La mia prima volta in una spiaggia naturista cap.6

di
genere
prime esperienze

Capitolo 6 – Marchiata

Mi svegliai nuda, distesa di traverso sul letto sfatto. L’aria nella casa mobile era immobile, intrisa del mio odore. Quello caldo e salato che resta dopo un orgasmo vissuto fino in fondo, lento, umido, obbediente.
Il lenzuolo era scivolato a terra. La pelle nuda aderiva al materassino ancora tiepido. Le gambe divaricate, una mano persa tra le cosce, l’altra molle sul petto, il polpastrello che batteva ancora piano sul capezzolo, come se cercasse di capire se fosse tutto vero.
Fuori, il canto regolare delle cicale. Dentro, solo il battito ovattato del mio cuore nella carne.

Il sole entrava dalla tenda sollevata. Un fascio di luce tagliava la stanza: caldo sul ventre, tremolante sulle punte dei capezzoli ancora turgidi. La pelle brillava, lucida, imperlata di sudore. Il profumo che salivo a sentire dal seno, dal collo, dal sesso… era il mio. Ferino. Denso. Appiccicato tra le dita e sotto le unghie.
Sul cuscino, una macchia scura di saliva. La bocca aperta, durante la notte. Labbra ancora umide.
Avevo goduto. Forte. Con il corpo e con la testa. Ma non ero sola.

Avevo seguito tutto. Ogni messaggio. Ogni ordine. Ogni pausa.
Mi ero toccata lentamente. Come voleva lui. Solo con le dita.
Sussurrando, tra un gemito e un tremito, la frase che Guido mi aveva sussurrato.
*“La prossima volta – ti apro in due. Ti tengo aperta finché non mi senti nella gola. E non uscirà nulla da te che non sia mio.”*
L’avevo ripetuta tre volte. Ogni volta più bassa. Più liquida. Più mia.
Quando il piacere mi aveva attraversata, non avevo chiuso le gambe. Le avevo aperte di più.
Avevo voluto che tutto uscisse.

Mi sollevai a fatica. Le cosce si staccarono dal materasso con un suono umido. Le sentii scivolose. Il seno era gonfio, vivo, sensibile. Ogni movimento un fremito.
Il monte di Venere era teso, ancora vibrante. La pelle era liscia, percorsa da fremiti lenti.
Sopra, quella striscia sottile di peli scuri, curata con precisione. Femmina. Intenzionale.
Un segno mio. Ma che ora apparteneva anche a loro.

Presi il telefono. Lo schermo era ancora acceso. La chat aperta.
Il suo ultimo messaggio lampeggiava come un faro:
#Brava piccola. Ma domani voglio vedere.#

Mi pizzicai il labbro. L’aria sembrava più densa. Il respiro mi rimase a metà tra petto e ventre.
Mi sdraiai di nuovo, allungai il braccio verso il cuscino, sistemai i capelli con l’altra mano.
Aprii la fotocamera.
Scattai.

Il primo selfie era sfocato: la pelle calda, il petto teso, le cosce dischiuse.
Un secondo. Più netto. Il seno in primo piano, le dita bagnate sull’inguine.
Un terzo. Frontale. Intimo. Reale.

Li guardai.
Mi sembravano troppo veri.
Io sembravo… *troppo vera*.
Vulnerabile. Scoperta.
“Non ho mai fatto niente del genere.”
Non li inviai. Ma restarono lì.
E il fatto di averli scattati…
mi fece chiudere le cosce. Forte.
Il capezzolo si indurì da solo. Il respiro si fece più veloce.

Avevo dato a un uomo il potere di guardarmi da lontano.
E non solo.
Il potere di farmi godere. Di farmi tremare.
Senza nemmeno essere lì.

Mi stesi ancora. Il telefono nella mano.
Scrissi qualcosa.
##Ieri è successo di nuovo##
Cancellai.
##Mi ha toccata sotto il vestito. Ho tremato. Non so se voglio che succeda ancora o che tu me lo faccia pagare##
Cancellai anche quello.

Mi leccai le labbra. Chiusi gli occhi.
Ma il corpo non dimenticava.
Sentivo ancora il dito di Guido tra le cosce.
Sentivo ancora l’eco di Leonardo nella testa.
Le parole. I comandi. L’inchiostro sulla pelle.

