Sulla piazza di Platanos (cap.4 di 4)

di
genere
sentimentali

“ Tabetha tornò, quindi, ad Atene, con la prospettiva, urlatagli dal padre in quella famosa serata, di essere spedita da alcuni lontani parenti in Francia, a fare la serva, di fatto ripudiata dalla sua famiglia.
Ma era destino, era così scritto nella mente degli dei, che la storia d’amore tra i due ragazzi non finisse così.
Ben presto, Tabetha si accorse di essere incinta, di aspettare un bambino da Alexandròs, il frutto di quell’unico atto d’amore che i due giovani avevano consumato in quel giorno d’agosto.
E fu proprio la scoperta di essere vicina a diventare madre che contribuì a farla decidere, ad andare una volta di più contro i voleri del suo dispotico padre.
Venuta a conoscenza, per vie traverse, di dove si trovasse Alexandròs, con l’aiuto di una delle donne che prestavano servizio nella casa di Atene dei Krenatis, una donna che l’aveva cresciuta con l’affetto di una seconda madre, una notte Tabetha fuggì di casa, si diresse al Pireo e di lì una barca la portò su quest’isola.
Era la metà d’ottobre del 1919 quando Tabetha ed Alexandròs si ritrovarono.
Chi assistette al loro incontro raccontò che fu talmente commovente che solo a ricordarlo bruciavano gli occhi per le lacrime.
Lui zappava la terra e accudiva gli animali, impossibilitato ad avere contatti con la sua famiglia ad Halki, mentre lei, che aveva portato con sè solo una piccola borsa con un paio di abiti di ricambio, avendo lasciato tutto il resto ad Atene, non aveva più nessuno dei lussi e degli agi cui era stata abituata sin da bambina.
Ma si amavano e aspettavano un figlio.
E questo loro bastava.
Una settimana dopo il suo arrivo qui sull’isola, Tabetha ed Alexandròs si sposarono in quella chiesetta che avrai visto entrando nel villaggio, e restarono insieme, qui, a Platanos, poveri ma dignitosi, per oltre sessant’anni.
Quando lui morì, nel 1980, lei gli sopravvisse di soli tre mesi.
E questa è la fine della storia, straniero”.

Le ombre, sulla piazza, sono mutate, e anche la temperatura sembra essere scesa di qualche grado, segno che il pomeriggio si va lentamente tramutando in sera.
Sono rimasto affascinato dal racconto di Stergos, e cerco un qualcosa che lo costringa a continuare a parlare, non volendo nel modo più assoluto andare via.
“ E il figlio ? Come si chiamava ? E’ vissuto anche lui sempre qui al villaggio ? E’ ancora vivo, per caso ? ”.

Il vecchio Stergos non mi risponde subito: ha chiuso gli occhi e sembra essersi assopito.
Forse non ha neppure sentito le mie domande.
O, forse, è solo stanco, e considera definitivamente terminata la lunga storia che ha voluto raccontarmi.
Aspetto un paio di minuti, osservandolo, e quando capisco che lui non sembra avere più voglia di rispondere a quelle mie domande, faccio un cenno alla donna che sta in piedi sulla soglia della taverna.
“Logariasmò, parakalò”. (Il conto, per favore)
E’ giunta l’ora di andar via.
Sono stato fortunato ad incontrare Stergos, ed ora ho un nuovo racconto dei tempi passati da custodire e da tramandare.

“ Il bambino nacque nel 1920 e fu chiamato Kosmas ”.
La voce di Stergos, che improvvisa riprende a parlare, quasi mi sorprende.
E’ una voce stanca, ora, molto più bassa, e che sembra venire da lontano.
“ Fu l’unico figlio di Alexandròs Tzambikos e Tabetha Krenatis.
Non conobbe mai i nonni materni, che avevano ripudiato la loro unica figlia, mentre quelli paterni venivano a trovarlo da Halki abbastanza spesso.
Poi ci furono la guerra e la morte di Dimitri Krenatis, e solo allora i genitori di Kosmas furono liberi di tornare a Halki.
Ma restarono a vivere, comunque, qui a Platanos.
No, non è più vivo Kosmas.
E’ morto qualche anno fa.
Anche lui è vissuto sempre qui e, non essendosi mai sposato, non ha lasciato eredi.
Ma ora sono stanco, straniero. Molto stanco. Sono vecchio e malandato, un pò come il mio fido Argos.
Entrambi ci stanchiamo facilmente, ormai”.

