Cecilia - Un fine settimana - Cap VI
di
itamobydick
genere
dominazione
- Capitolo 6 -
Ludovico aveva già servito in tavola, aspettava solo che Cecilia tornasse dal bagno per iniziare a mangiare quegli spaghetti al ragù che sembravano così invitanti. Era scosso: ma cosa stava succedendo quel giorno? Prima i suoi esercizi ginnici, adesso quelle ciliegie; tutte cose che lo eccitavano da morire, situazioni paradossali che non aveva mai sperimentato prima di allora. Quella sensazione assurda, di un'eccitazione pari all'imbarazzo, con lei davanti che lo guardava dritto negli occhi: ma cos'era quel nuovo mondo? Stava sognando? Se era un sogno, aveva tutti i requisiti per essere definito incubo. Ormai era sicuro che lei sapeva cosa provava, lei sicuramente sapeva che lui si eccitava: come poteva essere altrimenti? Ma allora, se era così, perchè non lo diceva? Perchè stava in silenzio, lei, e faceva finta di niente? Se lei faceva finta di niente, avrebbe dovuto lui fare la prima mossa, e dichiararle la sua "situazione". Solo che non ci riusciva. Gli era venuto un groppo in gola in quei momenti, che non sapeva cosa fare, non riusciva a dire niente ma nemmeno a muoversi. In quegli istanti, perdeva completamente il controllo di se: lei, se avesse voluto, avrebbe potuto fare quello che voleva, in quei momenti. Era una sfida forse? Ma una sfida a che cosa allora?
Mentre pensava queste cose, Cecilia rientrò in cucina. Si sedette subito a tavola "Oh finalmente, cominciavo ad avere fame. Spero che sia mangiabile..." - "Penso di sì" gli rispose, un pò più sciolto dopo quella battuta. "Oh, aspetta, ho dimenticato i tovaglioli" e si alzò a prenderli, mentre Cecilia, serena, lo guardava. Si risedettero, e si misero a mangiare; lei iniziò a chiedergli di alcuni professori del Liceo, che non vedeva da tempo, e prese il largo un discorso sulle loro stranezze e le varie occasioni memorabili dell'uno e dell'altra durante gli anni di scuola passati. C'era quella volta che, durante una gita, si dimenticarono un professore in un museo, accorgendosene solo dopo mezz'ora di viaggio; quella di quando sempre lo stesso professore riuscì a farsi cadere la lavagna addosso, rischiando pure di farsi male, ma con le risate e gli applausi di tutta la classe. Le battute, sempre le stesse, che una vecchia insegnante ripeteva ai suoi studenti da quando aveva iniziato ad insegnare, ed i battibecchi entrati nella storia tra i bidelli! Quante risate che si facevano in quella cucina, mentre fuori il sole delle ore centrali stava finalmente portando alla città quell'estate che si era fatta tanto attendere: le cicale stridevano rumorosamente in quelle strade deserte, con qualche uccello che svolazzava qua e là. Nè un cane nè un gatto per i campi: troppo caldo, senza nemmeno un filo di vento, senza nemmeno una nuvola in cielo.
Iniziò a toccargli le caviglie. Lui ovviamente non capì, e continuando a parlare tirò indietro le gambe, pensando di averle troppo avanti. Lei, dopo un po', allungò di nuovo il piede per accarezzarlo; lui, questa volta con una leggerissima vena di sospetto, tirò ancora più indietro le gambe. Era tutto intento a raccontare, che non ci faceva nemmeno caso: i suoi erano movimenti involontari, quelli di Cecilia per nulla.
Allungò per la terza volta il piede, iniziando più esplicitamente a strisicarglielo sulla gamba. Lui si fermò, smise di parlare, guardandola confusissimo, ma lei, con quel sorriso, gli disse subito "Dai, continua, perchè ti sei fermato?". Attimi infiniti di silenzio, mentre lei sopra lo fissava attentamente, e sotto gli massaggiava la gamba, pian piano sempre più in alto, pian piano sempre più pericolosa. Ricominciò a parlare, più lentamente: no, non "stava al gioco", perchè non aveva idea di che gioco fosse; lui era semplicemente caduto, di nuovo, nella sua trappola. Di nuovo in quella condizione di blocco totale, nell'incapacità di muoversi, di fare qualcosa con la propria volontà: ora faceva solo quello che voleva lei. Il piede si avvicinava, con velocità impercettibile ma inesorabile, al suo pube: strisciava un po' avanti, e poi leggermente indietro; ancora avanti, poco più di prima, e poi di nuovo indietro. Ludovico era già eccitato: il suo sesso stava sperimentando quel giorno una prova che non aveva mai neanche avvicinato lontanamente: prima l'esercizio, poi la frutta, ora quella terza tortura che lo spingeva verso l'erezione, l'eccitazione, l'orgasmo...per poi fermarsi, quando era al limite.