Ero nuda.
Ma non era solo pelle.
Ero *marchiata*.

La bici scivolava lenta lungo il sentiero sterrato, le ruote ancora bagnate dalla rugiada che non aveva evaporato del tutto. L’aria del mattino era densa di salsedine e resina, profumava di pini e sabbia umida. Il copricostume beige ondeggiava attorno alle cosce nude, sfiorandole con un fruscio irregolare a ogni colpo di pedale.
Sotto non portavo nulla. Solo il bikini dorato. Laccetti sottili. Triangoli minimi. Pelle viva.

Arrivai tardi.
La zia era già lì, sotto l’ombrellone, gambe incrociate, occhiali sul naso e rivista in mano.
Accanto a lei, Clara. Distesa sul lettino con il pareo elegante ancora addosso, una gamba piegata sull’altra, i piedi nudi nella sabbia. Occhiali grandi, sguardo celato, sorriso pronto.

Tra loro… Guido.
Seduto. Largo. In silenzio.
Occupava il lettino come si occupa un territorio.
Braccia forti, pettorali segnati, l’ombra scura del costume che saliva sui fianchi. Occhiali scuri. Barba folta. Il suo profumo era quasi mascherato dal vento di mare, ma io lo riconobbi. Profondo. Sottopelle.
Lo sentii prima ancora di vederlo.

–– Buongiorno tesoro –– disse Clara, sollevando una mano con gesto affettuoso. –– Vieni, stai qui accanto a Guido. C’è ombra, si sta bene.
La voce era dolce, ma il tono… pieno. Consapevole.

Mi avvicinai. Il cuore già irregolare.
Passai tra i lettini. Il copricostume si aprì leggermente all’altezza delle cosce. Sentii la stoffa toccarmi il ventre, poi una carezza diversa. Una mano.
Quella di Guido.

Non fu un errore.
Si piegò verso il suo borsone ai piedi, ma le dita mi sfiorarono l’interno coscia. Calde. Ruvide. Sicure.
Trattenni il respiro.

Lui non mi guardò. Ma sussurrò.
– Anche tu dovresti bere qualcosa.
La voce roca. Bassa.
Poi un secondo sussurro, ancora più vicino:
– È da due giorni che lo rimandi.

Mi scese un brivido tra le gambe. Non era una proposta. Era un promemoria. Un comando. Una colpa.
Mi sedetti accanto a lui. Il lettino era caldo del suo stesso corpo.
Sentivo l’odore della crema, del sale, ma sotto… c’era il suo.
Lui non parlava più. Ma c’era. Troppo.

Clara si voltò verso di me. Il sorriso affettuoso sulle labbra, ma lo sguardo troppo attento.
–– Dormito bene, tesoro? ––
Mi sfiorò il braccio. Un gesto da zia. Ma le dita indugiarono.
Il contatto era… doppio. Mascherato.

Poi la zia, ancora con gli occhi rivolti verso il mare, disse:
–– Hai messo la crema, Betta? Col vestito traforato ti ustioni subito.
Una frase neutra. Perfetta.

–– No… la prendo su in borsa. Un secondo.
Fu la via d’uscita. Il pretesto.

Mi alzai. Le gambe tese. Il respiro appena trattenuto.
Dietro di me, il lettino di Guido scricchiolò.
Non mi voltai. Ma lo sentii. Si stava alzando anche lui.

Mi incamminai a passo lento, il copricostume che accarezzava le cosce nude. Il vialetto tra le cabine era ancora deserto.
Il sole cominciava a salire, ma la sabbia era ancora fredda.
E dentro… io no.

Mi inoltrai tra le cabine con il cuore in gola e il respiro smosso. Il vialetto stretto, le pareti di legno che sapevano di resina e sabbia calda. Il sole colava obliquo tra le fessure, disegnando geometrie irregolari sulla mia pelle nuda sotto il copricostume traforato.
Ogni passo produceva un fruscio. La stoffa sottile sfiorava l’interno coscia. Il tessuto caldo del bikini si muoveva con me, troppo leggero per nascondere ciò che sentivo ancora pulsare.

