Il collegio (sesto capitolo)
di
Alba17
genere
prime esperienze
UNA GIORNATA DI MERDA.
Piano piano arrivò l’inverno. La vita in collegio scorreva senza troppi problemi e il rapporto tra noi tredici era diventato speciale, sembravamo una grande famiglia talmente eravamo unite.
Non avevo mai sentito il freddo come quell’anno. I vetri rotti delle finestre non furono mai sostituiti. Per bloccare un po’ il vento e qualche volta la pioggia, quando veniva con violenza, appendevamo sulle finestre quelle specie di tappeti che avevamo per terra, ma non è che risolvessero più di tanto. Il freddo era pungente. Mi ricordo che durante l’inverno a tutte noi colava il naso come un rubinetto, anche se nessuna si è mai ammalata veramente. Le coperte di stoffa dell’esercito, come le chiamavamo, erano pesantissime ma non proteggevano dal freddo. Allora in pieno inverno tante ragazze, compresa me, cominciarono a dormire in due nello stesso letto, nonostante fossero stretti. Dovevamo sopravvivere.
Io, ovviamente, stavo con Brikena. Non so se sarei riuscita a dormire con un’altra ragazza.
Anche a scuola in generale andava bene. I miei voti erano altissimi e studiare non mi pesava. Ero una delle più brave della classe. Merito della mia memoria, perché non è che stessi tanto sui libri, anzi.
Un giorno, Brikena doveva studiare perché l’indomani aveva interrogazione in diritto. Non glielo permisi.
Per dispetto feci tanto casino, mi misi a saltare sul letto, a lanciare i cuscini, a ridere senza motivo. Sembravo una spiritata. Brikena continuava a pregarmi di smettere, ma non l’ascoltavo.
Le ragazze mi chiesero che avessi. Risposi che forse era la volta buona che la nostra Brikena capiva le necessità altrui e ci lasciava in pace, smettendo di disturbare chi doveva seriamente studiare.
In pieno inverno, in aula studio faceva un freddo boia. Accendevano il riscaldamento solo nelle due ore di studio e solo se era funzionante, cioè una volta su tre. Quindi noi o studiavamo sotto le coperte in camera nostra - cosa impossibile con Brikena nei paraggi - o altrimenti nulla.
Ero decisa a insegnarle la lezione. Bastò poco e le ragazze mi seguirono a ruota.
Ad un certo punto, pure Brikena buttò il libro, bofonchiando, e si unì a noi che in quel momento eravamo scatenate.
Il giorno dopo non venne a scuola. Fece finta di essere ammalata. Se prendeva un quattro in quella materia, avrebbe avuto una grave insufficienza. Venne la direttrice per verificare il suo stato di salute e non esagero se dico d’aver visto una grande attrice all'opera. Gli occhi di Brikena diventarono lucidi, le tremava la voce dalla “febbre” alta. La dirigente, in un primo momento perplessa se crederle o meno, mandò una delle sue due collaboratrici a prendere il termometro che si trovava nel suo ufficio.
Pensavo che ormai l’avrebbero sgamata. Invece mai sottovalutare Brikena. Il termometro, come per magia, superò il 39 e io cominciai a credere che stesse male sul serio. La trattarono come una principessa: le portarono subito il tè caldo con dei biscotti e la Tachipirina che lei buttò via. La direttrice ci diede ordine di andare a trovarla ogni tanto durante l’orario scolastico, e noi decidemmo di fare a turno. Appena la dirigente e le sue assistenti andarono via, le dissi preoccupata: “Vedi? A forza di fingere ti sei ammalata sul serio, cavolo”.
Mi fece la linguaccia e mi disse che ero ingenua perché lei stava benissimo.
“E la febbre, come ha fatto ad essere 39?” - le chiesi incredula.
“Basta strofinare il termometro sulla stoffa della coperta. Era arrivato oltre 42, sai? Ho dovuto sbatterlo un po’ per abbassarlo, altrimenti sarei finita in ospedale”.
“Robe da matti!” - esclamai.
“No, robe da Brikena! - mi rispose ridendo - In qualche modo però dovevo fare oggi, visto che qualcuna ieri sera ha deciso di non farmi studiare”.
“Tu lo fai sempre con noi”.
“Non ti sto accusando, Giò. Me lo merito. Lo so che sono stronza, ma non mi sforzo come te ieri sera. A me viene naturale”.
