Dietro il vetro
di
AngelicaBellaWriter
genere
esibizionismo
Io non sono bella. Io sono carne. Tanta. Troppa. La pelle che si piega, che sborda dai vestiti, le cosce che si sfregano, le tette che cadono come due sacchi molli. Io mi guardo e mi faccio schifo. Ma non abbastanza da farci qualcosa.
Che poi, a chi cazzo dovrebbe fregare? Nessuno mi guarda.
Io vivo da sola, in un buco di appartamento che puzza di fritto e sudore vecchio. Nessuno mi aspetta, nessuno mi cerca. Tranne la cassiera del supermercato sotto casa, ma solo perché non ho mai i soldi contati e lei mi guarda male ogni volta che rovisto nel portafoglio come una rincoglionita.
Poi c’è lui.
Lui mi guarda.
L’ho sgamato una sera, mentre mi sfilavo il reggiseno. Cazzo, che goduria toglierselo dopo una giornata intera. Quello stronzo di un pezzo di stoffa che stringe la carne e la segna, le spalline che scavano, il sudore tra le tette. L’ho sfilato e ho sentito uno strano formicolio sulla pelle. Non freddo, non paura. Qualcosa di elettrico.
Ho alzato la testa e l’ho visto.
Dall’altra parte della strada, dentro una finestra illuminata. Sagoma scura, ferma. Mi stava guardando.
Il primo istinto? Chiudere tutto, mandarlo affanculo, nascondermi. Ma non l’ho fatto.
Perché? Perché una come me non viene guardata.
E invece lui era lì.
Adesso lo aspetto.
Ogni sera mi tolgo i vestiti più piano. La maglietta prima da un lato, poi dall’altro. La faccio scivolare sulle spalle come nei film, anche se so che non ho le spalle di una figa da film.
Lui c’è sempre.
A volte penso di abbassare la tapparella e farlo crepare nella sua curiosità. Altre volte vorrei aprire la finestra e urlargli: ti piace quello che vedi, pezzo di merda? Ti piace la ciccia che balla, la pelle molle, il culo grosso?
Ma non lo faccio.
Perché la verità è che mi piace.
Mi piace farmi guardare.
Ieri sera ho osato di più.
Ho tolto tutto. Via la maglietta, via il reggiseno, via le mutande. Ho acceso la lampada e mi sono messa di profilo, il fianco nudo esposto alla finestra. Non bella. Nuda.
Il cuore martellava forte. Dio, se mi ha visto.
L’ho sentito sulla pelle, il suo sguardo. Come se mi toccasse senza mani, come se mi infilasse le dita tra le cosce senza muoversi da lì.
E allora mi sono lasciata cadere sul letto. A gambe aperte.
Ho infilato la mano sotto la pancia, tra le cosce calde e umide. Mi sono toccata come non facevo da mesi.
Il respiro corto, il battito nelle orecchie. Ho mosso le dita piano, poi più forte, poi più forte ancora.
E quando sono venuta, ho stretto i denti e ho gemuto nel cuscino, mordendo il tessuto, cercando di non gridare.
Non ho mai goduto così tanto.
Quando ho riaperto gli occhi, lui era ancora lì.
Non si era mosso. Non aveva distolto lo sguardo.
Solo allora ho spento la luce.
Domani sera, vediamo chi ha più coraggio.
Ci penso tutto il giorno.
Mentre mi infilo i jeans luridi della settimana scorsa, mentre ingoio un cornetto gommoso al bar sotto casa, mentre la cassiera del supermercato mi guarda come se stessi rubando. Ci penso e mi bagna le mutande.
Lui mi ha guardata mentre venivo. E non ha distolto lo sguardo.
Non lo conosco. Potrebbe essere un maniaco, un pervertito, un cazzo di serial killer che si scopa cadaveri nel tempo libero. Eppure, quando il sole cala e mi trascino nel mio appartamento che sa di sigarette e olio vecchio, so già cosa farò.
Mi metto davanti alla finestra.
Maglietta nera, larga. Niente reggiseno. Sento i capezzoli duri sfregare il tessuto. Sento il cuore battere nei polpastrelli.
Mi slaccio i jeans, li spingo giù con i piedi, resto in mutandine. Le solite, slabbrate, elastiche, che tengono su la carne come meglio possono.
