ICO “Tribute” - La gabbia di ferro
di
Alba6990
genere
prime esperienze
Ico era fermo a metà scala. Continuava a guardare verso la gabbia sospesa. Non aveva la sicurezza assoluta che in quella piccola prigione di ferro ci fosse qualcuno, ma dentro di lui sapeva.
Sapeva che lassù c’era la stessa ragazza che aveva visto in sogno, anche se secondo lui era un sogno non sogno, non un vero e proprio sogno, qualcosa che ricordava un sogno, ma che non era un sogno.
Fece qualche passo verso l’alto, verso quello strano e reale miraggio.
Come nel sogno non sogno, camminava lentamente con una mano sul muro, compiendo delle specie di balzi ad ogni mattonella.
Guardò su. La vide. Ma era diversa da come l’aveva vista. Sembrava fosse fatta di luce, non di ombra. Istintivamente, si schiacciò contro la parete, come in una sorta di istinto di protezione: “C’è nessuno? Tu chi sei?” gridò verso la ragazza.
Nessuna risposta.
Non sembrava aggressiva, né agghiacciante come nel sogno non sogno. Silenziosa e immobile come una statua, il vento che entrava dalle grandi finestre le faceva danzare l’orlo del vestito.
Ico si avvicinò alla ringhiera per osservare meglio, l’ansia e il turbamento erano passati: “Cosa stai facendo lì dentro?” chiese di nuovo, stavolta con voce più calma e tranquilla, come a farle capire che non aveva intenzione di farle del male.
Ancora nessuna risposta. La ragazza fatta di luce era seduta al centro della gabbia, le gambe raccolte tra le sue braccia, le ginocchia su una guancia e lo sguardo perso verso un orizzonte inesistente.
L’unico movimento era quello dell’oro del vestito che indossava. Era quasi ipnotico.
L’occhio era attratto verso quel volto nascosto e quell’orlo danzante.
Sembrava afflitta. Sconfitta. Eternamente e profondamente sola. Un uccellino a cui sono state spezzate entrambe le ali e al quale non rimane altro che la rassegnazione e l’autocommiserazione.
Ico sentiva una strana attrazione verso quella fragile creatura. Non si trattava di pietà. Il suo cuore e la sua mente non parlavano, non sapevano esprimersi. Probabilmente nemmeno esiste un nome per ciò che stava provando: attrazione? protezione? pietà? affetto? timore?
Una cosa, però, la sapeva: non poteva vederla così, non sopportava vederla in quello stato: “Aspetta. Ti faccio scendere.” gridò Ico con decisione.
Ancora nessuna risposta.
Nessuna reazione.
Lei restava rannicchiata nel suo nido.
Ico, memore del fatto che al piano terra e lungo la salita non vi era alcun meccanismo, leva o qualsiasi altra cosa che potesse far scendere la gabbia, proseguì. Ma camminò ancora per pochi metri: il pavimento era crollato, creando una voragine, un salto nel vuoto di una trentina di metri.
Osservò dall’altro lato e vide una leva molto simile a quella trovata nel salone sacrificale.
Ma come arrivarci? Non avrebbe potuto saltare, era troppo lontano. Se l’avesse fatto, la strada verso la libertà sarebbe finita ancor prima di incominciare...o forse si sarebbe “liberato” ponendo fine alle sue sofferenze. E non era di certo quello che voleva lui! Si era liberato da un sarcofago di pietra incastonato nel muro per un semplice colpo di fortuna (proprio un colpaccio, visto che gli faceva ancora leggermente male la testa!), non poteva di certo morire in modo così stupido!
Si guardò attorno, alla ricerca di una corda, un appiglio, qualcosa.
Una delle finestre aveva il vetro completamente in frantumi. Anche quella che stava sopra la leva aveva uno squarcio che dava sul mondo esterno.
Ico non sapeva cosa ci fosse dall’altra parte della finestra, ma immaginò ci potesse essere un cornicione al quale aggrapparsi per poter proseguire.
Si arrampicò e scoprì un terrazzo conto da mura alte due metri.
L’oceano gridava e rimbombava nelle orecchie di Ico, rimasto dentro al castello per così poco, eppure già abituato al silenzio.
Nel vento si sentivano gli animali della foresta: uccellini e lupi danzavano nell’aria con il loro cianciare.
Per un attimo, Ico aveva pensato che quella poteva essere una via d’uscita perfetta! Riusciva a vedere la costa, non era troppo lontana!
Poi tornò alla realtà: la torre era troppo alta. Anche se avesse superato il muro di pietra, cosa impossibile, avrebbe dovuto volare come un uccello per sopravvivere alla caduta, l’acqua si sarebbe trasformata in roccia.
E poi avrebbe avuto la strana ragazza con lui, non sapeva nemmeno se potesse camminare, figuriamoci saltare giù da una rupe!
Abbandonò quell’idea assurda e si arrampicò sulla finestra per rientrare nella torre, sul lato della leva.
Quando la tirò, la gabbia cominciò a scendere verso il basso.
La ragazza, colta di sorpresa, si alzò di scatto e si mise aggrappò ad una delle sbarre.