Ci mettemmo a ridere e prima di uscire le confessai che anche io ero interrogata quel giorno in una materia importante. Tutte sapevano che io ero in quella scuola grazie alla mia borsa di studio. I miei non potevano permettersi di pagarmi la retta, quindi un passo falso e me l’avrebbero tolta.
Brikena, bianca in viso, mi chiese cosa avessi intenzione di fare. Le dissi che sarei andata a parlare con la prof, con una scusa qualunque, per rimandare l’interrogazione.
“Non ti preoccupare, Brikena. In qualche modo farò”.
“Anche tu sei matta, però”.
“Lo so - le dissi - ora fammi andare e riguardati. Stai proprio male male oggi”.
Lei ricominciò a fare la malata terminale, con dei lamenti che le uscivano dal profondo dell’anima. Sembrava proprio che stesse per morire.
Risi di gusto.
Davanti alla scuola, cominciai ad avere paura che la prof non accettasse la mia giustificazione. Quella materia, siccome era difficile, la studiavo sempre, ma quel giorno non avevo nemmeno aperto libro. A malapena ricordavo l’argomento.
E l’avevo alla prima ora.
Mi piantai davanti alla classe e aspettai paziente che arrivasse la professoressa per esporre la mia situazione.
La sua risposta?
“Signorina, non mi interessa dei tuoi problemi. Se sei da interrogare, verrai interrogata”.
La guardai strabuzzando gli occhi. Poi mi fiondai al mio banco e cominciai a leggere la lezione... una volta... due... mentre lei faceva l’appello. In velocità riuscii a ripassare anche l’argomento precedente, e quasi del tutto quell’altro ancora.
Mi sembrava di stare a leggere la scena più forte di un romanzo horror, talmente veloce e curiosa divoravo le parole.
Quando la professoressa finì l’appello, mi disse: “Giò, sei interrogata. Ti avevo già avvisata la settimana scorsa, quindi avevi tutto il tempo per prepararti”.
Annuii e come un agnellino sacrificale andai verso la ghigliottina.
Perché, se ci sono professori che non ricordano il tuo nome per tutto l’anno scolastico, ci sono anche quelli cui non frega niente dei tuoi problemi. Per loro tu sei un numero. Questo pensavo mentre davanti a tutta la classe aspettavo la sentenza.
La prof mi guardò con sguardo serafico, poi cominciò con le domande.
All’inizio facili, ma che, man mano che rispondevo e prendevo sicurezza, divennero più complicate. Sembrava che volesse trovarmi per forza un punto debole, e alla fine (maledetta!) scovò un particolare che mi era sfuggito.
Solo allora, soddisfatta, mi lasciò finalmente andare al mio posto con un nove.
Ero felice perché me l’ero scampata più che bene.
Tanto che a fine lezione, vennero al mio banco le due oche, come le chiamavamo io e Anila. Erano due ragazze altissime e magrissime, al punto di sembrare anoressiche: Aldina e Keta. Queste, anche quando ridevano, sembravano due oche nel vero senso della parola. Si atteggiavano da dive del cinema alle quali volevano assomigliare, ma a me sembrava avessero la tenia.
Tenevano sempre le mani tra i capelli e se li aggiustavano di continuo. Si truccavano a qualsiasi ora della lezione, con degli specchi che tenevano sempre sul banco, allungavano le labbra proprio come il becco delle oche, ridevano o parlavano contemporaneamente, e sembrava che avessero le stesse cose da dire.
Una volta, durante la lezione di educazione fisica, che saltavano quasi sempre per timore di farci vedere le loro “forme”, scoprii che mettevano due paia di pantaloni per far sembrare cosce e sedere almeno un po’ in carne.
“Giò, sei molto brava a scuola”. - mi disse una di loro.
“E sì - riprese l’altra - sei veramente brava”.
“Ditemi cosa volete, ragazze”. - risposi secca, sapendo già che non venivano a complimentarsi con me per i miei risultati scolastici.
“Ci dici in quale boutique ti compri i vestiti?”
“Già - la assecondò la sua amica - noi siamo molto curiose”.
Guardai i miei vestiti comprati al mercato o in qualche negozietto di seconda mano. Seppur dignitosi, non c'era paragone con i loro.