Poi alzo lo sguardo.
Lui c’è.
Mi fissa. Non si nasconde. Non si muove. Solo la sagoma scura, la luce alle sue spalle. Lo sa che lo sto facendo per lui.
E allora faccio un passo avanti.
Apro le gambe.
Infilo le mani sotto la maglietta. Accarezzo il seno, lento, come se lo stesse facendo lui. Stringo i capezzoli, li tiro piano. Li sento pulsare.
Mi sente anche lui?
Mi piace pensare di sì.
Mi volto di lato, gli do il profilo, la pancia che scende morbida, il culo abbondante.
Mi giro ancora. Ora gli do la schiena.
Abbasso le mutande fino alle ginocchia. Mi piego un po’, giusto quel tanto che basta per mostrargli le cosce, il culo, la pelle che si piega nei punti giusti e sbagliati.
E quando sento che sto per cedere, quando il sangue scorre troppo veloce e le gambe iniziano a tremare, mi raddrizzo, mi tiro su le mutande e spengo la luce.
Vediamo se domani avrà il coraggio di fare qualcosa.
Lo aspetto.
La luce accesa nella sua stanza. Il corpo immobile dietro il vetro. Lo aspetto.
Ma la finestra è vuota.
Mi siedo sul letto, resto lì con la maglietta troppo larga e le mutande strette sui fianchi. Mi sento una cogliona.
Aspetto. Minuti, forse ore. Non c’è.
La delusione mi monta nello stomaco, un groppo che non voglio ingoiare. Forse s’è rotto il cazzo di guardarmi. Forse ride di me con gli amici, forse ieri sera s’è toccato e ora pensa che sia solo una puttana disperata.
Una puttana grassa disperata.
Mi butto sul letto, la faccia affondata nel cuscino. Sento il fiato caldo sulla pelle, le guance bollenti. Stronza. Credevi davvero che qualcuno volesse guardarti?
Patetica.
Mi viene da piangere.
Ma il corpo è ancora caldo.
Sono eccitata.
Da sola.
Le cosce si stringono, la pancia sale e scende con il respiro pesante. Le mani scivolano giù.
Non c’è lui, non c’è il suo sguardo, non c’è il suo respiro dietro il vetro. Ma c’è il mio.
Infila le dita dentro. Muovile.
Il letto cigola. Più forte.
I gemiti escono strozzati, la gola chiusa dal pianto. Mi tocco con rabbia, con vergogna, con voglia.
Sono sola.
Ma sono viva.
Quando finisce, resto lì. Umida.
Sudata.
Con il cuore che batte forte e le mani che tremano.
Forse domani lui tornerà.
O forse no.
Ma io ho smesso di nascondermi.
Lo sento prima di vederlo.
Lo sguardo.
Come una lama che mi sfiora la pelle, come un dito che mi scivola giù lungo la schiena. Lo sento.
Sto mettendo nel carrello una bottiglia d’olio e un pacco di biscotti sbriciolati quando mi si raddrizza la schiena da sola. Qualcuno mi sta guardando.
Mi giro.
E lo vedo.
Un uomo, fermo davanti al banco frigo. Alto, giacca scura, occhi addosso. Non fa niente, non dice niente. Ma mi guarda.
Mi prende male.
Mi vedo come lui mi vede. La maglietta tesa sulla pancia, i jeans sfondati sulle cosce, i capelli raccolti alla cazzo. Una che compra biscotti rotti in offerta.
Abbasso la testa e mi muovo verso la cassa, le mani sudate che stringono il manico del carrello. Non lo guardo più, ma so che c’è.
Pago, infilo tutto nella busta, esco.
Dopo pochi passi, sento il rumore di una porta che si chiude. Passi dietro di me.
Il cuore batte più forte.
Arrivo sotto casa.
Mi fermo un attimo davanti al portone. Entro o no?
C’è un pensiero sporco che mi gira in testa. Se mi giro, se lo guardo, se lo sfido…
Ma non lo faccio. Non ancora.
Entro.
Il portone si chiude alle mie spalle. Salgo le scale con il fiato corto. Non mi volto.
Tre minuti dopo, il campanello suona.