Ed è così che Stergos mi congeda, questa volta in modo definitivo, invitandomi a non approfittare oltre della sua disponibilità.
Pago il conto e lo saluto, ringraziandolo di cuore per la storia che mi ha raccontato.
E gli prometto di tornare a trovarlo, per un bicchiere di vino ed un’altra bella chiacchierata.
Ora il vecchio è immobile, e sembra quasi dormire.
Un unico cenno di saluto con la mano da parte di Stergos, e un breve scodinzolio di Argos.
Sono gli unici gesti con i quali vengo congedato.
Mormoro qualche parola di commiato e mi chino ad accarezzare brevemente il cane.
Poi mi volto, e torno verso la mia auto.
Le ombre della sera si vanno allungando sulla piccola ed immobile piazzetta di Platanos.
Solo le cicale continuano, imperterrite, nel loro frinire assordante.

Fu solamente dopo tre mesi da quel giorno, in autunno inoltrato, che trovai il tempo di tornare a Platanos.
Volevo salutare Stergos ed offrirgli quel bicchiere di vino che gli avevo promesso, per ringraziarlo ancora di quel pomeriggio di agosto che mi aveva dedicato.

Parcheggiai l’auto nello stesso slargo della volta precedente, e scesi a piedi nella piazzetta del piccolo villaggio.
Il platano troneggiava maestoso, ma l’ombra dei suoi rami giganteschi era più rada, considerata la quantità di foglie che, data la stagione, aveva già perso.
Le cicale non c’erano più: solo i tavolini della taverna erano nello stesso posto, circondati dalle stesse sedie e con le stesse tovaglie a quadri bianchi e rossi.
Di Stergos, però, non c’era traccia.
Entrai nella taverna e trovai la stessa donna che mi aveva servito quel giorno d’estate.
Asciugava con un panno bianco alcuni bicchieri dietro lo stretto banco.
Mi sorrise, riconoscendomi immediatamente.
A Platanos, le facce nuove sono rare come la pioggia estiva.
Poi il suo viso divenne improvvisamente triste e, ancora prima di chiederglielo, seppi che Stergos era morto.
Se n’era andato nel sonno, una notte di un mese e mezzo prima.
Aveva ottantasei anni, ed il suo cuore si era fermato per sempre.
Era morto senza nessuno che gli stesse vicino: solo Argos, il suo fedele cane, lo aveva vegliato ai piedi del letto.

Bevvi io il bicchiere di vino bianco che avevo avuto intenzione di offrire al vecchio, e pensai che, se quel giorno di qualche mese prima non fossi capitato a Platanos, la storia che mi era stata raccontata sarebbe morta anche lei.
Salutai la donna ed uscii dalla taverna.
In un angolo, addossato ad un muro di calce bianca, vidi Argos, acciambellato, gli occhi chiusi, il respiro pesante, una piccola creatura pelosa rimasta orfana del suo padrone.
Mi accostai a lui e m’inginocchiai, accarezzandolo sulla testa.
Il suo lento scodinzolio mi ricordò quello che lui fece la sera che salutai il suo padrone.
Continuai ad accarezzarlo per qualche minuto, quasi a voler sostituire la mano del suo vecchio padrone con la mia.

All’uscita dal villaggio vidi la chiesetta di cui mi aveva parlato Stergos, la chiesetta nella quale Tabetha ed Alexandròs si erano sposati tanti anni prima, giurandosi amore eterno, e coronando il loro sogno di vita insieme, nonostante le difficoltà che avevano dovuto sopportare.
In un minuscolo giardino retrostante intravidi il modesto cimitero ortodosso di Platanos: un ultimo saluto a Stergos lo avrei fatto volentieri.
Era giusto che fosse così.
Accostai al ciglio della strada e scesi dall’auto, inoltrandomi nell’adiacente campo: raccolsi un mazzetto di fiorellini autunnali e, attraversando la strada, entrai nel cimitero, sospingendo il cancello di ferro battuto.

Lo spazio in cui riposavano i defunti abitanti di Platanos era sorprendentemente piccolo, ma curato e pulito.
Mi guardai attorno, spostando lo sguardo tra le poche decine di lapidi, fino ad individuare con certezza quella di Stergos: era la più lucida e recente.
Il vecchio doveva essere stato l’ultimo arrivato in quel luogo dell’eterno riposo: a Platanos sono pochi i vivi, figuriamoci i morti.
Mi avvicinai alla lapide e lessi l’iscrizione: Stergos Tzambikos 1920 - 2005.
Deposi i fiori sulla tomba, mentre nella testa varie lampadine si accendevano, illuminando finalmente quegli ovvi collegamenti che non ero riuscito a fare in quei mesi.
Il cognome di Stergos era stato dunque Tzambikos.
Come Tzambikos era stato il cognome di Vassili, il contadino di Halki che si era visto costretto ad allontanare il figlio Alexandros perché aveva amato Tabetha.
E, quindi, il figlio di Alexandros Tzambikos e di Tabetha Krenatis non si chiamava Kosmas, bensì Stergos; e la data di nascita di quest’ultimo, che leggevo sulla tomba, me lo confermava.
Il vecchio non mi aveva raccontato “una” storia, ma la “sua” storia.
Quel giorno Stergos mi aveva affidato le memorie della sua vita e della sua famiglia: inconsapevolmente, ero stato eletto erede delle sue memorie personali.
Mi aveva raccontato quegli eventi come se riguardassero altre persone, e non suo padre, sua madre e se stesso.
Una forma di pudore e d’orgoglio, suppongo.
Ma anche di modestia e d’umiltà.

