Soup of the day: BEER – Hollywood 2016

di
genere
etero

Per molte persone c’è qualcosa di profondamente triste nel passare il giorno del proprio compleanno da soli. Io invece compio trentun anni oggi dopo essermi trasferito da solo dall’altra parte del mondo qualche mese fa e non ci trovo nulla di strano.
Mi son subito reso conto mio malgrado di quanto sia difficile costruire certi rapporti e certe amicizie partendo da zero; non che io non abbia conosciuto qualcuno in questi mesi, sia chiaro, semplicemente nessuno con cui io abbia voglia di passare questa giornata insieme.
Ho troppo disprezzo per la mediocrità per non aver imparato nel tempo ad apprezzare la solitudine.

La mia casa qui a Los Angeles è lo stereotipo dell’uomo giovane, single e cinico. Pareti bianche senza quadri, nessun soprammobile a prendere polvere e una cornice sul tavolino all’ingresso facente parte dell’arredamento iniziale e che ancora mostra volti di sorridenti sconosciuti in un anonimo sfondo rurale.
Sono, per mia estrazione, una persona molto pulita e ordinata e l’effetto generale entrando nel mio appartamento è quello di varcare la soglia del film American Psycho.

Decido di prendermela con calma oggi e di andare a rispondere ad alcune mail dal pub in fondo alla strada; un posto tranquillo su Sunset Boulevard dove si mangia una pizza passabile, si beve buona birra di importazione e si ascolta ottima musica rock a un volume mai fastidioso. Il locale ha un certo non so che di intimo, due file da tre tavolini con quattro sedie, un bancone dietro al quale campeggiano svariati tipi di alcoolici e una parete-specchio macchiata dal passare del tempo; su una lavagna nera appesa al muro risalta in bianco la scritta “Soup of the day: BEER”.

Mi siedo all’ultimo tavolino e aspettando la cameriera mi guardo intorno. Una ragazza con un maglioncino blu e i capelli raccolti in un codino alto mi dà le spalle in prima fila; alla sua destra, un ragazzo vestito sportivo è seduto al bancone sorseggiando una birra. Lo osservo: sarà alto almeno un metro e novanta, spalle larghe e muscoli gonfi. Mi rendo conto che nel trasferimento dall’Italia ho perso del vantaggio competitivo: a Genova sono sempre stato mediamente più alto degli altri ragazzi e il nuoto e la corsa praticati negli anni mi hanno garantito un fisico asciutto ma atletico. Qui negli Stati Uniti invece faccio la figura di Steve della commedia anni ’80 “Otto sotto un tetto”.

Apro il menù e vista l’età che avanza decido di ordinare un’insalata e una Bud Light. La cameriera si avvicina e con fare cortese ma sbrigativo prende l’ordinazione. Tra i punti di forza di questo locale sicuramente non c’è la simpatia del personale, ma devo ammettere che le cameriere sono sempre molto piacenti. Questa in particolare sarà alta non più di un metro e sessanta, occhi azzurri chiarissimi, capelli castano scuro. Indossa un paio di jeans che mettono in evidenza un sedere rotondo e generoso e una canottiera color prugna indossata ad arte senza reggiseno per far orgoglioso sfoggio di un seno sodo, alto e proporzionato, chiaro risultato di un sapiente investimento in chirurgia estetica. Vicino all’occhio sinistro spicca un piccolo tatuaggio a forma di cuore di un vivissimo rosso accesso.

Mentre attendo che mi venga servito il mio pranzo di compleanno, mi balena in mente un’idea. Apro il computer che mi ero portato con l’intento di lavorare e invece comincio a scrivere questo racconto. Fino a qui è stata tutta realtà è io stesso a questo punto ancora non posso sapere se la parte a venire sarà fantasia oppure no.