Mi blocco.
Sento il cuore nelle orecchie. No, non può essere lui.
Mi avvicino alla porta. Appoggio la mano sulla maniglia, lo stomaco stretto. Forse è una coincidenza. Forse…
Guardo dallo spioncino.
È lui.
Il respiro mi si ferma. Non si è mosso. Non batte neanche le palpebre. Aspetta.
La mia mano sulla maniglia trema. Lo faccio entrare?
Sento il sangue pulsare ovunque. Non ci sono più vetri tra noi.
E allora giro la chiave.
Apro la porta.
Lui non dice niente. Io neanche.
Ci guardiamo. Da vicino è più giovane di quello che pensavo. Occhi scuri, pelle tesa sulle ossa. Ha fame.
Di me?
Mi scosto appena. Lui entra.
Chiudo la porta dietro di lui. Il silenzio è pesante. Sa di sudore e di attesa.
Che cazzo sto facendo?
Lui si toglie la giacca e la appoggia sulla sedia. Non si siede. Non si avvicina. Aspetta.
Vuole che sia io a farlo.
Il mio corpo si muove prima della testa.
Faccio un passo. Uno solo.
Lui solleva un sopracciglio, quasi divertito. Non ha fretta.
Mi sta dando il tempo di scappare.
Ma io non voglio scappare.
Mi mordo il labbro.
La mia mano si muove sul fianco, sfioro l’orlo della maglietta, le dita che giocano con il tessuto. Lo vedo che segue il movimento, che aspetta.
Mi lecco le labbra. Poi la tiro su. Piano.
Lo stomaco nudo, la pancia che si piega. Non mi vergogno più.
E lui? Lui non distoglie lo sguardo.
Mi tolgo la maglietta.
Resto in reggiseno e jeans. Sento i capezzoli duri, lo sento sulla pelle.
Lui fa un passo avanti. Uno solo.
Non mi tocca.
Aspetta.
È un gioco?
Io lo guardo. Lui mi guarda.
Il respiro si fa corto. Ho il cuore nelle orecchie, il battito tra le gambe.
Lascio che una spallina del reggiseno scivoli giù.
Lui annuisce.
È un gioco.
E io voglio giocare.
Il reggiseno cade sul pavimento.
L’aria mi sfiora i seni, i capezzoli duri. Non mi copre gli occhi, non mi copre il corpo. Sta fermo lì, davanti a me, come se mi stesse dando tutto il tempo del mondo.
Non voglio tempo. Voglio le sue mani.
Faccio un passo avanti. Ora siamo vicini. Troppo vicini.
Sento il suo respiro contro la pelle. Il mio corpo lo riconosce prima della testa. È quello sguardo che mi ha fatto tremare dietro il vetro. Ora è qui. Ora è mio.
Lui solleva una mano.
Mi sfiora il fianco. Leggero. Un tocco che non basta.
Stringo le dita nei jeans, la stoffa tesa sulle cosce. Lo voglio dentro. Lo voglio ora.
Ma lui no.
Lui aspetta.
«Che cazzo fai?» sibilo.
Sorride. Stronzo.
Le sue dita scendono piano, dal fianco al ventre, fino al bottone dei miei jeans. Non lo slaccia. Lo tocca appena. Aspetta che sia io a cedere.
Lo faccio.
Le mie mani si muovono da sole, il bottone che scatta, la cerniera che scende. I jeans scivolano sulle gambe, restano ammucchiati intorno ai piedi. Ora sono solo in mutandine.
Nere.
Lui le guarda.
Sorride ancora.
Mi gira. Mi spinge contro il muro.
Finalmente.
Sento il petto contro la parete fredda, il suo corpo che si incolla dietro di me. Il cazzo duro premuto contro il mio culo.
Il fiato mi si mozza in gola.
«Guardavi davvero?» chiedo.
«Sì.»
Le sue mani sulle mie cosce risalgono piano. Si fermano sull’elastico delle mutande.
«Ti piaceva?»
Non risponde subito.
Poi, piano, infila le dita sotto la stoffa.
Mi sfiora. Mi sente bagnata.
«Sì.»
Le sue dita sono lì, ferme sul bordo delle mutande. Non si muove. Mi fa impazzire.