Tre metri più in là, sulla destra, due tombe, le lapidi consunte e rese opache dal tempo trascorso.
Alexandròs Tzambikos e Tabetha Krenatis.
La famiglia ora era definitivamente riunita, per l’eternità.

Mi dispiaceva non aver potuto parlare ancora con Stergos.
Mi ero affezionato a lui, in quel caldo pomeriggio, seduti a quel tavolino, tra il vento ed il frinire delle cicale.
Ma una cosa, per lui, ancora la potevo fare.
E sono certo che il vecchio l’avrebbe gradita.

Uscii dal cimitero e risalii in macchina.
Alcuni nuvoloni scuri e minacciosi si stavano addensando.
Presto sarebbe giunta la pioggia.
Misi in moto ma, invece di proseguire e di allontanarmi da Platanos, invertii il senso di marcia e tornai alla piazza del villaggio.

Più tardi, guidando nella notte per tornare a casa, sotto la pioggia che aveva iniziato a cadere copiosa, continuai a ripensare alla storia che Stergos mi aveva raccontato tre mesi prima.
Alla storia della sua vita.
Una storia, fra le tante che arricchivano la mia collezione, che meritava un posto speciale fra quelle più preziose che avevo collezionato negli anni.
Perché era quel tipo di racconto in cui speravo sempre di imbattermi: vero e reale, e che era degno di essere ricordato in eterno.

I miei pensieri furono interrotti da una lingua, calda e ruvida, che aveva preso a leccarmi teneramente la mano che tenevo appoggiata sul cambio.
Sorridendo, detti un’arruffata alla testa di Argos, sdraiato comodamente sul sedile accanto al mio.
Avrei pensato io a lui.
Aveva trovato un nuovo padrone che lo avrebbe accompagnato negli ultimi e difficili anni della sua vita.
A Stergos e alla sua storia, almeno questo lo dovevo.

“Nulla è difficile per chi ama.”
Cicerone

Fine


Note:

Platanos non è il vero nome del villaggio dove si svolge la storia.
Il villaggio si chiama Lachania, e si trova sulla costa orientale dell’isola di Rodi; Platanos è il nome della taverna che offre piatti tradizionali greci, e i cui tavoli godono dell’ombra di un gigantesco platano.

L’isola di Halki, nella realtà, è vicina a Rodi, ma è situata di fronte al lato occidentale, e non a quello orientale: mi sono preso la libertà di “spostarla” ai fini della narrazione.

Stergos non esiste.
Ai tavoli della taverna ho incontrato, però, diverse persone anziane, che mi hanno raccontato storie e leggende del villaggio: prendendo spunto da alcune di esse, la mia fantasia ha inventato Stergos e la sua storia.

Il piccolo e curatissimo cimitero di Lachania è proprio come lo descrivo nel racconto: un luogo di pace e serenità, dove i raggi del sole greco illuminano piante e fiori dai mille colori.

Argos è il nome del mio bastardino.
Lo trovai anni fa, legato con una corda ad un cartello stradale della strada che collega Rodi a Lindos: qualche criminale lo aveva abbandonato, così, come uno straccio, sotto al sole di luglio, terrorizzato e disidratato.
Mentre lo accarezzavo e scioglievo i nodi della corda, una macchina della stradale greca si fermò per vedere cosa stessi facendo: uno dei due agenti mi disse che il cagnolino assomigliava al suo fido Argos.
Fu così che battezzai quella palla di pelo tremebonda con quel nome.
Oggi Argos è il vero padrone di casa, coccolato e vezzeggiato, oltre che da me, da mia moglie e dai miei figli.

Al lettore che ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, il mio più sincero ringraziamento: con la speranza di aver regalato qualche minuto di serenità.

Diagoras

diagorasrodos@libero.it
scritto il
2011-05-02
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