“Non dici niente, Giò? Hai paura che ti copiamo? Vuoi essere originale?”
E hahaha, partirono a ridere in coro.
Allora la mia rabbia cominciò a salire. Mai nessuno si era permesso di prendere in giro il mio modo di vestire. Meritavano una lezione.
“Ascoltatemi, Aldina e Ketina” - quest’ultimo nome lo pronunciai quasi Cretina. Non credo passò inosservato, perché vidi già dal viso che stavano cambiando colore.
“Dove vado io non credo proprio che facciano vestiti per voi, perché io sto bene qualsiasi cosa indossi. Non ho bisogno di mettere due paia di pantaloni per far sembrare il culo più grosso. E nemmeno comprarmi reggiseni push up per far vedere di avere seno, quindi tenetevi pure i vostri capi firmati da boutique e toglietevi dalle palle”.
Credo che il nostro battibecco lo avessero sentito in tanti perché più di uno cominciò a ridacchiare. Loro non dissero più nulla ma Dio sa quanto mi avranno odiata in quel momento. Sono sicura di essermi fatta due grandi nemiche.
Arrabbiata, chiesi permesso al professore dell’ora dopo di uscire, dicendogli di dover andare ad assistere Brikena malata, e lui me lo consentì senza fare storie. In realtà volevo sfogarmi un po’ con lei di queste due stronze.
Appena fuori nel giardino della scuola, riempii d’aria i polmoni e cercai di calmarmi. Mentre mi avviavo nella struttura del collegio, sentii delle voci sussurrate che provenivano da un angolino lontano da occhi indiscreti e vidi... vidi Klodi e una ragazza che non conoscevo che parlavano e ridevano tra di loro in sintonia.
Lei civettava e si allungava per dirgli qualcosa nell’orecchio, lui ogni tanto rideva e la toccava con finta ingenuità, sul viso, collo, petto, braccia, lo stesso atteggiamento che aveva avuto con me in questi giorni. Ogni tanto si avvicinava con il corpo verso di lei e quella non si ritirava, anzi. Erano a loro agio. Sicuri che a quell’ora tutti quanti fossero a lezione e nessuno li avrebbe visti, non si accorsero nemmeno di me.
Se in un primo momento volevo fargli una scenata, poi ci ragionai su e mi dissi che non avevo nessun diritto. Lui non stava mica con me. Non gli avevo dato nemmeno un bacio di mia spontanea volontà. Cosa pretendevo ora? Fedeltà?
Nonostante le giustificazioni e la razionalità, non riuscivo a non soffrire. Quella scena mi aveva ferita. Andai da Brikena senza sapere più cosa le dovessi raccontare. L’immagine di Klodi con quella ragazza mi aveva annebbiato la vista e la mente.
Appena Brikena mi vide, saltò giù dal letto.
“Ehi, sei venuta? Come sono contenta! Io sto studiando il diritto... la prossima volta spero di prendere un bel voto, così per un po’ di tempo sono a posto. Non me ne frega niente di avere voti alti, Giò. Mi basta non venire bocciata”.
Poi mi guardò nel viso e capì che qualcosa non andava.
“Che succede, Giò?” - mi chiese.
In quel momento vuotai il sacco. Le raccontai di Klodi e della sua amante sconosciuta. Mi chiese di descrivere questa ragazza. Dalle mie parole riconobbe una di quarta che stava in camera di Anila. Si chiamava Matilda ed era fidanzata con un ragazzo violento, che era in quinta ma che non viveva in collegio.
“Non capisco cosa ci trovate tutte in ‘sto Klodi. A me sembra un pallone gonfiato che si crede di essere Kevin Costner e che come un Don Giovanni ci prova con tutte. Ci ha provato anche con me, ma gli ho riso in faccia...”
“Tu come fai a sapere queste cose?” - le domandai sorpresa.
“Non tutti sono sul treno come te, Giò”. - mi rispose ridendo per sdrammatizzare, ma quando vide che ero molto triste, cambiò atteggiamento.
“Era questo l’argomento del quale volevo parlarti l’altro giorno. Ti ho vista appartata con lui. Ho visto come ti ha bloccata. Non voglio che soffri, Giò. Non per uno come Klodi. Non ne vale la pena”.
Dovetti lasciarla per rientrare a scuola.
Avevo l’umore nero.