Mi spinge ancora contro il muro. Lo sento dietro di me, il respiro caldo sulla nuca, il cazzo duro che preme contro il mio culo.
Mi sfiora appena. Basta questo per farmi tremare.
«Stronzo…» sibilo, cercando di muovermi contro di lui.
Lui ride piano. Il bastardo si diverte.
«Vuoi che vada avanti?» chiede.
Non rispondo. Non voglio dargliela vinta.
Allora aspetta. Le dita ancora ferme.
«Vuoi che vada avanti?» ripete, più vicino al mio orecchio.
Chiudo gli occhi. Il fiato corto, il battito che mi martella tra le gambe. Sì, cazzo.
«Sì.»
Mi abbassa le mutande.
Il tessuto scivola giù, lento, lasciando la pelle nuda. Ora sono completamente esposta.
La sua mano mi scivola tra le cosce. Mi spalanca piano.
Mi sfiora. Mi trova bagnata.
«Guardarti mi faceva venire duro» dice, con una voce bassa che mi cola lungo la spina dorsale.
Stringo i denti. «E allora cosa cazzo aspetti?»
Le sue dita affondano.
Un colpo secco, un movimento che mi toglie il respiro. Un gemito mi esce dalla bocca senza che possa fermarlo.
Sento la sua mano che si muove lenta, sicura. Sa quello che sta facendo.
Mi piego un po’ in avanti, il petto contro il muro, il culo che si offre a lui. Lo voglio dentro.
«Dimmi che lo vuoi.»
Fanculo. Vuole sentirmelo dire.
«Dimmi che lo vuoi, Giulia.»
Stringo i pugni, la fronte contro la parete fredda. Cazzo se lo voglio.
Apro la bocca.
Apro la bocca, ma il fiato mi si blocca in gola.
Dimmi che lo vuoi.
Stringo i denti, le dita che graffiano la parete. Lo voglio. Cristo se lo voglio.
Ma lui non si muove. Aspetta.
Mi fa impazzire. Sa che sono al limite.
Solleva la mano, mi prende per il mento, mi fa girare la testa di lato. Lo sguardo puntato su di me.
«Dimmi che lo vuoi.»
Sento il cuore battermi tra le gambe. Mi bagna il respiro.
Apro la bocca.
«Voglio che mi scopi.»
Lo sento sorridere dietro di me. Bastardo.
Si abbassa la cerniera. Il suono mi attraversa la pelle.
Mi prende per i fianchi. Mi tira indietro, verso di lui.
E poi, senza altro preavviso, affonda.
Un gemito mi strappa la gola, forte, svergognato. Mi riempie.
Si muove lento, la presa salda sui miei fianchi, come se volesse marchiarmi.
«Guardarti mi faceva venire duro» sussurra contro il mio collo.
Gemo, spingo indietro i fianchi. Voglio di più.
Lui lo capisce. Mi prende più forte.
Le sue mani stringono, il ritmo cresce. Il muro trema, il mio corpo pure.
Non sono più sola dietro il vetro.
Non sono più solo carne ignorata.
Ora sono viva.
Sono sola.
Di nuovo.
Il letto è sfatto, le lenzuola arrotolate, il cuscino ancora caldo di un odore che non è il mio. Lui non c’è più.
Non ha detto niente quando si è rivestito. Io neanche. Solo il suono della zip, il rumore della porta che si chiude piano. Se n’è andato senza voltarsi.
E io resto qui.
Il corpo mi fa male. Ma è un dolore buono.
Lo sento tra le gambe, sulla pelle graffiata dalle sue mani. Mi ha lasciato addosso la sua impronta, e io non voglio lavarla via.
Mi stendo sul letto, allargo le gambe. Ripenso a tutto.
Lo sguardo dietro il vetro.
Il gioco.
Le mani.
Il cazzo dentro di me.
Cristo.
Il silenzio è pesante.
Fisso il soffitto, la gola secca. Dove sarà ora? Sta già guardando un’altra?
Mi mordo il labbro. Lo vorrei ancora.
Ma non lo cercherò. Non sono io quella che cerca.
Mi alzo, nuda, le gambe molli.
Vado alla finestra. Guardo di fronte.