Aprii la borsa con dita incerte. Il beauty era lì, accanto all’eyeliner.
Presi il telefono. Leonardo.
#Scrivilo di nuovo. Ma più grande.#
#Dove lui può leggerlo. Dove chi guarda… immagina.#

La gola si strinse. Il battito diventò basso, liquido, tra le gambe.
Sollevai il copricostume. Le mani afferrarono il bordo del bikini.
Il pube era lucido. Il caldo della pelle aveva lasciato una linea umida sul tessuto.
La strisciolina sottile, curata, vibrava a ogni battito.
Era il mio confine. E stavo per varcarlo.

Tirai fuori l’eyeliner. Lo aprii. L’odore pungente del trucco, mescolato all’aria calda e salmastra.
Scrissi.
“di Leonardo”
Lettera dopo lettera, sulla pelle tesa, appena sopra la striscia scura.

La punta scivolava morbida, ma lasciava una scia netta.
Sentii un brivido. Poi un suono.

Un passo. Lento. Sordo. Alle spalle.
Mi bloccai. Il cuore azzerato.
Una voce, roca, grave, appena un fiato.

– Anche oggi… obbediente. –

Mi voltai appena. Guido era lì.
Alle mie spalle. Immobile. Ma vicino.
Lo sguardo invisibile dietro gli occhiali da sole. Ma il corpo parlava. Era già dentro di me.

Mi afferrò per i fianchi e mi girò contro la parete della cabina. Il legno era ruvido sulla pelle. Il copricostume si sollevò da solo, come un sipario leggero.
Le sue mani scesero. Tirarono il bikini dorato verso il basso, fino a scoprire il pube.
Non tutto. Solo l’essenziale.

Espose la scritta. Espose me.
E poi… la fissò.

Con due dita tese, sfiorò la strisciolina. La accarezzò piano. Non per farmi godere.
Per riconoscere il territorio.
Poi la tirò leggermente.
Tesa. Umida.
La tenne lì.

– Questa… è mia. –
– Ora anche gli altri lo sanno. –

Sentii il sangue salire in viso.
Non eravamo soli.
C’era un silenzio strano tra le cabine.
Un silenzio che guardava.

Lui lo sapeva. E lo fece lo stesso.
Lo fece *per questo*.

Rialzò lentamente il triangolo del bikini. La stoffa scivolò sulla pelle ancora segnata.
Non disse altro.
Si voltò. Se ne andò come se nulla fosse.

Io rimasi lì. Il pube segnato. Il ventre teso. Il respiro spezzato.

Il telefono vibrò.
#Cosa ha fatto oggi il tuo corpo, mia piccola puttanella?#

Mi tremarono le dita. Risposi.
##Mi ha seguita. Mi ha toccata. Mi ha spogliata. E ha lasciato che un altro mi vedesse.##

Leonardo rispose subito.
#Scrivi a chi appartieni. Proprio lì dove lui ti ha scoperta. E mostrati. Ora.#

Tirai fuori di nuovo l’eyeliner.
Riabbassai il bikini. La pelle era umida, sensibile.
Scrissi. Di nuovo. Con lentezza.
*“di Leonardo”*
Sopra la striscia scura. Appena sotto l’ombelico.

Scattai.
La luce filtrava tra le assi di legno. La scritta sembrava scolpita.

Inviato.

E sotto la pelle…
una vibrazione nuova.
Avevo lasciato che due uomini mi segnassero.
Uno col corpo.
Uno con l’inchiostro.
E un terzo… forse…
aveva già iniziato a guardare.

Mi inoltrai tra le cabine come in un rituale. Le gambe ancora incerte, la pelle calda.
Ogni passo era un ritorno. Il pube pulsava dove Guido aveva tirato il triangolo. La scritta tracciata da me era ancora fresca, visibile appena sotto la strisciolina di peli.
Leonardo voleva che mi mostrassi.
Non solo a lui.

Aprii la fotocamera. Mi girai di lato, poi mi appoggiai a una parete.
Il sole passava tra le fronde, colpiva la mia pelle in tagli dorati.
Sollevai il copricostume fino ai fianchi.
Scattai.

Una foto. Due.
L’inquadratura ravvicinata, la scritta visibile. La pelle tesa.
Un fremito. Il battito basso tra le cosce.

In quell’istante cliccai su “invia”.

Fu solo allora che lo vidi.
Nell’anteprima del selfie.
Un’ombra.

Mi voltai di scatto.
Lentamente.
Il cuore accelerato.

Era lì.