Piano piano arrivò l’inverno. La vita in collegio scorreva senza troppi problemi e il rapporto tra noi tredici era diventato speciale, sembravamo una grande famiglia talmente eravamo unite.
Non avevo mai sentito il freddo come quell’anno. I vetri rotti delle finestre non furono mai sostituiti. Per bloccare un po’ il vento e qualche volta la pioggia, quando veniva con violenza, appendevamo sulle finestre quelle specie di tappeti che avevamo per terra, ma non è che risolvessero più di tanto. Il freddo era pungente. Mi ricordo che durante l’inverno a tutte noi colava il naso come un rubinetto, anche se nessuna si è mai ammalata veramente. Le coperte di stoffa dell’esercito, come le chiamavamo, erano pesantissime ma non proteggevano dal freddo. Allora in pieno inverno tante ragazze, compresa me, cominciarono a dormire in due nello stesso letto, nonostante fossero stretti. Dovevamo sopravvivere.
Io, ovviamente, stavo con Brikena. Non so se sarei riuscita a dormire con un’altra ragazza.
Anche a scuola in generale andava bene. I miei voti erano altissimi e studiare non mi pesava. Ero una delle più brave della classe. Merito della mia memoria, perché non è che stessi tanto sui libri, anzi.
Un giorno, Brikena doveva studiare perché l’indomani aveva interrogazione in diritto. Non glielo permisi.
Per dispetto feci tanto casino, mi misi a saltare sul letto, a lanciare i cuscini, a ridere senza motivo. Sembravo una spiritata. Brikena continuava a pregarmi di smettere, ma non l’ascoltavo.
Le ragazze mi chiesero che avessi. Risposi che forse era la volta buona che la nostra Brikena capiva le necessità altrui e ci lasciava in pace, smettendo di disturbare chi doveva seriamente studiare.
In pieno inverno, in aula studio faceva un freddo boia. Accendevano il riscaldamento solo nelle due ore di studio e solo se era funzionante, cioè una volta su tre. Quindi noi o studiavamo sotto le coperte in camera nostra - cosa impossibile con Brikena nei paraggi - o altrimenti nulla.
Ero decisa a insegnarle la lezione. Bastò poco e le ragazze mi seguirono a ruota.
Ad un certo punto, pure Brikena buttò il libro, bofonchiando, e si unì a noi che in quel momento eravamo scatenate.
Il giorno dopo non venne a scuola. Fece finta di essere ammalata. Se prendeva un quattro in quella materia, avrebbe avuto una grave insufficienza. Venne la direttrice per verificare il suo stato di salute e non esagero se dico d’aver visto una grande attrice all'opera. Gli occhi di Brikena diventarono lucidi, le tremava la voce dalla “febbre” alta. La dirigente, in un primo momento perplessa se crederle o meno, mandò una delle sue due collaboratrici a prendere il termometro che si trovava nel suo ufficio.
Pensavo che ormai l’avrebbero sgamata. Invece mai sottovalutare Brikena. Il termometro, come per magia, superò il 39 e io cominciai a credere che stesse male sul serio. La trattarono come una principessa: le portarono subito il tè caldo con dei biscotti e la Tachipirina che lei buttò via. La direttrice ci diede ordine di andare a trovarla ogni tanto durante l’orario scolastico, e noi decidemmo di fare a turno. Appena la dirigente e le sue assistenti andarono via, le dissi preoccupata: “Vedi? A forza di fingere ti sei ammalata sul serio, cavolo”.
Mi fece la linguaccia e mi disse che ero ingenua perché lei stava benissimo.
“E la febbre, come ha fatto ad essere 39?” - le chiesi incredula.
“Basta strofinare il termometro sulla stoffa della coperta. Era arrivato oltre 42, sai? Ho dovuto sbatterlo un po’ per abbassarlo, altrimenti sarei finita in ospedale”.
“Robe da matti!” - esclamai.
“No, robe da Brikena! - mi rispose ridendo - In qualche modo però dovevo fare oggi, visto che qualcuna ieri sera ha deciso di non farmi studiare”.
“Tu lo fai sempre con noi”.
“Non ti sto accusando, Giò. Me lo merito. Lo so che sono stronza, ma non mi sforzo come te ieri sera. A me viene naturale”.