La mia insalata arriva abbastanza in fretta insieme alla birra, ma son troppo assorto in queste righe per curarmene e quando alzo la testa dalla testiera la birra è già finita mentre l’insalata, tristissimo tentativo di dieta, è rimasta intoccata. Cerco lo sguardo della cameriera che senza bisogno che io dica nulla spilla un’altra birra e si avvicina.
“Busy day?”, “Yep, working on my B-Day!”, “Non dovresti lavorare il giorno del tuo compleanno”, incalza, “Lo so, ti spiace se sto un po’ qui?” lancia uno sguardo incuriosito allo schermo e notando che non sto scrivendo in inglese mi domanda da dove io venga. “Sono Italiano”, le rispondo, lei mi sorride e senza dire nulla e se ne va.
Mentre arrivo a fine pagina le birre si susseguono senza che io debba nemmeno ordinarle, e ogni volta ne approfitto per scambiare qualche parola con la cameriera facendola sciogliere un po’ nei modi, ma senza portarmi troppo vicino all’obiettivo.

La cerco di nuovo e mi accorgo che mi sta guardando da dietro il bancone asciugando dei bicchieri. Le chiedo il conto simulando con le mani il gesto della firma su un foglio, lei mi fa un cenno con la testa e si avvicina con un libretto nero di finta pelle insieme ad un’altra birra in bottiglia che capisco essere offerta dalla casa.
Son chiaramente riuscito a rompere il ghiaccio, ma non sono stato in grado di piazzare il colpo vincente.
Compilo la ricevuta aggiungendo la mancia e scelgo di provare un’ultima carta: giro lo scontrino e scrivo “grazie per avermi fatto compagnia il giorno del mio compleanno, è un peccato non aver potuto chiacchierare di più, Marco”. Con aria indifferente infilo di nuovo la ricevuta nella custodia nera e aspetto che venga a riprendersela.

Quando si avvicina indossando di nuovo il suo sorriso di frettolosa cortesia vengo assalito dai dubbi; dopotutto, pranzo in questo posto almeno tre volte alla settimana; cosa succederebbe se si dovesse offendere? E se nemmeno si accorgesse del mio messaggio? O peggio, se se ne accorgesse qualche suo collega?
Decido che il giorno del mio compleanno mi è permesso essere un po’ più intraprendente e vivo con sollievo il momento in cui lei rimuove dal tavolo il libretto con la ricevuta: il dado è tratto.

Finisco con calma evitando di incrociare di nuovo il suo sguardo e prendo note mentali di questo goffo tentativo di corteggiamento. Chiudo lo schermo del PC, finisco la birra e appoggio la bottiglia sul tavolo proprio mentre lei si avvicina e in un movimento quasi furtivo porta via il vuoto lasciando sul tavolo un sottobicchiere pulito. Quasi senza farci caso lo prendo in mano e inizio a giocarci con le dita, lo giro e con un sorriso sornione trovo un numero di telefono e un nome: Stacy.

Mi alzo e esco dal locale, torno a casa non poco compiaciuto e ben contento di aver più tempo per pianificare la prossima mossa: non son mai stato un predatore seriale, e non mi sento a mio agio fuori dal mio campo di giochi.
Entro in cucina e preparo una moka da tre con l’intenzione di berne tutto il contenuto mentre leggo le mail che mi son lasciato indietro durante il pranzo prolungato. Verso il liquido nero e fumante in una tazza e mi sposto sulla mia terrazza. Mi siedo sul materasso che ho sistemato con vista sulla città e sorseggiando questo nettare ristoratore osservo il paesaggio.

Los Angeles è una città atipica, un aggregato di diversi comuni senza un vero è proprio centro urbano. Dalle colline di Hollywood si osservano due diversi skyline, il primo è quello di L.A. Down Town, il secondo è quello del Century Park di Beverly Hills. Pochi grattacieli moderni che svettano senza soluzione di continuità in mezza a una vastità di villette e negozi ad uno o due piani. Il territorio che rientra nella circoscrizione di Los Angeles è talmente ampio che da casa mia non si riescono nemmeno a intravedere a ovest le spiagge di Venice Beach o Santa Monica.

Prendo il telefono, digito il numero lasciatomi da Stacy e le scrivo un messaggio semplice giusto per valutare come muovermi in base alla sua risposta. Mi accendo una sigaretta mentre gioco nervosamente con il telefono fissando lo schermo nero in attesa di un luminoso segnale di risposta.
Il messaggio che ricevo è molto più diretto di quanto mi sarei aspettato: “Stacco alle sei”. Finisco il caffè e le rispondo: “Sarai troppo stanca per farmi compagnia anche a cena?”