Appoggiato alla porta della cabina contro cui avevo appena poggiato la schiena.
Pelle nerissima. Umida di sole.
Torace asciutto. Non depilato.
Una linea di peli scendeva dritta dall’ombelico al bermuda da surf.
Le gambe larghe. Forti.
Le braccia muscolose, rilassate.
Occhiali da sole. Barba brizzolata.

Sollevò gli occhiali con due dita.
Mi guardò.

Non guardava il corpo.
Guardava *me*.
Attraverso.

Gli occhi scuri. Profondi. Ipnotici.
Né curiosi. Né sorpresi.
Solo… consapevoli.

Il mio respiro si bloccò.
Il costume era ancora sollevato. La scritta visibile.
Non cercai di coprirmi.

Lui non disse nulla.
Poi parlò.
La voce uscì bassa. Ruvida.
Come sabbia su pelle bagnata.

– Sei sulla mia porta. –

Rimasi ferma. Le mani lungo i fianchi.
Il pareo ancora alzato. Il pube segnato.
Il mio odore mi risalì dal ventre al naso. Forte. Animale.
Ma non era solo il mio.

Il suo odore lo precedette.
Era caldo. Ferroso. Profondo.
Non profumo.
Era pelle. Sale. Spezie. Legno bagnato.
Era *maschio*. Di un’altra razza. Di un altro tempo.

Lui fece un passo avanti. Lento.
Il suo sguardo si abbassò. Vide la scritta.
Non reagì.
Inspirò.

– L’odore arriva prima dello sguardo. Sempre. –

Le parole mi entrarono nell’addome come dita.

– I feromoni non sono solo per gli insetti. –
Mi guardò negli occhi.
– In certi momenti, il tuo corpo parla più della bocca. –

Fece un altro passo.
Non mi toccò.
Ma sentii la sua pelle vicina. Il suo calore.
Mi tremò l’interno delle cosce.

– Tu emani qualcosa. –
– Non solo desiderio. –
– Qualcosa che… chiede. Ma non sa ancora cosa. –

Il battito mi esplose nelle orecchie.
L’aria era ferma. Umida.
Le labbra intime si gonfiarono senza che le toccasse.
Lui lo percepì. Ne ero certa.

– Ti sei aperta. –
– Ma nessuno ha ancora raccolto. –

Mi sfuggì un gemito spezzato.
Non c’era nulla di volgare.
Solo verità.
Cruda. Olfattiva. Animale.

Poi la voce del telefono.
Un altro battito.
Messaggio di Leonardo.

#Ti sta annusando, vero?#
#Non coprirti.#
#Lascia che senta. Lascia che *sappia*.#

Mi scivolarono le ginocchia.
Mi appoggiai meglio al legno.

L’uomo non disse altro.
Ma restò.
Deglutii e quello sguardo era troppo intenso, da sostenere.

Tornai verso l’ombrellone con la pelle accesa, le cosce che si sfioravano come labbra gonfie.
Camminavo tesa, ogni passo una scossa.
Il copricostume traforato svolazzava intorno al corpo ancora segnato.
Il bikini era tornato al suo posto, ma la stoffa aderiva alla pelle umida, lasciando intravedere la forma sotto.
La scritta. Il pube lucido. L’odore.

L’odore di lui.
Ancora dentro di me.
Non come memoria.
Come *presenza*.
Un odore profondo, caldo, ferino, speziato.
Diverso. Maschile. Lontano da tutto ciò che avevo conosciuto.
Si fondeva con il mio, in un’unica scia animale.
Avevo l’impressione che chiunque mi si avvicinasse potesse sentirlo.
Sentire *lui*.
Dentro di me, senza esserci entrato davvero.

Clara fu la prima a notarmi.
Sollevò il mento appena. Gli occhiali grandi nascondevano lo sguardo, ma il sorriso non era neutro.
– Eccoti qui – disse. – Hai la pelle bollente. Vieni, siediti qui accanto. Ti metto un po’ di crema. –

Mi sedetti. Il lettino era caldo. Guido era lì, accanto. Silenzioso. Immobile.
Le gambe larghe, i gomiti poggiati sulle cosce. Le mani intrecciate.
Gli occhiali scuri. Ma io lo sentivo guardare.
Non attraverso gli occhi.
Attraverso *la pelle*.

Clara si sollevò. I suoi movimenti erano fluidi, quasi danzati.
Prese il flacone, lo agitò.
Poi si inginocchiò accanto a me.