Quando con la punta del piede iniziò a sentire il membro rigido, Cecilia, continuando ad ascoltarlo fissandolo negli occhi, iniziò a mordersi il labbro. E proseguì la sua inesorabile avanzata, poggiando il piede sul pene di Ludovico. Lui era rossissimo, legava a fatica le parole, balbettava con gli occhi sgranati: sembrava in tutti i sensi in uno stato di ipnosi. Lei, con infinita lentezza, iniziava a premere ripetutamente sui suoi jeans. Sentiva sotto il calzino la lampo dei pantaloni di lui, e la cosa rendeva ancora più divertente quel suo gioco. Sentiva il pene premere, sentiva che quel povero condannato alla tortura voleva liberarsi, uscire da quella prigione, ed essere soddisfatto come la natura aveva deciso quando l'aveva creato. Ma, sfortunatamente per lui, la lampo era chiusa e lo sarebbe rimasta. Il ritmo costante di Cecilia lentamente sortiva il suo effetto: era sempre più rigido, e quando per qualche attimo si fermava, poteva sentirlo vibrare, e sentirne le vene piene che pompavano il sangue. Lei era nel suo nirvana, lui nel suo infermo: respiri secchi e brevi fra quelle parole dette con fatica, la forchetta ancora in mano con quel boccone che ormai si era completamente raffreddato: tutto questo, mentre lei lo guardava, e senza staccare lo sguardo, finiva di mangiare gli ultimi spaghetti. Per Ludovico era tutto amplificato all'ennesima potenza: il rumore della forchetta, la mano che dolcemente la portava alla bocca, quelle labbra che si aprivano e la facevano entrare. E poi, quando si chiudevano, e succhiavano dentro gli spaghetti: quelle labbra strette, sporche ragu rosso, espressione massima dell'erotismo in quell'istante. Gli occhi profondi che scrutavano i suoi, mentre con il piede continuava a torturare il suo povero pene. Gli cadde la forchetta sul tavolo. Il sesso era eccitatissimo, e lei continuava con il suo moto perpetuo, spingendo e mollando quel pedale della frizione sessuale. Iniziò a rallentare, sentendo che il momento tanto atteso da Ludovico questa volta stava davvero per giungere. Si fermava qualche istante, e poi dava due o tre lentissimi colpetti. Ancora si fermava, e ad ogni sosta leggeva la disperazione negli occhi di Ludovico: ogni sosta, per lui in quello stato di estrema eccitazione, era l'apocalisse. Di nuovo qualche colpo, ma con una pausa più lunga: lui era immobile, pietrificato. Altri due colpi, poi nulla. Il suo piede iniziò, lentamente come c'era arrivato, ad allontanarsi: Ludovico appena se ne accorse sgranò gli occhi, con uno sgardo devastato di uno che implorava la pietà. Lei lo guardava, in estasi, continuando ad allontanarsi. Il suo sguardo diventò ancora più esasperato, con la bocca mezza aperta, fuori da ogni forma di autocontrollo: lei, sorridendo, fermò il suo movimento. Con infinita lentezza, ne invertì il verso. Si avvicinò di nuovo a quel membro in pena, fermandosi appena lo sentì con la punta del piede. Si avvicinò ancora, facendolo scivolare fin sotto alla pianta, e poi ancora fin quasi al tallone. Guardava Ludovico, sentiva il suo sesso vibrare spaventosamente. Aumentò leggermente la pressione del piede. Ludovico era in uno stato di eccitazione pazzesco, non aveva idea di cosa avrebbe potuto fare per poter venire lì, ora, in quell'istante: ma era bloccato completamente. Lei fece, con estrema lentezza, strisciare indietro il suo piede, mantenedo quella lieve ma incredibile pressione sul pene. Passò la pianta, e Ludovico era certo che sarebbe venuto. Quando si avvicinarono le dita, lui aprì istintivamente la bocca, e chiuse gli occhi. Era il momento, Cecilia fece scorrere via anche le ultime dita: doveva venire, doveva venire, doveva venire...