Stacy mi ha chiesto di avere il tempo di passare a casa a prepararsi, quindi prenoto per le nove in un ristorante a meno di un chilometro da casa mia.
Non avendo la macchina le mando un Uber Black sotto casa e mi dirigo a piedi verso il ristorante per aspettarla. Arrivo con largo anticipo, non tanto per galanteria quanto per aver il tempo di ordinare un Tequila & Soda e scrollarmi di dosso l’imbarazzo.
Nemmeno il tempo di finire il cocktail e mi arriva un messaggio di Stacy che mi avverte di essere all’ingresso. La raggiungo sorridendo, le passo una mano dietro la schiena e con la scusa dei due baci all’italiana cerco subito il contatto fisico. Lei sorride imbarazzata ma non disdegna e mi prende per mano mentre entriamo nel locale attirando più di uno sguardo, ovviamente più per merito suo che mio.

Passare da casa per prepararsi le ha dato il tempo di tirare su i capelli in uno chignon improvvisato lasciando scoperto il lungo collo sottile. Una magliettina bianca, corta e morbida si appoggia sul seno restando comodamente appesa e lasciando scoperto buona parte del suo ventre sottile e piatto. Un pantalone nero attillato e un tacco a spillo vertiginoso la aiutano a slanciarsi recuperando molti dei centimetri che normalmente ci avrebbero separato. La osservo mentre le tengo la sedia per farla sedere e un brivido percorre la mia schiena: la voglio, ma devo fare attenzione a non sembrare troppo esplicito.

La cena passa veloce, ordiniamo un filetto di Angus Argentino e con piacere vedo che anche lei sceglie di pasteggiare bevendo cocktail aiutandoci nel trovare argomenti di discussione senza cadere in silenzi imbarazzanti.
Stacy mi piace, sorride accarezzandosi i capelli e tenendo spesso una mano sulla mia. Ridiamo un sacco. Parliamo del lavoro che mi ha portato a LA, dei suoi studi e dei suoi sogni. Capisco che parte della sua bellezza arriva dal mix di sangue nella sua famiglia, un po’ araba, un po’ asiatica e un po’ messicana. E adesso si trova in America a cena con un italiano. Non posso far a meno di chiedermi quanto potrebbero essere belli i nostri figli.

Dopo cena la porto in un famoso locale gay della zona. La serata come sempre è divertente senza mai essere volgare. Ballerini super muscolosi e cubiste maggiorate si esibiscono in capriole e giravolte sui trapezi e sugli anelli che scendono dal soffitto tra le luci stroboscopiche della discoteca. Intorno a noi ognuno bada ai fatti proprio mentre io e Stacy ne approfittiamo per ballare sorseggiando un paio di altri drink. Quando alle due gli addetti alla sicurezza invitano gli avventori a uscire, io e lei abbiamo già sfiorato ogni angolo lecito dei nostri corpi senza neppure esserci ancora baciati.

Ordino un solo Uber dando l’indirizzo di casa mia e lei non accenna alcun segno di protesta. Sul sedile posteriore della Toyota Prius, attiro a me Stacy e comincio a baciarla. Un bacio lungo appassionato che entrambi stavamo aspettando da tutta la sera. Le mie mani cercano la curva del suo seno così duro da sembrare scolpito nel marmo. Sento la mia erezione fastidiosamente incastrata nell’elastico dei boxer mentre faccio scivolare una mano tra le sue gambe.

L’autista, in silenzio, pare non accorgersi della nostra presenza.

Con una mano Stacy mi accarezza il petto e il ventre sotto la camicia e piano piano si avvicina al bordo dei pantaloni incontrando, prima di quanto si sarebbe aspettata, la punta del mio membro ormai per metà fuori dalla cintura. Con una finta aria tra lo scandalizzato e il sorpreso Stacy si allontana sorridendo affibbiandomi nomignoli poco lusinghieri.

