Mani che disegnano [adlib.]

di
genere
etero

“Te l’ho detto che sei un bischero?” decreta, strappandomi di mano il laptop, poggiandoselo sulle gambe piegate e lasciando andare le dita sulla tastiera con sicurezza, al contrario di quanto avevo fatto io fino ad allora.

In quel momento non potei più resistere.
Affondai il viso nei suoi capelli un po’ mossi, aspirandone l’odore, riempiendomi i polmoni di lei.

Una mano su una sua guancia, scostai quegli stessi capelli, per raggiungere il suo collo. Fame di pelle. Come descrivere quello che sentivo? Avevo fame di pelle, della sua pelle, e dovevo far ricorso a tutta la mia volontà per non trasformare quei baci nei morsi di un animale rimasto per troppo tempo senza prede.
Mi afferrò il viso per rispondere ai miei baci. La sua lingua venne a cercarmi in maniera molto meno timida di quanto avessi fatto io.
E sentii il mio sapore sulle sue labbra. Il mio odore sulla sua faccia.
Cazzo, dammi la tua saliva.
“Stavi cominciando a farmi incazzare veramente con tutte ste tue paranoie, c’è mancato tanto così che ti mandassi affanculo e me ne andassi, lo sai? Stronzo!”

1:Mi staccai da lei e la fissai serio negli occhi, una mano sul suo viso, a tenerla a distanza, in dito puntato dritto sul suo naso.
“Ti giuro che se mi dici un’altra volta quella parola…”

E fu in quell’attimo sospeso, in quello iato di tempo per una minaccia mai formulata, che lei scattò, e mi si avventò contro con violenza, prendendomi di sorpresa, senza che avessi modo di reagire, facendomi crollare supino sul letto.
“Scopami, stronzo e falla finita!”

Mi fu addosso, montandomi sopra, il suo corpo ben più esile del mio, nonostante quanto dicesse di sé, sembrava abitato da una qualche forza che mi rendeva impossibile divincolarmi.
Ma non avevo intenzione di divincolarmi.

Altri baci. Mani che frugano. Non avevo idea di quanto mi sarebbe piaciuto sentire il suo seno nel mio palmo. Il suo fiato caldo sul mio orecchio mi fa accapponare la pelle. Non so chi mi abbia slacciato la cinta dei pantaloni. Lei? Io? Cazzo che squallida questa stanza in confronto a quello che ci meritavamo, in confronto a quello che siamo. Voglio ficcarle la faccia in mezzo alle cosce, è da stamattina che ci penso. Non so se sono io ad aver cercato il suo capezzolo, o se è lei ad avermelo forzato tra le labbra. “Succhiami, cazzo!” “Non chiamarmi più stronzo!” “Io faccio quello che mi pare, hai capito?” Vorrei morderglielo quel capezzolo, come prima. Ma lei ha la mano sulle mie palle. A cui tengo. E’ stata prima lei a togliersi i leggings o io a calarmi i pantaloni a metà gamba? I calzini, si tiene i calzini, ma sticazzi. Il mio naso nel culo, me lo farà mettere il mio naso nel suo culo? La sua mano sul mio cazzo è perfetta, si muove il giusto, stringe non più del necessario, e mi guarda fissa negli occhi. Ha un irresistibile neo sotto l’attaccatura del seno sinistro. Penserà che il mio corpo sia sbagliato? Tutto sbagliato? “Quanto cazzo volevi aspettare ancora? Perché fai sempre così?” Per un attimo ho il sospetto che voglia sputarmi, non so come mi venga in mente quest’idea. E’ girata di spalle, indossa ancora le mutandine: cazzo se mi conosce. Odio essermi tolto gli occhiali e non vederla bene come vorrei. Struscia il suo culo ancora fasciato dagli slip lungo tutta l’asta del mio cazzo. Dovrei togliermi pantaloni e boxer, mi impediscono di muovermi, ma ho paura che … cioè, non è il momento. Uno schiaffo sulla chiappa destra, ma mi viene male, un timido suono, una stecca che parla di quanto gliel’ho dato a cazzo invece di assestarlo come si deve. “Neanche gli schiaffi mi sai dare…. Cosa cazzo sarò venuta a fare da te?” “Vaffanculo!” Le scosto le mutande, naso nel culo finalmente, lingua nella fica. “Porco, checcazzofai?” “Indovina?” “Non mi sono lavata” “Pensi me ne freghi qualc…” non finisco la parola che mi spinge il culo in faccia. Mi meno il cazzo mentre la lecco. Mi fanno male le palle. E’ tutto il giorno che mi ero portato appresso quell’erezione, tranne quando serviva, e ora ho voglia di svuotarmi dentro di lei. Ho voglia si sporcarla. La spingo giù sul letto, pancia in sotto. Le scosto le mutandine, le allargo le gambe con le ginocchia, lei inarca la schiena per farmi capire che la sua fica è mia. Le punto il cazzo su quella ferita umida, lo lascio scivolare dall’alto in basso, fino al clitoride. “Scopami, sfondami, voglio sentirti fino in gola!” “Sei fradicia, zoccola, non sarà difficile!” grugnisco.