La sua stanza è spenta. Nessuna sagoma. Nessuno sguardo.
Sorrido piano. Forse è finita.
O forse, domani sera, lui sarà ancora lì.
E io… io lascerò la luce accesa.
Che poi, a chi cazzo dovrebbe fregare? Nessuno mi guarda.
Io vivo da sola, in un buco di appartamento che puzza di fritto e sudore vecchio. Nessuno mi aspetta, nessuno mi cerca. Tranne la cassiera del supermercato sotto casa, ma solo perché non ho mai i soldi contati e lei mi guarda male ogni volta che rovisto nel portafoglio come una rincoglionita.
Poi c’è lui.
Lui mi guarda.
L’ho sgamato una sera, mentre mi sfilavo il reggiseno. Cazzo, che goduria toglierselo dopo una giornata intera. Quello stronzo di un pezzo di stoffa che stringe la carne e la segna, le spalline che scavano, il sudore tra le tette. L’ho sfilato e ho sentito uno strano formicolio sulla pelle. Non freddo, non paura. Qualcosa di elettrico.
Ho alzato la testa e l’ho visto.
Dall’altra parte della strada, dentro una finestra illuminata. Sagoma scura, ferma. Mi stava guardando.
Il primo istinto? Chiudere tutto, mandarlo affanculo, nascondermi. Ma non l’ho fatto.
Perché? Perché una come me non viene guardata.
E invece lui era lì.
Adesso lo aspetto.
Ogni sera mi tolgo i vestiti più piano. La maglietta prima da un lato, poi dall’altro. La faccio scivolare sulle spalle come nei film, anche se so che non ho le spalle di una figa da film.
Lui c’è sempre.
A volte penso di abbassare la tapparella e farlo crepare nella sua curiosità. Altre volte vorrei aprire la finestra e urlargli: ti piace quello che vedi, pezzo di merda? Ti piace la ciccia che balla, la pelle molle, il culo grosso?
Ma non lo faccio.
Perché la verità è che mi piace.
Mi piace farmi guardare.
Ieri sera ho osato di più.
Ho tolto tutto. Via la maglietta, via il reggiseno, via le mutande. Ho acceso la lampada e mi sono messa di profilo, il fianco nudo esposto alla finestra. Non bella. Nuda.
Il cuore martellava forte. Dio, se mi ha visto.
L’ho sentito sulla pelle, il suo sguardo. Come se mi toccasse senza mani, come se mi infilasse le dita tra le cosce senza muoversi da lì.
E allora mi sono lasciata cadere sul letto. A gambe aperte.
Ho infilato la mano sotto la pancia, tra le cosce calde e umide. Mi sono toccata come non facevo da mesi.
Il respiro corto, il battito nelle orecchie. Ho mosso le dita piano, poi più forte, poi più forte ancora.
E quando sono venuta, ho stretto i denti e ho gemuto nel cuscino, mordendo il tessuto, cercando di non gridare.
Non ho mai goduto così tanto.
Quando ho riaperto gli occhi, lui era ancora lì.
Non si era mosso. Non aveva distolto lo sguardo.
Solo allora ho spento la luce.
Domani sera, vediamo chi ha più coraggio.
Ci penso tutto il giorno.
Mentre mi infilo i jeans luridi della settimana scorsa, mentre ingoio un cornetto gommoso al bar sotto casa, mentre la cassiera del supermercato mi guarda come se stessi rubando. Ci penso e mi bagna le mutande.
Lui mi ha guardata mentre venivo. E non ha distolto lo sguardo.
Non lo conosco. Potrebbe essere un maniaco, un pervertito, un cazzo di serial killer che si scopa cadaveri nel tempo libero. Eppure, quando il sole cala e mi trascino nel mio appartamento che sa di sigarette e olio vecchio, so già cosa farò.
Mi metto davanti alla finestra.
Maglietta nera, larga. Niente reggiseno. Sento i capezzoli duri sfregare il tessuto. Sento il cuore battere nei polpastrelli.
Mi slaccio i jeans, li spingo giù con i piedi, resto in mutandine. Le solite, slabbrate, elastiche, che tengono su la carne come meglio possono.
Poi alzo lo sguardo.
Lui c’è.