...ma lei aveva mollato la pressione.
Lentamente allontanò il suo piedino, facendolo strisciare sulla sua gamba, sul ginocchio, fino a riportarlo a fianco dell'altro. Sapeva che a quel punto Ludovico avrebbe potuto fare qualsiasi cosa per soddisfarsi, qualsiasi: guardandolo dritto negli occhi, che lui teneva chiusi, proprio mentre stava per spostare la mano sotto il tavolo, "Ludovico". Dopo quei minuti di interminabile silenzio, la voce secca di Cecilia fu una sciabolata per lui: si immobilizzò e sgranò gli occhi, con uno sguardo che esprimeva solo tristezza e disperazione. "Passami l'insalata". Lui si svegliò dal sogno, con una sensazione di tristezza immensa: il pene eccitatissimo, dopo quella sciabolata,aveva iniziato anche questa volta la sua ritirata, lasciandogli una sensazione di totale fallimento. "Allora? Me la vuoi passare?" insistette seria.
Senza dire nulla, si alzò in piedi ed andò a prenderla, un po' claudicante per quell'erezione che ancora si stava sgonfiando, con la maglietta completamente sudata, quasi ci avesse fatto una doccia. Cecilia l'osservava: povero Ludovico, la sua vittima sacrificale. Nel vederlo camminare verso la ciotola dell'insalata, nel vederlo prendere tutto sudato i condimenti, con quello sguardo che definirlo rassegnato era eufemistico, lei non si divertiva soltanto. Lei godeva. Godendosi quella scena con uno sguardo vittorioso, si accavallò le gambe, stringendole, per strisciarsi le pieghe dei pantaloni e delle mutandine sul suo sesso, umido.
Lui era suo.
Ludovico aveva già servito in tavola, aspettava solo che Cecilia tornasse dal bagno per iniziare a mangiare quegli spaghetti al ragù che sembravano così invitanti. Era scosso: ma cosa stava succedendo quel giorno? Prima i suoi esercizi ginnici, adesso quelle ciliegie; tutte cose che lo eccitavano da morire, situazioni paradossali che non aveva mai sperimentato prima di allora. Quella sensazione assurda, di un'eccitazione pari all'imbarazzo, con lei davanti che lo guardava dritto negli occhi: ma cos'era quel nuovo mondo? Stava sognando? Se era un sogno, aveva tutti i requisiti per essere definito incubo. Ormai era sicuro che lei sapeva cosa provava, lei sicuramente sapeva che lui si eccitava: come poteva essere altrimenti? Ma allora, se era così, perchè non lo diceva? Perchè stava in silenzio, lei, e faceva finta di niente? Se lei faceva finta di niente, avrebbe dovuto lui fare la prima mossa, e dichiararle la sua "situazione". Solo che non ci riusciva. Gli era venuto un groppo in gola in quei momenti, che non sapeva cosa fare, non riusciva a dire niente ma nemmeno a muoversi. In quegli istanti, perdeva completamente il controllo di se: lei, se avesse voluto, avrebbe potuto fare quello che voleva, in quei momenti. Era una sfida forse? Ma una sfida a che cosa allora?