La prima goccia di crema sulla mia pancia fu un brivido.
Fredda. Lattiginosa.
Le sue mani scesero subito.
Accarezzavano con calma, con una delicatezza precisa.
Ma troppo *intima*.
Seguirono la linea degli obliqui, poi lambirono l’inguine, sotto il copricostume.
Si insinuarono appena sotto.
Un dito sfiorò la parte alta del pube.

Mi bloccai.
Avevo paura che si vedesse.
Che la scritta fosse ancora lì.
Che l’odore tradisse tutto.

– Lascia fare a me – disse con voce morbida, mentre mi sollevava appena il tessuto.

La sua mano si fermò proprio sopra la striscia sottile di peli.
Indugiò.
Tracciò un piccolo cerchio con il pollice.
La crema si mescolava al calore della pelle.
Al sudore. All’umidità.
Al mio profumo.

Mi voltai.
Clara mi guardava.
Sorriso intatto. Ma lo sguardo… tagliente.
Non cercava.
*Trovava*.

– Hai messo questo prima di uscire? –
– Credo di sì… – risposi. Ma la voce mi uscì rotta.

Poi accadde.
Come una scossa nella pancia.
Un vuoto improvviso.

Mi voltai verso la borsa.
Frugai.
Il beauty.

Non c’era.

Il cuore mi schiacciò lo sterno.
Avevo lasciato la trousse là. Tra le cabine.
Dentro, l’eyeliner.
L’inchiostro che avevo usato.
Il segno.
Il mio segno.
Quello che *lui* aveva letto.
E il pennellino… impregnato del mio odore.

Mi alzai di scatto.
– Vado a cercare una cosa. Ho lasciato la mia trousse. –

Clara non rispose.
Ma mi seguì con lo sguardo.
Fino all’ultimo passo.
E anche oltre.

Camminai rapida, ma ogni passo mi bruciava tra le gambe.
Il tessuto del bikini si era incollato al sesso.
Ogni frizione era un mormorio liquido.

Sotto il copricostume, la pelle parlava.
Parlava di lui.
Parlava di *me*.
E di cosa stavo diventando.

Il beauty era lì, dove l’avevo lasciato.
Ma non ero sola.

Lo sentii prima ancora di vederlo.

L’odore.

Denso, caldo, salato. Di pelle scaldata, di ferro e spezie.
Mi investì da dietro come un richiamo.

Mi voltai piano.
Jabari era ancora lì.
Non si era mosso.
Come se mi stesse aspettando senza aspettare.

Appoggiato allo stipite della cabina, gambe larghe, spalle nude, barba brizzolata.
Gli occhiali da sole. Il silenzio.

Non disse nulla.
Ma si staccò dal legno.

Fece due passi. Lenti.
Il suo odore si fece più intenso. Non profumo. Feromoni.

– Sei tornata. –
Disse solo questo. Ma lo disse come se fossi tornata per lui.

Abbassai lo sguardo.
Il cuore mi batteva tra le cosce.
Sapevo di avere ancora la scritta.
E l’umidità.
E lui... sapeva tutto.

Inspirò piano.
Poi fece un altro passo.
Il suo sguardo si abbassò. Non toccò.
Ma lo sentii.

– Non serve spogliarsi per sapere se una femmina è pronta.
– L’odore parla molto prima del corpo.
– E il tuo… non mente. –

Mi bloccai.
La gola secca. La pelle tesa.

– Ma c’è una cosa che non sa.
– Cosa ti succederebbe… se venissi presa davvero.
– Da qualcuno che non ti dà il tempo di pensare.
– Da qualcuno che non ti lascerebbe vuota dopo. –

Rimasi ferma.
Le cosce tremanti.
Non avevo mai detto a nessuno che non prendevo la pillola.
Nessuno poteva saperlo.

Ma lui… lo sentiva.
Come se il mio stato fosse impresso nel mio odore.

Non disse altro.
Si voltò.
E se ne andò.

Io rimasi lì.
Con il beauty in mano.
E una domanda che mi bruciava nel basso ventre.

Il telefono vibrò.
Leonardo.