Non
sarà
difficile

Quella stessa frase gliel’avevo detta ore prima, in tutt’altro contesto, con tutt’altro tono.

Il mio sguardo sull’ingresso dell’Ara Pacis, mani erano calate sui miei occhi da dietro, facendomi sprofondare nel buio.
“Indovina chi sono?”
Rispondo con un’altra domanda, subodorando un tranello.
“Sai chi altro mi faceva sempre questo scherzo?”
“No, chi?”
Gliela faccio quella battuta imbecille?
Sono un deficiente, ma per fortuna ho dei limiti, il suono della sua voce e quell’inconfondibile inflessione fermano la risposta tanto automatica quanto cretina.
Mi domanda ancora “Dai, insomma, indovina chi sono?”

“Non sarà difficile” le dissi allora “…con quella parlata….”

“Manco gli scherzi ti si possono fare…” un tono deluso, mi giro per guardarla, togliendole le mani dal mio viso ma senza lasciargliele, come temessi che possa fuggire prima che la veda.
E la vedo.
“Ci voleva tanto?”
“No, era più facile di quanto mi fossi immaginato.”
“Comunque grazie di non aver fatto QUELLA battuta!”
Ero stato malizioso, pensavo fosse lei a volerla fare.
“Sono stato tentato… non mi dici nulla?”
“Che vuoi che ti dica, almeno quando sei vestito di scuro hai una certa classe, che altrimenti…”
“Che altrimenti cosa? Dobbiamo litigare subito?”
Lei ride.
Non è che debba aggiungere molto.
Ride.
Non è sufficiente?

Sufficiente per farmi soprassedere su tutte le paranoie e farmi dimenticare mille insicurezze.

“Dai, che Palazzo Bonaparte non è troppo distante, ma c’è da camminare. Vuoi un caffè prima?”
“No, preso in treno, una discreta ciofeca. Mi tengo il prossimo per pranzo…”
Avevamo deciso di vedere la mostra di Escher, che avevamo già entrambi visitato in passato nella tappa di Pisa, separatamente ma, casualmente, nello stesso giorno, ignorando di essere tutti e due lì. Che ci era sembrata una bella coincidenza da celebrare, ritrovandosi assieme stavolta.

Ormai certe stampe le conosci a memoria: pattern, paradossi e panoramiche di Ravello.
La mia faccia in mezzo alle sue chiappe per leccarle il buco del culo è l’intrusiva immagine che senza alcun ritegno si fa spazio nel senso di deja-vue.
Ma quando fummo davanti a QUEL disegno, qualcosa scattò.

“Sai: ti avevo detto che avrei scritto di nuovo qualcosa su noi due.”
Due mani
“Sto ancora aspettando, infatti!”
Due matite
“Non ce l’ho mai fatta…”
Ogni mano sta disegnando qualcosa
“Eh, me ne sono accorta, si può sapere qual è il problema?”
Ogni mano disegna l’altra mano che disegna l’altra mano che disegna l’altra mano.
Senza fine.

E davanti a quella illustrazione, le raccontai tutte le perplessità e le difficoltà che avevo avuto nell’affrontare la cosa. Ci avevo provato tante volte, ma non c’ero riuscito. Avevo scritto altri racconti, ogni volta ce n’era stato qualcuno più urgente, ma quel racconto su di noi non ero mai riuscito a scriverlo. Per quel motivo.
E quando lei mi domandava: “Ma allora è questa la ragione cretina che c’è dietro?” io confermavo, provando a spiegarlo ancora un’altra volta, cercando di smussare gli angoli, cercando di trovare altre parole per dire la stessa cosa già detta cento volte.

E lei mi rispondeva “Sei un bischero!”

Tre sole parole per sgonfiare tanto inutile pathos, tre sole parole che dissacravano pneumatiche pippe mentali.
“Sai che facciamo ora? Finiamo di vedere la mostra, mi porti da qualche parte a mangiare qualche zozzeria, che ho una cazzo di fame. Ma non provare a portarmi al Mac o ti frantumo le gonadi. Guarda, potrei pure dirti di portarmi in quella gelateria, sebbene ne conosco anche io qui. Poi ce ne andiamo nella tua casetta in Prati e scrivi quel benedetto racconto… e poi dio vede e provvede”
“Sì, certo, perché io ti porto in quell’appartamento e mi metto a scrivere…”
“Ti taglio il cazzo. Facciamo così?”
“Non ti facevo così sboccata!”
“Forse perché te lo meriti… tiè, facciamoci sto selfie e usciamo da qui, tanto sta mostra la conosciamo a memoria!”
Selfie davanti alle mani che disegnano mani.
E via.

Lasciamo Palazzo Bonaparte, ci incamminiamo lungo via del Plebiscito, superiamo Largo Argentina, qualche centinaio di metri lungo Corso Vittorio e siamo al Fornaio su via dei Baullari, glicemia portamivia, una coca zero per prendersi per il culo. Ci infiliamo nei sotterranei del Museo Barraco per vedere l’insula romana e fare finta che della cultura oggi ci interessi ancora qualcosa (tanto l’ingresso è gratuito), discutiamo chi vinca tra la Gelateria dei Gracchi e Fatamorgana che non è troppo distante, concludendo che quello sarà un piacere pomeridiano, che ora ci porterebbe fuori strada, e decidiamo per un taxi, che ci siamo rotti il cazzo di camminare.
E finalmente siamo in quell’appartamento ed io mi ritrovo il laptop sulle gambe, lei accanto a me, che mi fissa.