Ci mettemmo a ridere e prima di uscire le confessai che anche io ero interrogata quel giorno in una materia importante. Tutte sapevano che io ero in quella scuola grazie alla mia borsa di studio. I miei non potevano permettersi di pagarmi la retta, quindi un passo falso e me l’avrebbero tolta.
Brikena, bianca in viso, mi chiese cosa avessi intenzione di fare. Le dissi che sarei andata a parlare con la prof, con una scusa qualunque, per rimandare l’interrogazione.
“Non ti preoccupare, Brikena. In qualche modo farò”.
“Anche tu sei matta, però”.
“Lo so - le dissi - ora fammi andare e riguardati. Stai proprio male male oggi”.
Lei ricominciò a fare la malata terminale, con dei lamenti che le uscivano dal profondo dell’anima. Sembrava proprio che stesse per morire.
Risi di gusto.
Davanti alla scuola, cominciai ad avere paura che la prof non accettasse la mia giustificazione. Quella materia, siccome era difficile, la studiavo sempre, ma quel giorno non avevo nemmeno aperto libro. A malapena ricordavo l’argomento.
E l’avevo alla prima ora.
Mi piantai davanti alla classe e aspettai paziente che arrivasse la professoressa per esporre la mia situazione.
La sua risposta?
“Signorina, non mi interessa dei tuoi problemi. Se sei da interrogare, verrai interrogata”.
La guardai strabuzzando gli occhi. Poi mi fiondai al mio banco e cominciai a leggere la lezione... una volta... due... mentre lei faceva l’appello. In velocità riuscii a ripassare anche l’argomento precedente, e quasi del tutto quell’altro ancora.
Mi sembrava di stare a leggere la scena più forte di un romanzo horror, talmente veloce e curiosa divoravo le parole.
Quando la professoressa finì l’appello, mi disse: “Giò, sei interrogata. Ti avevo già avvisata la settimana scorsa, quindi avevi tutto il tempo per prepararti”.
Annuii e come un agnellino sacrificale andai verso la ghigliottina.
Perché, se ci sono professori che non ricordano il tuo nome per tutto l’anno scolastico, ci sono anche quelli cui non frega niente dei tuoi problemi. Per loro tu sei un numero. Questo pensavo mentre davanti a tutta la classe aspettavo la sentenza.
La prof mi guardò con sguardo serafico, poi cominciò con le domande.
All’inizio facili, ma che, man mano che rispondevo e prendevo sicurezza, divennero più complicate. Sembrava che volesse trovarmi per forza un punto debole, e alla fine (maledetta!) scovò un particolare che mi era sfuggito.
Solo allora, soddisfatta, mi lasciò finalmente andare al mio posto con un nove.
Ero felice perché me l’ero scampata più che bene.
Tanto che a fine lezione, vennero al mio banco le due oche, come le chiamavamo io e Anila. Erano due ragazze altissime e magrissime, al punto di sembrare anoressiche: Aldina e Keta. Queste, anche quando ridevano, sembravano due oche nel vero senso della parola. Si atteggiavano da dive del cinema alle quali volevano assomigliare, ma a me sembrava avessero la tenia.
Tenevano sempre le mani tra i capelli e se li aggiustavano di continuo. Si truccavano a qualsiasi ora della lezione, con degli specchi che tenevano sempre sul banco, allungavano le labbra proprio come il becco delle oche, ridevano o parlavano contemporaneamente, e sembrava che avessero le stesse cose da dire.
Una volta, durante la lezione di educazione fisica, che saltavano quasi sempre per timore di farci vedere le loro “forme”, scoprii che mettevano due paia di pantaloni per far sembrare cosce e sedere almeno un po’ in carne.
“Giò, sei molto brava a scuola”. - mi disse una di loro.
“E sì - riprese l’altra - sei veramente brava”.
“Ditemi cosa volete, ragazze”. - risposi secca, sapendo già che non venivano a complimentarsi con me per i miei risultati scolastici.
“Ci dici in quale boutique ti compri i vestiti?”
“Già - la assecondò la sua amica - noi siamo molto curiose”.
Guardai i miei vestiti comprati al mercato o in qualche negozietto di seconda mano. Seppur dignitosi, non c'era paragone con i loro.
“Non dici niente, Giò? Hai paura che ti copiamo? Vuoi essere originale?”
E hahaha, partirono a ridere in coro.