Mi fissa. Non si nasconde. Non si muove. Solo la sagoma scura, la luce alle sue spalle. Lo sa che lo sto facendo per lui.
E allora faccio un passo avanti.
Apro le gambe.
Infilo le mani sotto la maglietta. Accarezzo il seno, lento, come se lo stesse facendo lui. Stringo i capezzoli, li tiro piano. Li sento pulsare.
Mi sente anche lui?
Mi piace pensare di sì.
Mi volto di lato, gli do il profilo, la pancia che scende morbida, il culo abbondante.
Mi giro ancora. Ora gli do la schiena.
Abbasso le mutande fino alle ginocchia. Mi piego un po’, giusto quel tanto che basta per mostrargli le cosce, il culo, la pelle che si piega nei punti giusti e sbagliati.
E quando sento che sto per cedere, quando il sangue scorre troppo veloce e le gambe iniziano a tremare, mi raddrizzo, mi tiro su le mutande e spengo la luce.
Vediamo se domani avrà il coraggio di fare qualcosa.
Lo aspetto.
La luce accesa nella sua stanza. Il corpo immobile dietro il vetro. Lo aspetto.
Ma la finestra è vuota.
Mi siedo sul letto, resto lì con la maglietta troppo larga e le mutande strette sui fianchi. Mi sento una cogliona.
Aspetto. Minuti, forse ore. Non c’è.
La delusione mi monta nello stomaco, un groppo che non voglio ingoiare. Forse s’è rotto il cazzo di guardarmi. Forse ride di me con gli amici, forse ieri sera s’è toccato e ora pensa che sia solo una puttana disperata.
Una puttana grassa disperata.
Mi butto sul letto, la faccia affondata nel cuscino. Sento il fiato caldo sulla pelle, le guance bollenti. Stronza. Credevi davvero che qualcuno volesse guardarti?
Patetica.
Mi viene da piangere.
Ma il corpo è ancora caldo.
Sono eccitata.
Da sola.
Le cosce si stringono, la pancia sale e scende con il respiro pesante. Le mani scivolano giù.
Non c’è lui, non c’è il suo sguardo, non c’è il suo respiro dietro il vetro. Ma c’è il mio.
Infila le dita dentro. Muovile.
Il letto cigola. Più forte.
I gemiti escono strozzati, la gola chiusa dal pianto. Mi tocco con rabbia, con vergogna, con voglia.
Sono sola.
Ma sono viva.
Quando finisce, resto lì. Umida.
Sudata.
Con il cuore che batte forte e le mani che tremano.
Forse domani lui tornerà.
O forse no.
Ma io ho smesso di nascondermi.
Lo sento prima di vederlo.
Lo sguardo.
Come una lama che mi sfiora la pelle, come un dito che mi scivola giù lungo la schiena. Lo sento.
Sto mettendo nel carrello una bottiglia d’olio e un pacco di biscotti sbriciolati quando mi si raddrizza la schiena da sola. Qualcuno mi sta guardando.
Mi giro.
E lo vedo.
Un uomo, fermo davanti al banco frigo. Alto, giacca scura, occhi addosso. Non fa niente, non dice niente. Ma mi guarda.
Mi prende male.
Mi vedo come lui mi vede. La maglietta tesa sulla pancia, i jeans sfondati sulle cosce, i capelli raccolti alla cazzo. Una che compra biscotti rotti in offerta.
Abbasso la testa e mi muovo verso la cassa, le mani sudate che stringono il manico del carrello. Non lo guardo più, ma so che c’è.
Pago, infilo tutto nella busta, esco.
Dopo pochi passi, sento il rumore di una porta che si chiude. Passi dietro di me.
Il cuore batte più forte.
Arrivo sotto casa.
Mi fermo un attimo davanti al portone. Entro o no?
C’è un pensiero sporco che mi gira in testa. Se mi giro, se lo guardo, se lo sfido…
Ma non lo faccio. Non ancora.
Entro.
Il portone si chiude alle mie spalle. Salgo le scale con il fiato corto. Non mi volto.
Tre minuti dopo, il campanello suona.
Mi blocco.
Sento il cuore nelle orecchie. No, non può essere lui.
Mi avvicino alla porta. Appoggio la mano sulla maniglia, lo stomaco stretto. Forse è una coincidenza. Forse…
Guardo dallo spioncino.