#Hai tremato davanti a lui?#
#Ha sentito quanto sei bagnata?#
#Dimmi. Ora.#

##Ho cercato il beauty… ma lui era ancora lì.
Ha detto che l’odore dice tutto.
Che sa che non prendo nulla.##

#Brava puttanella.
Ora scrivilo.
Scrivi che appartieni a me.
E che il tuo odore… è già stato desiderato da altri.#

Sollevai il copricostume.
Abbassai il bikini.
La prima scritta c’era ancora.

Presi l’eyeliner.
Sulla pelle umida, tra la strisciolina sottile e le labbra gonfie, scrissi:

“Proprietà di Leonardo. Desiderata da altri.”

Il tratto tremava.
Il corpo era teso.
Il pube pulsava.

Scattai.
Inviato.

#Fammi sentire la tua voce.
Chi ti ha fiutata? Chi ti ha fatta bagnare?
Dimmelo. Senza vergogna.#

Attivai il microfono.
Il respiro era spezzato.

–– L’uomo di prima. Quello nero. Non so il nome.
–– Non mi ha nemmeno toccata. Ma ha inspirato il mio odore. Profondo.
–– Ha detto che non mi lascerebbe vuota. Che se mi prendesse… lo farebbe per marchiarmi.
–– E io… ho tremato. Perché lo vorrei.

#Non venire.#
#Torna da lui.#
#Lascia che legga. Che senta. Che capisca.#

Mi morsicai il labbro.
E andai.

Non tornai subito alla casa mobile.
Mi aggirai tra le cabine, come in trance.
Il beauty stretto tra le dita, il respiro più corto di quanto potessi controllare.

Cercavo lui.

Non sapevo il nome.
Non serviva.
Il corpo lo ricordava già.
L’odore. La voce. Gli occhi che assorbivano invece di guardare.
Sentivo di dover tornare.
Non perché Leonardo me l’avesse ordinato.
Ma perché *volevo essere letta di nuovo*.

Lo trovai poco dopo.
Sempre lì, appoggiato alla parete di legno.
Ma non come prima.
Adesso era *voltato verso di me*.
E mi stava già aspettando.

Mi avvicinai senza dire nulla.
Sollevai il copricostume fino al ventre, lentamente.
Il triangolo del bikini era teso, sottile, umido.
Sotto, le scritte ancora leggibili.
La pelle ancora viva.

Lui non mosse un muscolo per qualche istante.
Poi fece un solo passo avanti.
La sua mano si sollevò, aperta.
Non per afferrarmi.
Per leggere.

Mi toccò con due dita.
Solo il bordo.
Appoggiò il polpastrello sotto il bikini e lo tirò appena.
Il tessuto scivolò.
Le scritte apparvero.
E con esse, la mia nudità.

Le labbra intime erano gonfie, lucide.
Il pube segnato.
I peli ordinati come un invito.
I tratti dell’eyeliner scolpiti sulla pelle sensibile.

Lui non parlò.
Ma sfiorò la scritta.
Con un’unghia.
Poi la cerchiò, lentamente, come a proteggerla.

Poi scese.
Due dita calde seguirono il contorno delle grandi labbra.
Non all’interno.
Solo attorno.
Come si fa con qualcosa da *aprire più tardi*.

Un brivido mi attraversò la schiena.
Il respiro si bloccò tra i denti.

Allora lo vidi.
Non per caso.
Lo vidi perché *il mio corpo lo cercava*.

Il bermuda da surf era teso.
Ma non perché fosse eccitato.
Era *lui* ad esserlo.
Di suo.

Non era una sporgenza.
Era una *massa viva*, lunga, larga, spessa, che il tessuto non riusciva a contenere.
Una forma netta. Inclinata verso l’inguine.
Nera.
Enorme.
La leggenda che avevo sempre negato, che avevo pensato fosse una diceria volgare.
Era lì.
Reale.
E dormiva.

Mi si piegarono le ginocchia.
Non per paura.
Perché *non ero pronta*.
E sapevo che lui… lo sapeva.

La sua mano salì, si posò appena sopra l’ombelico.
Inspirò.
Ancora.
Dal mio pube fino al collo.

Poi parlò.
Piano.
Senza fretta.

– Sai qual è la differenza… tra il desiderio e l’istinto? –
– Il desiderio vuole godere. L’istinto… vuole lasciare un segno. –

Mi tremarono le cosce.