Allora la mia rabbia cominciò a salire. Mai nessuno si era permesso di prendere in giro il mio modo di vestire. Meritavano una lezione.
“Ascoltatemi, Aldina e Ketina” - quest’ultimo nome lo pronunciai quasi Cretina. Non credo passò inosservato, perché vidi già dal viso che stavano cambiando colore.
“Dove vado io non credo proprio che facciano vestiti per voi, perché io sto bene qualsiasi cosa indossi. Non ho bisogno di mettere due paia di pantaloni per far sembrare il culo più grosso. E nemmeno comprarmi reggiseni push up per far vedere di avere seno, quindi tenetevi pure i vostri capi firmati da boutique e toglietevi dalle palle”.
Credo che il nostro battibecco lo avessero sentito in tanti perché più di uno cominciò a ridacchiare. Loro non dissero più nulla ma Dio sa quanto mi avranno odiata in quel momento. Sono sicura di essermi fatta due grandi nemiche.
Arrabbiata, chiesi permesso al professore dell’ora dopo di uscire, dicendogli di dover andare ad assistere Brikena malata, e lui me lo consentì senza fare storie. In realtà volevo sfogarmi un po’ con lei di queste due stronze.
Appena fuori nel giardino della scuola, riempii d’aria i polmoni e cercai di calmarmi. Mentre mi avviavo nella struttura del collegio, sentii delle voci sussurrate che provenivano da un angolino lontano da occhi indiscreti e vidi... vidi Klodi e una ragazza che non conoscevo che parlavano e ridevano tra di loro in sintonia.
Lei civettava e si allungava per dirgli qualcosa nell’orecchio, lui ogni tanto rideva e la toccava con finta ingenuità, sul viso, collo, petto, braccia, lo stesso atteggiamento che aveva avuto con me in questi giorni. Ogni tanto si avvicinava con il corpo verso di lei e quella non si ritirava, anzi. Erano a loro agio. Sicuri che a quell’ora tutti quanti fossero a lezione e nessuno li avrebbe visti, non si accorsero nemmeno di me.
Se in un primo momento volevo fargli una scenata, poi ci ragionai su e mi dissi che non avevo nessun diritto. Lui non stava mica con me. Non gli avevo dato nemmeno un bacio di mia spontanea volontà. Cosa pretendevo ora? Fedeltà?
Nonostante le giustificazioni e la razionalità, non riuscivo a non soffrire. Quella scena mi aveva ferita. Andai da Brikena senza sapere più cosa le dovessi raccontare. L’immagine di Klodi con quella ragazza mi aveva annebbiato la vista e la mente.
Appena Brikena mi vide, saltò giù dal letto.
“Ehi, sei venuta? Come sono contenta! Io sto studiando il diritto... la prossima volta spero di prendere un bel voto, così per un po’ di tempo sono a posto. Non me ne frega niente di avere voti alti, Giò. Mi basta non venire bocciata”.
Poi mi guardò nel viso e capì che qualcosa non andava.
“Che succede, Giò?” - mi chiese.
In quel momento vuotai il sacco. Le raccontai di Klodi e della sua amante sconosciuta. Mi chiese di descrivere questa ragazza. Dalle mie parole riconobbe una di quarta che stava in camera di Anila. Si chiamava Matilda ed era fidanzata con un ragazzo violento, che era in quinta ma che non viveva in collegio.
“Non capisco cosa ci trovate tutte in ‘sto Klodi. A me sembra un pallone gonfiato che si crede di essere Kevin Costner e che come un Don Giovanni ci prova con tutte. Ci ha provato anche con me, ma gli ho riso in faccia...”
“Tu come fai a sapere queste cose?” - le domandai sorpresa.
“Non tutti sono sul treno come te, Giò”. - mi rispose ridendo per sdrammatizzare, ma quando vide che ero molto triste, cambiò atteggiamento.
“Era questo l’argomento del quale volevo parlarti l’altro giorno. Ti ho vista appartata con lui. Ho visto come ti ha bloccata. Non voglio che soffri, Giò. Non per uno come Klodi. Non ne vale la pena”.
Dovetti lasciarla per rientrare a scuola.
Avevo l’umore nero.
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Il collegio (quinto capitolo)racconto sucessivo
Ecco cosa sei
Commenti dei lettori al racconto erotico