È lui.
Il respiro mi si ferma. Non si è mosso. Non batte neanche le palpebre. Aspetta.
La mia mano sulla maniglia trema. Lo faccio entrare?
Sento il sangue pulsare ovunque. Non ci sono più vetri tra noi.
E allora giro la chiave.
Apro la porta.
Lui non dice niente. Io neanche.
Ci guardiamo. Da vicino è più giovane di quello che pensavo. Occhi scuri, pelle tesa sulle ossa. Ha fame.
Di me?
Mi scosto appena. Lui entra.
Chiudo la porta dietro di lui. Il silenzio è pesante. Sa di sudore e di attesa.
Che cazzo sto facendo?
Lui si toglie la giacca e la appoggia sulla sedia. Non si siede. Non si avvicina. Aspetta.
Vuole che sia io a farlo.
Il mio corpo si muove prima della testa.
Faccio un passo. Uno solo.
Lui solleva un sopracciglio, quasi divertito. Non ha fretta.
Mi sta dando il tempo di scappare.
Ma io non voglio scappare.
Mi mordo il labbro.
La mia mano si muove sul fianco, sfioro l’orlo della maglietta, le dita che giocano con il tessuto. Lo vedo che segue il movimento, che aspetta.
Mi lecco le labbra. Poi la tiro su. Piano.
Lo stomaco nudo, la pancia che si piega. Non mi vergogno più.
E lui? Lui non distoglie lo sguardo.
Mi tolgo la maglietta.
Resto in reggiseno e jeans. Sento i capezzoli duri, lo sento sulla pelle.
Lui fa un passo avanti. Uno solo.
Non mi tocca.
Aspetta.
È un gioco?
Io lo guardo. Lui mi guarda.
Il respiro si fa corto. Ho il cuore nelle orecchie, il battito tra le gambe.
Lascio che una spallina del reggiseno scivoli giù.
Lui annuisce.
È un gioco.
E io voglio giocare.
Il reggiseno cade sul pavimento.
L’aria mi sfiora i seni, i capezzoli duri. Non mi copre gli occhi, non mi copre il corpo. Sta fermo lì, davanti a me, come se mi stesse dando tutto il tempo del mondo.
Non voglio tempo. Voglio le sue mani.
Faccio un passo avanti. Ora siamo vicini. Troppo vicini.
Sento il suo respiro contro la pelle. Il mio corpo lo riconosce prima della testa. È quello sguardo che mi ha fatto tremare dietro il vetro. Ora è qui. Ora è mio.
Lui solleva una mano.
Mi sfiora il fianco. Leggero. Un tocco che non basta.
Stringo le dita nei jeans, la stoffa tesa sulle cosce. Lo voglio dentro. Lo voglio ora.
Ma lui no.
Lui aspetta.
«Che cazzo fai?» sibilo.
Sorride. Stronzo.
Le sue dita scendono piano, dal fianco al ventre, fino al bottone dei miei jeans. Non lo slaccia. Lo tocca appena. Aspetta che sia io a cedere.
Lo faccio.
Le mie mani si muovono da sole, il bottone che scatta, la cerniera che scende. I jeans scivolano sulle gambe, restano ammucchiati intorno ai piedi. Ora sono solo in mutandine.
Nere.
Lui le guarda.
Sorride ancora.
Mi gira. Mi spinge contro il muro.
Finalmente.
Sento il petto contro la parete fredda, il suo corpo che si incolla dietro di me. Il cazzo duro premuto contro il mio culo.
Il fiato mi si mozza in gola.
«Guardavi davvero?» chiedo.
«Sì.»
Le sue mani sulle mie cosce risalgono piano. Si fermano sull’elastico delle mutande.
«Ti piaceva?»
Non risponde subito.
Poi, piano, infila le dita sotto la stoffa.
Mi sfiora. Mi sente bagnata.
«Sì.»
Le sue dita sono lì, ferme sul bordo delle mutande. Non si muove. Mi fa impazzire.
Mi spinge ancora contro il muro. Lo sento dietro di me, il respiro caldo sulla nuca, il cazzo duro che preme contro il mio culo.
Mi sfiora appena. Basta questo per farmi tremare.