Uber ci lascia davanti al cancello. Con passo calmo attraverso il giardino passando davanti alla piscina e apro la grossa vetrata che dà sul salotto. Vado a prendere due bottigliette d’acqua offrendogliene una. Ci sistemiamo sul materasso sulla terrazza e ricominciamo a parlare e ridere chiedendoci se il giorno dopo il nostro amico autista ci avrebbe fatto finire su YouTube.
Con evidente sollievo lei si sfila le scarpe per poi stendersi di fianco a me, l’aria della notte è frizzante senza essere fredda. Mi chino su di lei e la bacio di nuovo. In un attimo le sfilo la maglietta mentre lei è alle prese con la mia cintura.
Le bacio i capezzoli e inizio a stuzzicarli prima con le dita poi con la lingua mentre le sbottono i pantaloni e cerco invano di sfilarglieli. Ridendo accorre in mio aiuto e io ne approfitto per togliermi la camicia sentendo alcuni bottoni tintinnare sul pavimento.

La guardo e la trovo vestita solo di una culotte di pizzo nera estremamente sexy.
Fissandola mi slaccio i pantaloni e, in un movimento unico, li sfilo insieme ai boxer ai calzini. Resto fermo così, nudo e duro davanti a lei. Stacy si tira su restando seduta sul bordo del materasso e guardandomi negli occhi allunga una mano verso la mia erezione. Inizia ad accarezzarla delicatamente senza mai smettere di guardami, poi la stringe come per valutarne la consistenza. Solo a quel punto distoglie lo sguardo e osserva il mio cazzo, quasi indecisa da che parte cominciare. Avvicina le labbra e con la lingua inizia a giocare su di me. Mi godo questa scena qualche minuto finché lei si stacca dicendo di volermi dentro di lei.

La prendendo per le cosce, i suoi fianchi son piuttosto larghi per una ragazza della sua statura ma le gambe son sottili e sinuose. Afferro la mia asta e piano piano comincio a far scorrere il glande tra le sue grandi labbra per poi giocare con movimenti circolari sulla sua fessurina ma senza mai penetrarla. Il suo pube è caldo, voluttuoso, invitante.
Sento il respiro di Stacy farsi sempre più agitato ad ogni mio movimento mentre piano piano inizio a spingermi dentro di lei. Avanzo trattenendo la posizione e senza mai entrare del tutto. Affondo solo la cappella e la faccio uscire fuori ad ogni colpo. Lei è completamente assorta nel suo piacere: in quel momento la mia presenza è solamente accessoria al suo orgasmo. In segno di protesta e per riottenere la sua attenzione affondo con un movimento deciso tutta la mia asta dura dentro di lei.

Sento la base del mio cazzo premuta contro la sua clitoride mentre le mie palle battono tra le sue cosce. Resto dentro di lei eccitato e duro, continuando a spingere in avanti. Stacy affonda le unghie nei miei fianchi così in profondità da obbligarmi a rilasciare la tensione dai nostri corpi.
Le stringo le cosce tra le mani, finché le mie nocche non si colorano di bianco per la tensione. Inizio a entrare e uscire sempre più veloce consapevole che l’alcool giocherà a mio favore.
Alterno colpi forti e profondi a ritmi più lenti e lievi, fino a quando capisco quali siano i movimenti e le pressioni in grado di regalarle piacere.

Quando mi accorgo che Stacy sta arrivando decido di fermarmi. Mi inginocchio e inizio a leccarla, voglio sentire il sapore del suo orgasmo. La mia lingua e le mie dita riprendono diligentemente da dove il mio cazzo aveva lasciato e in pochi minuti stringendo le cosce intorno alla mia faccia, Stacy mi bagna del suo piacere. Soddisfatto, mi alzo in piedi davanti a lei che sta ancora cercando di riconquistare il controllo del suo respiro. Prendo l’erezione tra le mani e guardandola mi sego fino a quando il mio seme caldo non disegna schizzi di piacere sulla sua pelle scura.

Mi siedo al suo fianco, Stacy ancora sembra non aver ripreso fiato. Allungo una mano sul tavolino, prendo una sigaretta, la accendo e soddisfatto penso: “Tanti auguri a me!”
scritto il
2016-10-01
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