– Se ti prendessi… non lo farei per divertimento.
Lo farei per riempirti.
Perché il tuo odore cambi.
Perché chiunque ti annusi… sappia che sei stata presa da un maschio vero. –

La sua voce non era più solo voce.
Era *un’eco* nel mio ventre.

– E il tuo corpo… lo sa.
Ma non ha ancora deciso se è pronta a perdere se stessa. –

Fece un passo indietro.
Solo uno.

Il tessuto del suo costume era ancora più teso.
Ma lui non lo nascondeva.
Era *parte del messaggio*.

– Quando vorrai sapere… come si sente davvero una femmina marchiata, torna.
Ma solo se sarai disposta a restare aperta.
A *non svuotarti più*. –

Poi si voltò.
E mi lasciò lì.
Il sesso pulsante.
Le scritte esposte.
Le gambe molli.

Io tornai indietro.
Il passo lento.
Il ventre vuoto.
Ma *non libera*.

Dentro di me… sapevo che qualcosa si era attivato.
Che tra le cosce avevo qualcosa che voleva essere preso da lui.
Solo da lui.
E quel pensiero mi bagnava più della lingua di qualsiasi uomo.

Tornai lentamente verso l’ombrellone.
Il copricostume mi sfiorava le gambe nude, la scritta ancora fresca tra i peli ordinati.
Non mi ero lavata.
Non volevo.

Il sole era più alto.
Il mare più calmo.
Ma dentro… io ero una tempesta chiusa.

Guido era lì.
Seduto.
Occhiali scuri. Gambe larghe.
Le mani intrecciate tra le ginocchia.
La barba mossa dal vento.

Clara parlava con la zia.
Sorridente.
Distratta.
Ma quando mi vide… si fermò.
E mi scrutò.
Dal volto. Al petto. Al ventre.

Mi sedetti accanto a Guido.
La stoffa bollente sotto le cosce nude.

Per un attimo nessuno parlò.
Poi lui si chinò verso di me, senza guardarmi.

– Ho sete.
Vieni un attimo. –

Mi alzai.
Lo seguii.

Il vialetto era deserto.
L’ombra delle cabine proteggeva dal sole.
Lui non si fermò subito.
Mi portò dietro una struttura in legno.
Un piccolo deposito.
Uno spazio cieco.
Silenzioso.

Si voltò.
Mi guardò.
Poi con due dita mi sfiorò il mento.
Me lo sollevò.
Le sue mani odoravano di sale, metallo, sabbia.

Non disse nulla.
Abbassò solo il costume.
Il membro era gonfio. Pesante.
Più scuro alla base, lucido in punta.
La cappella ampia, nervata, tesa.

Lo afferrai senza pensarci.
Lo portai alle labbra.
Sentii il calore. Il peso. L’odore.
Mi aprii.

Lui entrò.

La bocca si dilatò.
Mi riempì.
La lingua si adattò alla forma, al sapore.
Non era solo pelle.
Era Guido.

Due mani sulla mia testa.
Ma senza violenza.
Solo dominio.

Lo succhiai lenta.
Fino in fondo.
Fino a sentire la gola che si apriva da sola.

Aveva trattenuto tutto per due giorni.
Era spesso. Salato. Vivo.
Sperma caldo, denso, maschio.

Ingoiai tutto.
Non tossii.
Non gemetti.

Solo un brivido.

Quando si staccò, mi sistemò il viso con una carezza ruvida.
Poi si ricompose.

– Brava. –
Sussurrò.
E tornò all’ombrellone.

Io rimasi lì.
Le gambe molli.
La bocca calda.
Il ventre… *ancora più pieno*.

Tornai poco dopo.
Clara mi offrì dell’acqua.
La accettai.
Le sue dita sfiorarono le mie.

– Hai labbra un po’ più scure del solito… –
Sorrise.
E si sdraiò sul lettino.

Mi distesi anch’io.
Chiusi gli occhi.

Finsi di dormire.

Ma dentro… ero sveglia.
Ancora più bagnata.
Con lo sperma di Guido in fondo alla gola.
Il sapore tra i denti.
Il corpo segnato da tre uomini.
E lo sguardo di Clara che… *sapeva*.

Rientrai alla casa mobile solo tardi.
Mi spogliai.
Mi lavai il corpo.
Ma non l’interno.

Perché lì dentro… volevo che restasse.
Almeno per un altro po’.
scritto il
2025-04-07
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