“Mi metti soggezione.”
“Mmmm, speravo ti mettessi terrore piuttosto…”
“Fa lo stesso!”
“Insomma, mi hai raccontato l’idea di fondo: cosa cazzo c’è di difficile nello scriverla ora?”
“E’ tutta la mattina che te lo dico! Le ragioni le sai…”
“E io ti dico che sono delle enormi stronzate!”
“Mammispieghiperchétitoccatantostacosa?”
“Cazzi miei, ma tu stai facendo l’immaturo!”
“Se dovevamo vederci e poi dovevo passare il tempo a scrivere, tanto valeva che te ne restavi a casuccia…”
“Pensavo di venire a trovare un uomo adulto, mica mi avevano detto che eri un ragazzino!”
Avrei un’altra battuta. Prevedibile. Ma non la faccio.
E lei mi punta un dito sul naso, dovessi avere ancora la tentazione “Non ci provare….”

E in quel momento decide di fare una cosa.
Che in altri momenti avrei apprezzato.
Ma che in quel momento mi sembra assurda

Continuando a fissarmi, mi tira giù la zip dei pantaloni.
E mi tira fuori l’arnese dalla patta.
Che in realtà, definirlo arnese, in quel momento, è tutt’altro che appropriato.
È una triste salsiccia di prosciutto senza alcuna dignità, che non dà segni di vita.
Le sue dita cominciano a dedicarcisi con decisa tenerezza.
Viaggiano alla scoperta di pieghe e di vene.
Prima mi fa la vocina dolce, mentre mi descrive quanto le piace menarmi il cazzo.
Poi mi rivolge qualche insulto, sperando in una mia reazione di orgoglio.
Ma lui proprio non sembra d’accordo.
Sebbene sappia che il problema è sempre la mia testa marcia.
Prova a scappellarmelo. Niente
Prova con la bocca. Nulla
Nonsocheccazzomisucceda.
Il mio cervello è una pagina bianca come il foglio virtuale sulla schermata di word su quel laptop momentaneamente abbandonato accanto alla mia erezione fallita.

Parola appaiono e scompaiono ad un ritmo frenetico.
“Era una notte buia e tempestosa”
“Nel mezzo del cammin di nostra vita”
“Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso”

Di una mia erezione neanche l’ombra.
Nonostante le sue mani, nonostante la sua bocca.
Nonostante i rumori che fa in quell’atto, nonostante i sommessi mugolii.

Ma lei è bellissima.
Bellissima e sempre più incazzata.

Ed io lì, seduto sul letto, con una brutta copia di un membro fuori dalla patta dei pantaloni.
La guardo.
E le faccio quella domanda.
Che è tanto inutile quanto è retorica.
Che forse avrei fatto meglio a rivolgerle qualcuna di quelle discutibili dad-jokes che mi ero ben guardato dal fare fin lì.
Invece di dire quella frase.

“Tu lo sai quanto ti adoro?”

Mi viene il diabete a ripensarci. Ma come cazzo me ne sono uscito?!
Avremmo potuto farci un sacco di risate. Come ce ne siamo fatti in tanti mesi.
E invece sono andato a cercare la peggior frase da libro harmony che mi venisse in mente.

Pausa.
Silenzio.
Attendiamo entrambi che l’eco di quelle parole si smorzi sulle spoglie pareti squallide.
“Sai chi altro mi ha detto la stessa frase?” mi chiede, un moto di gelosia mi prende allo stomaco.
“No, chi?”
“Suka”

Ero convinto che dalle sue parti si dicesse “Puppa”

“Te l’ho detto che sei un bischero?” decreta.
Strappandomi di mano il laptop, poggiandoselo sulle gambe piegate e lasciando andare le dita sulla tastiera con sicurezza, al contrario di quanto avevo fatto io fino ad allora:

“In quel momento non potei più resistere.
Affondai il viso nei suoi capelli un po’ mossi, aspirandone l’odore, riempiendomi i polmoni di lei.”

[adlib.]

EDIT: rompendo fastidiosamente la simmetria, riporto qui di seguito quanto inizialmente rimosso. Usando malamente la notazione musicale. Pronto al dibattito. Magari qualcuno mi difenderà.

2: Non so che successe.
Non mi era mai capitato.
Non mi ero mai immaginato farlo.
Ma lo feci.
A quella sua offesa, mi staccai da lei e mi partì uno schiaffo, il cui suono si sfracellò sulle pareti della stanza spoglia.
“Checcazzoneasaitudime?” le avevo urlato.
Il rinculo. Lei che si porta una mano dove l’avevo colpita e torna a guadarmi incredula.
La fisso anche io, stordito dalla mia stessa reazione. :|
scritto il
2025-02-01
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