Mentre pensava queste cose, Cecilia rientrò in cucina. Si sedette subito a tavola "Oh finalmente, cominciavo ad avere fame. Spero che sia mangiabile..." - "Penso di sì" gli rispose, un pò più sciolto dopo quella battuta. "Oh, aspetta, ho dimenticato i tovaglioli" e si alzò a prenderli, mentre Cecilia, serena, lo guardava. Si risedettero, e si misero a mangiare; lei iniziò a chiedergli di alcuni professori del Liceo, che non vedeva da tempo, e prese il largo un discorso sulle loro stranezze e le varie occasioni memorabili dell'uno e dell'altra durante gli anni di scuola passati. C'era quella volta che, durante una gita, si dimenticarono un professore in un museo, accorgendosene solo dopo mezz'ora di viaggio; quella di quando sempre lo stesso professore riuscì a farsi cadere la lavagna addosso, rischiando pure di farsi male, ma con le risate e gli applausi di tutta la classe. Le battute, sempre le stesse, che una vecchia insegnante ripeteva ai suoi studenti da quando aveva iniziato ad insegnare, ed i battibecchi entrati nella storia tra i bidelli! Quante risate che si facevano in quella cucina, mentre fuori il sole delle ore centrali stava finalmente portando alla città quell'estate che si era fatta tanto attendere: le cicale stridevano rumorosamente in quelle strade deserte, con qualche uccello che svolazzava qua e là. Nè un cane nè un gatto per i campi: troppo caldo, senza nemmeno un filo di vento, senza nemmeno una nuvola in cielo.
Iniziò a toccargli le caviglie. Lui ovviamente non capì, e continuando a parlare tirò indietro le gambe, pensando di averle troppo avanti. Lei, dopo un po', allungò di nuovo il piede per accarezzarlo; lui, questa volta con una leggerissima vena di sospetto, tirò ancora più indietro le gambe. Era tutto intento a raccontare, che non ci faceva nemmeno caso: i suoi erano movimenti involontari, quelli di Cecilia per nulla.
Allungò per la terza volta il piede, iniziando più esplicitamente a strisicarglielo sulla gamba. Lui si fermò, smise di parlare, guardandola confusissimo, ma lei, con quel sorriso, gli disse subito "Dai, continua, perchè ti sei fermato?". Attimi infiniti di silenzio, mentre lei sopra lo fissava attentamente, e sotto gli massaggiava la gamba, pian piano sempre più in alto, pian piano sempre più pericolosa. Ricominciò a parlare, più lentamente: no, non "stava al gioco", perchè non aveva idea di che gioco fosse; lui era semplicemente caduto, di nuovo, nella sua trappola. Di nuovo in quella condizione di blocco totale, nell'incapacità di muoversi, di fare qualcosa con la propria volontà: ora faceva solo quello che voleva lei. Il piede si avvicinava, con velocità impercettibile ma inesorabile, al suo pube: strisciava un po' avanti, e poi leggermente indietro; ancora avanti, poco più di prima, e poi di nuovo indietro. Ludovico era già eccitato: il suo sesso stava sperimentando quel giorno una prova che non aveva mai neanche avvicinato lontanamente: prima l'esercizio, poi la frutta, ora quella terza tortura che lo spingeva verso l'erezione, l'eccitazione, l'orgasmo...per poi fermarsi, quando era al limite.
Quando con la punta del piede iniziò a sentire il membro rigido, Cecilia, continuando ad ascoltarlo fissandolo negli occhi, iniziò a mordersi il labbro. E proseguì la sua inesorabile avanzata, poggiando il piede sul pene di Ludovico. Lui era rossissimo, legava a fatica le parole, balbettava con gli occhi sgranati: sembrava in tutti i sensi in uno stato di ipnosi. Lei, con infinita lentezza, iniziava a premere ripetutamente sui suoi jeans. Sentiva sotto il calzino la lampo dei pantaloni di lui, e la cosa rendeva ancora più divertente quel suo gioco. Sentiva il pene premere, sentiva che quel povero condannato alla tortura voleva liberarsi, uscire da quella prigione, ed essere soddisfatto come la natura aveva deciso quando l'aveva creato. Ma, sfortunatamente per lui, la lampo era chiusa e lo sarebbe rimasta. Il ritmo costante di Cecilia lentamente sortiva il suo effetto: era sempre più rigido, e quando per qualche attimo si fermava, poteva sentirlo vibrare, e sentirne le vene piene che pompavano il sangue. Lei era nel suo nirvana, lui nel suo infermo: respiri secchi e brevi fra quelle parole dette con fatica, la forchetta ancora in mano con quel boccone che ormai si era completamente raffreddato: tutto questo, mentre lei lo guardava, e senza staccare lo sguardo, finiva di mangiare gli ultimi spaghetti. Per Ludovico era tutto amplificato all'ennesima potenza: il rumore della forchetta, la mano che dolcemente la portava alla bocca, quelle labbra che si aprivano e la facevano entrare. E poi, quando si chiudevano, e succhiavano dentro gli spaghetti: quelle labbra strette, sporche ragu rosso, espressione massima dell'erotismo in quell'istante. Gli occhi profondi che scrutavano i suoi, mentre con il piede continuava a torturare il suo povero pene. Gli cadde la forchetta sul tavolo. Il sesso era eccitatissimo, e lei continuava con il suo moto perpetuo, spingendo e mollando quel pedale della frizione sessuale. Iniziò a rallentare, sentendo che il momento tanto atteso da Ludovico questa volta stava davvero per giungere. Si fermava qualche istante, e poi dava due o tre lentissimi colpetti. Ancora si fermava, e ad ogni sosta leggeva la disperazione negli occhi di Ludovico: ogni sosta, per lui in quello stato di estrema eccitazione, era l'apocalisse. Di nuovo qualche colpo, ma con una pausa più lunga: lui era immobile, pietrificato. Altri due colpi, poi nulla. Il suo piede iniziò, lentamente come c'era arrivato, ad allontanarsi: Ludovico appena se ne accorse sgranò gli occhi, con uno sgardo devastato di uno che implorava la pietà. Lei lo guardava, in estasi, continuando ad allontanarsi. Il suo sguardo diventò ancora più esasperato, con la bocca mezza aperta, fuori da ogni forma di autocontrollo: lei, sorridendo, fermò il suo movimento. Con infinita lentezza, ne invertì il verso. Si avvicinò di nuovo a quel membro in pena, fermandosi appena lo sentì con la punta del piede. Si avvicinò ancora, facendolo scivolare fin sotto alla pianta, e poi ancora fin quasi al tallone. Guardava Ludovico, sentiva il suo sesso vibrare spaventosamente. Aumentò leggermente la pressione del piede. Ludovico era in uno stato di eccitazione pazzesco, non aveva idea di cosa avrebbe potuto fare per poter venire lì, ora, in quell'istante: ma era bloccato completamente. Lei fece, con estrema lentezza, strisciare indietro il suo piede, mantenedo quella lieve ma incredibile pressione sul pene. Passò la pianta, e Ludovico era certo che sarebbe venuto. Quando si avvicinarono le dita, lui aprì istintivamente la bocca, e chiuse gli occhi. Era il momento, Cecilia fece scorrere via anche le ultime dita: doveva venire, doveva venire, doveva venire...
...ma lei aveva mollato la pressione.
Lentamente allontanò il suo piedino, facendolo strisciare sulla sua gamba, sul ginocchio, fino a riportarlo a fianco dell'altro. Sapeva che a quel punto Ludovico avrebbe potuto fare qualsiasi cosa per soddisfarsi, qualsiasi: guardandolo dritto negli occhi, che lui teneva chiusi, proprio mentre stava per spostare la mano sotto il tavolo, "Ludovico". Dopo quei minuti di interminabile silenzio, la voce secca di Cecilia fu una sciabolata per lui: si immobilizzò e sgranò gli occhi, con uno sguardo che esprimeva solo tristezza e disperazione. "Passami l'insalata". Lui si svegliò dal sogno, con una sensazione di tristezza immensa: il pene eccitatissimo, dopo quella sciabolata,aveva iniziato anche questa volta la sua ritirata, lasciandogli una sensazione di totale fallimento. "Allora? Me la vuoi passare?" insistette seria.
Senza dire nulla, si alzò in piedi ed andò a prenderla, un po' claudicante per quell'erezione che ancora si stava sgonfiando, con la maglietta completamente sudata, quasi ci avesse fatto una doccia. Cecilia l'osservava: povero Ludovico, la sua vittima sacrificale. Nel vederlo camminare verso la ciotola dell'insalata, nel vederlo prendere tutto sudato i condimenti, con quello sguardo che definirlo rassegnato era eufemistico, lei non si divertiva soltanto. Lei godeva. Godendosi quella scena con uno sguardo vittorioso, si accavallò le gambe, stringendole, per strisciarsi le pieghe dei pantaloni e delle mutandine sul suo sesso, umido.
Lui era suo.
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