«Stronzo…» sibilo, cercando di muovermi contro di lui.
Lui ride piano. Il bastardo si diverte.
«Vuoi che vada avanti?» chiede.
Non rispondo. Non voglio dargliela vinta.
Allora aspetta. Le dita ancora ferme.
«Vuoi che vada avanti?» ripete, più vicino al mio orecchio.
Chiudo gli occhi. Il fiato corto, il battito che mi martella tra le gambe. Sì, cazzo.
«Sì.»
Mi abbassa le mutande.
Il tessuto scivola giù, lento, lasciando la pelle nuda. Ora sono completamente esposta.
La sua mano mi scivola tra le cosce. Mi spalanca piano.
Mi sfiora. Mi trova bagnata.
«Guardarti mi faceva venire duro» dice, con una voce bassa che mi cola lungo la spina dorsale.
Stringo i denti. «E allora cosa cazzo aspetti?»
Le sue dita affondano.
Un colpo secco, un movimento che mi toglie il respiro. Un gemito mi esce dalla bocca senza che possa fermarlo.
Sento la sua mano che si muove lenta, sicura. Sa quello che sta facendo.
Mi piego un po’ in avanti, il petto contro il muro, il culo che si offre a lui. Lo voglio dentro.
«Dimmi che lo vuoi.»
Fanculo. Vuole sentirmelo dire.
«Dimmi che lo vuoi, Giulia.»
Stringo i pugni, la fronte contro la parete fredda. Cazzo se lo voglio.
Apro la bocca.
Apro la bocca, ma il fiato mi si blocca in gola.
Dimmi che lo vuoi.
Stringo i denti, le dita che graffiano la parete. Lo voglio. Cristo se lo voglio.
Ma lui non si muove. Aspetta.
Mi fa impazzire. Sa che sono al limite.
Solleva la mano, mi prende per il mento, mi fa girare la testa di lato. Lo sguardo puntato su di me.
«Dimmi che lo vuoi.»
Sento il cuore battermi tra le gambe. Mi bagna il respiro.
Apro la bocca.
«Voglio che mi scopi.»
Lo sento sorridere dietro di me. Bastardo.
Si abbassa la cerniera. Il suono mi attraversa la pelle.
Mi prende per i fianchi. Mi tira indietro, verso di lui.
E poi, senza altro preavviso, affonda.
Un gemito mi strappa la gola, forte, svergognato. Mi riempie.
Si muove lento, la presa salda sui miei fianchi, come se volesse marchiarmi.
«Guardarti mi faceva venire duro» sussurra contro il mio collo.
Gemo, spingo indietro i fianchi. Voglio di più.
Lui lo capisce. Mi prende più forte.
Le sue mani stringono, il ritmo cresce. Il muro trema, il mio corpo pure.
Non sono più sola dietro il vetro.
Non sono più solo carne ignorata.
Ora sono viva.
Sono sola.
Di nuovo.
Il letto è sfatto, le lenzuola arrotolate, il cuscino ancora caldo di un odore che non è il mio. Lui non c’è più.
Non ha detto niente quando si è rivestito. Io neanche. Solo il suono della zip, il rumore della porta che si chiude piano. Se n’è andato senza voltarsi.
E io resto qui.
Il corpo mi fa male. Ma è un dolore buono.
Lo sento tra le gambe, sulla pelle graffiata dalle sue mani. Mi ha lasciato addosso la sua impronta, e io non voglio lavarla via.
Mi stendo sul letto, allargo le gambe. Ripenso a tutto.
Lo sguardo dietro il vetro.
Il gioco.
Le mani.
Il cazzo dentro di me.
Cristo.
Il silenzio è pesante.
Fisso il soffitto, la gola secca. Dove sarà ora? Sta già guardando un’altra?
Mi mordo il labbro. Lo vorrei ancora.
Ma non lo cercherò. Non sono io quella che cerca.
Mi alzo, nuda, le gambe molli.
Vado alla finestra. Guardo di fronte.
La sua stanza è spenta. Nessuna sagoma. Nessuno sguardo.
Sorrido piano. Forse è finita.
O forse, domani sera, lui sarà ancora lì.
E io… io lascerò la luce accesa.
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