Ico, tornato dal lato della discesa, si precipitò a rotta di collo verso il piano terra, mentre la catena che sorreggeva la piccola prigione, tintinnava nel vuoto della torre.
Continua
Sapeva che lassù c’era la stessa ragazza che aveva visto in sogno, anche se secondo lui era un sogno non sogno, non un vero e proprio sogno, qualcosa che ricordava un sogno, ma che non era un sogno.
Fece qualche passo verso l’alto, verso quello strano e reale miraggio.
Come nel sogno non sogno, camminava lentamente con una mano sul muro, compiendo delle specie di balzi ad ogni mattonella.
Guardò su. La vide. Ma era diversa da come l’aveva vista. Sembrava fosse fatta di luce, non di ombra. Istintivamente, si schiacciò contro la parete, come in una sorta di istinto di protezione: “C’è nessuno? Tu chi sei?” gridò verso la ragazza.
Nessuna risposta.
Non sembrava aggressiva, né agghiacciante come nel sogno non sogno. Silenziosa e immobile come una statua, il vento che entrava dalle grandi finestre le faceva danzare l’orlo del vestito.
Ico si avvicinò alla ringhiera per osservare meglio, l’ansia e il turbamento erano passati: “Cosa stai facendo lì dentro?” chiese di nuovo, stavolta con voce più calma e tranquilla, come a farle capire che non aveva intenzione di farle del male.
Ancora nessuna risposta. La ragazza fatta di luce era seduta al centro della gabbia, le gambe raccolte tra le sue braccia, le ginocchia su una guancia e lo sguardo perso verso un orizzonte inesistente.
L’unico movimento era quello dell’oro del vestito che indossava. Era quasi ipnotico.
L’occhio era attratto verso quel volto nascosto e quell’orlo danzante.
Sembrava afflitta. Sconfitta. Eternamente e profondamente sola. Un uccellino a cui sono state spezzate entrambe le ali e al quale non rimane altro che la rassegnazione e l’autocommiserazione.
Ico sentiva una strana attrazione verso quella fragile creatura. Non si trattava di pietà. Il suo cuore e la sua mente non parlavano, non sapevano esprimersi. Probabilmente nemmeno esiste un nome per ciò che stava provando: attrazione? protezione? pietà? affetto? timore?
Una cosa, però, la sapeva: non poteva vederla così, non sopportava vederla in quello stato: “Aspetta. Ti faccio scendere.” gridò Ico con decisione.
Ancora nessuna risposta.
Nessuna reazione.
Lei restava rannicchiata nel suo nido.
Ico, memore del fatto che al piano terra e lungo la salita non vi era alcun meccanismo, leva o qualsiasi altra cosa che potesse far scendere la gabbia, proseguì. Ma camminò ancora per pochi metri: il pavimento era crollato, creando una voragine, un salto nel vuoto di una trentina di metri.
Osservò dall’altro lato e vide una leva molto simile a quella trovata nel salone sacrificale.
Ma come arrivarci? Non avrebbe potuto saltare, era troppo lontano. Se l’avesse fatto, la strada verso la libertà sarebbe finita ancor prima di incominciare...o forse si sarebbe “liberato” ponendo fine alle sue sofferenze. E non era di certo quello che voleva lui! Si era liberato da un sarcofago di pietra incastonato nel muro per un semplice colpo di fortuna (proprio un colpaccio, visto che gli faceva ancora leggermente male la testa!), non poteva di certo morire in modo così stupido!
Si guardò attorno, alla ricerca di una corda, un appiglio, qualcosa.
Una delle finestre aveva il vetro completamente in frantumi. Anche quella che stava sopra la leva aveva uno squarcio che dava sul mondo esterno.
Ico non sapeva cosa ci fosse dall’altra parte della finestra, ma immaginò ci potesse essere un cornicione al quale aggrapparsi per poter proseguire.
Si arrampicò e scoprì un terrazzo conto da mura alte due metri.
L’oceano gridava e rimbombava nelle orecchie di Ico, rimasto dentro al castello per così poco, eppure già abituato al silenzio.
Nel vento si sentivano gli animali della foresta: uccellini e lupi danzavano nell’aria con il loro cianciare.
Per un attimo, Ico aveva pensato che quella poteva essere una via d’uscita perfetta! Riusciva a vedere la costa, non era troppo lontana!
Poi tornò alla realtà: la torre era troppo alta. Anche se avesse superato il muro di pietra, cosa impossibile, avrebbe dovuto volare come un uccello per sopravvivere alla caduta, l’acqua si sarebbe trasformata in roccia.
E poi avrebbe avuto la strana ragazza con lui, non sapeva nemmeno se potesse camminare, figuriamoci saltare giù da una rupe!
Abbandonò quell’idea assurda e si arrampicò sulla finestra per rientrare nella torre, sul lato della leva.
Quando la tirò, la gabbia cominciò a scendere verso il basso.
La ragazza, colta di sorpresa, si alzò di scatto e si mise aggrappò ad una delle sbarre.
Ico, tornato dal lato della discesa, si precipitò a rotta di collo verso il piano terra, mentre la catena che sorreggeva la piccola prigione, tintinnava nel vuoto della torre.
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