non rispondevo, spesso non avevo neppure una risposta.
Con Francesca parlavo poco, stava sempre in camera, a studiare per il primo anno di Università per cui aveva ricevuto una borsa di studio che ricopriva la maggior parte delle spese. Sapevo, nel profondo, che anche lei si vergognava molto della sorella.

Tutto continuò in una sorta di stasi per alcuni mesi. Ero come un automa: mi svegliavo, andavo a lavoro, tornavo a casa, mangiavo ciò che mi aveva preparato Melissa e andavo a dormire. Ripetevo la mia quotidianità di giorno in giorno, senza permettermi di pensare. Ma sentivo di accumulare tanta rabbia, tanta stanchezza, e sapevo che prima o poi sarei scoppiato.

Successe una sera di agosto, quando fui costretto a prendere delle ferie dal lavoro. Ero a casa, spesso seduto sul divano a guardare la televisione. Melissa si impegnò a preparare per il corso di tutte le mie ferie grandi piatti per le cene e i pranzi ma l'appetito era poco. Non sono mai stato un grande bevitore ma devo ammettere che in quelle due settimane iniziai a bere alla sera. Quella notte Francesca era a dormire da una sua amica dell'università e Melissa era intenta a controllare la cena nel forno. Più volte passava davanti a me, seduto con lo sguardo privo di emozioni davanti alla televisione. Sentii il familiare "ding" del forno e, poco dopo, Melissa venne da me per annunciarmi che la cena era pronta.
"Non ho fame. Metti tutto in frigo, mangio domani." Le risposi, sottovoce, bevendo un altro sorso della birra.
Melissa stette in silenzio qualche secondo, guardandomi con gli occhi lucidi. Ancora una volta, quella sera, mi chiese: "Tommaso, perchè rimani qui?"
Mi montò la rabbia. Risposi male, forse anche per colpa dell'alcool: "Dove altro dovrei andare Melissa? Cazzo sono bloccato in una vita che mi sono scelto e da cui non posso più fuggire. Se me ne vado rischio di avere sulla coscienza te e Francesca che a malapena riuscite a sopravvivere con la pensione di tuo marito." Presi un respiro, e lanciai la lattina di birra finita dall'altra parte della stanza.
Melissa rispose, con un filo di voce, come se si vergognasse persino di essere al mondo così, inabile di fare qualcosa di davvero utile: "Nessuno ti costringe a stare qui, non devi farlo per noi..."
"Quindi non mi vuoi più?" Chiesi, più che per ferirla che per la domanda in sé. Sapevo di essere uno dei pochi motivi per cui lei era ancora in piedi.
"Non è così!" rispose lei, guardandomi per un istante negli occhi. Poi continuò, abbassando di nuovo lo sguardo: "Mi sento responsabile di quello che ti è successo, è colpa mia se non ho saputo educare bene mia figlia... Si è approfittata di te, ti ha prosciugato delle energie e dei tuoi sogni e ora..."
Finii la sua frase: "...e ora sono qui, intrappolato."
La rabbia stava parlando per me ma sapevo che quei pensieri oscuri erano presenti già da tempo nel mio cuore.
Melissa strozzò un singhiozzo. Due lacrime iniziarono a scendere sul suo viso, rigandole le guance.
"Non posso andarmene, sono come maledetto a vivere la colpa di aver dato troppo a qualcuno che, in fondo, non conoscevo appieno." Mormorai, a mezza voce.
Quest'ultima frase colpì profondamente Melissa che si lasciò scivolare a terra, sulle ginocchia.
"Io non posso fare nulla, mi sento inutile, non sono stata brava a crescere la mia figlia maggiore, Francesca mi evita e non so nemmeno il motivo e non riesco nemmeno a concedere un minimo di sollievo a te che per noi hai fatto così tanto..." Parlava lentamente, come se si fosse ripetuta quelle parole nella sua mente per tanto tempo prima di pronunciarle. Prese un secondo di respiro, poi continuò a parlare: "Se potessi sostituirmi ad Alessia, se potessi divenire lei e correggere i suoi errori non esiterei nemmeno un secondo a farlo..." Si chinò ancora più verso la terra, appoggiandosi con le mani al pavimento. "Mi trasformerei subito in quella che doveva essere tua moglie, mi scuserei con te di tutto il dolore che ti ho provocato e tenterei di rimediare con ogni mio mezzo."
Mi voltai a guardarla. Era quasi prostrata sul pavimento e, per un secondo, riconobbi la somiglianza tra lei e Alessia. Entrambi avevano i capelli bruni, legati in una coda bassa, con la corporatura simile e il candore della pelle identico. L'unica cosa diversa era che lei portava gli occhiali che nascondevano leggermente gli stessi identici occhi verdi. Fu come per un secondo fosse Alessia a chiedermi scusa e non sua madre. Un nuovo impeto di rabbia mi montò dentro. Fu per un attimo ma fu quello che bastò: "Ma tu non sei lei, sei sua madre e nella tua posizione non puoi fare nulla per alleviarmi un po' quello che provo."
Lei iniziò a singhiozzare: "Questo non significa che farei di tutto per rimediare ai suoi errori."
La rabbia che provavo in quel momento era tale che sentivo dentro di me un desiderio di vendetta, di umiliare quella donna così simile ad Alessia, che per me era ricordo indelebile della vita che avevo perso. Qualcosa dentro di me scattò. Pensai alla cosa più umiliante che potessi chiederle: "Secondo me dici questo per lavarti la coscienza. Se avessi la possibilità di rendermi felice ma compiendo anche solo un sacrificio, scapperesti, come tua figlia."
"Non è vero, farei di tutto..." rispose lei, stringendo i pugni sul pavimento per la sensazione di inutilità.
"Dimostralo. Alzati in piedi e spogliati" dissi.
Lei rimase ferma, impietrita. Alzò gli occhi guardandomi come per cercare di capire se fossi serio o meno. Mi studiò per qualche istante in silenzio. Io guardavo altrove, verso la televisione, senza aspettarmi minimamente che facesse qualcosa. Volevo solo dimostrale che avevo ragione, che sarebbe andata via anche lei, che mi avrebbero sfruttato tutti quanti. Poi lei si mosse. Si alzò in piedi, si tolse la maglietta e i pantaloni, mostrandosi in intimo. Portava un reggiseno bianco con un leggero pizzo e delle mutande color carne. Ero sbigottito, mi girai a guardarla. Lei teneva gli occhi bassi: "Non sono come mia figlia, io non scapperò. Farei di tutto per farti felice e se la vista del mio corpo di da un minimo di sollievo, allora mi farò vedere così quando vuoi."
Ero senza parole. Anche se di taglia minuta e alla soglia dei quarantatré anni, il suo corpo era ancora abbastanza tonico e in forma.
"Va bene così?" mi disse lei. Non riuscivo a pensare lucidamente, ero confuso da quella situazione. Ma un rigonfiamento nei pantaloni iniziava a tradire la mia eccitazione. Melissa non, guardandomi negli occhi, prese il mio silenzio come una tacita risposta negativa alla mia domanda. Si mosse lentamente, con le mani che tremavano leggermente. Si slacciò il reggiseno e si sfilò le mutante. Il seno, di una terza misura, era ancora bellissimo, con le aureole larghe e i capezzoli duri. Sul pube una traccia di peli ordinati incorniciava il suo sesso, da cui spuntavano appena le piccole labbra di colore più scuro.
"Sono disposta a tutto." mi disse con un filo di voce. Quel suo vederla così, quasi sottomessa ai miei desideri, desiderosa di concedermi qualsiasi cosa per ripagarmi del torto subito, mi fece impazzire. Ma ecco che il senso di colpa si impadronì di me. Il miscuglio di emozioni mi stava dando alla testa, stavo semplicemente lì sbigottito, a vedere la seconda donna completamente spoglia della mia vita.

L'eccitazione era troppa ma non volevo toccarla né chiederle di farmi nulla. Seppur mi aveva detto che era disposa a fare tutto non volevo che si sentisse completamente obbligata. Senza farmi vedere iniziai a massaggiarmi il membro duro sotto i pantaloni, ancora indeciso se farla rivestire o andarmene via nella mia stanza a schiarirmi i pensieri. Il membro era sempre più pulsante e spingeva dolorosamente contro le mutande. Lei era ferma, con gli occhi bassi, in attesa. L'eccitazione vinse.
"Ti imbarazza o dispiace se mi tocco davanti a te?" dissi, vergognandomi di quello che dicevo. Lei, se possibile, arrossì ancora di più: "Se questo ti darà un minimo di sollievo allora fallo e mi sentirò utile almeno in qualcosa."
Tirai fuori il pene dai pantaloni e la guardai, iniziandomi a masturbare. Con lo sguardo le accarezzai il seno, i fianchi, le cosce. Mi immaginai di fare l'amore con lei come lo facevo con Alessia.
Alessia. Ancora lei nella mia testa.
Un nuovo impulso di rabbia, più forte e lussurioso, si impadronì di me. Mi alzai, muovendo la mano destra più veloce sul mio membro: "Vieni qua, in ginocchio." Lei fece qualche passo, poi fece ciò che le avevo chiesto.
"Guardami" le chiesi con voce ferma.
Lei alzò lo sguardo. Mi vedi riflesso nelle lenti dei suoi occhiali, spasimante e sudato, intento a massaggiarmi il glande con la mano. Vidi infine i suoi occhi verdi, così simili ai suoi. Iniziai a muovermi più velocemente, masturbandomi con più vigore. Melissa mi guardava negli occhi, come le avevo chiesto: i suoi occhi tralasciavano vergogna, senso di sottomissione ma piacere, per sentirsi finalmente capace di aiutarmi.
Durò poco, ero in astinenza da molto. Quando sentii l'orgasmo crescermi dentro mi piegai leggermente, mirando il membro contro Melissa. Schizzai, quattro volte, con enorme piacere in ognuna di esse, venendole sugli occhiali, sul collo, sui seni ed infine sulle gambe, piegate per via della posizione inginocchiata. Ancora intorpidito dall'orgasmo sentii a malapena Melissa dire: "vieni, scarica su di me tutta la rabbia e la frustrazione di questi anni. Scarica su di me tutti i sacrifici che hai fatto per tenerci a galla. Scarica su di me il tuo seme che sarebbe dovuto appartenere a mia figlia, ma che lei ha ingratamente rifiutato. Sarò una brava donna di casa quando vorrai e una diligente donna a letto, quando ne avrai bisogno. Io non scapperò come mia figlia, voglio prendermi cura di te come tu hai fatto tutto questi anni con noi."

Quando mi ripresi dall'esplosione di piacere la vidi ferma davanti a me, ancora in ginocchio, con il mio seme che le colava sul seno e sul viso. Sorrideva soddisfatta, con gli occhi puntati nei miei e gli occhi carichi di lacrime di felicità. Mi sentii confuso, privo di forze e con il senso di colpa pesante su di me. La lasciai lì, senza dire nulla, andandomene in camera cercando di schiarirmi le idee.
scritto il
2024-10-07
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