Il collegio (ottavo capitolo)
di
Alba17
genere
prime esperienze
CASA DOLCE CASA
Il giorno dopo ero mezza addormentata. La prima parte della mattinata la spesi per svegliarmi. La seconda la dedicai alla scuola e a ciò che i professori spiegavano.
Dopo pranzo rientrai in collegio e non uscii più. Avevo bisogno di riposare e siccome l’indomani era venerdì e avevo tedesco, dovevo studiarlo per bene. Poteva interrogarmi di nuovo e io volevo prendere il massimo dei voti per recuperare quel quattro e stare tranquilla.
Ero l’unica rimasta in camera, ma meglio così! - pensai.
Con questi buoni propositi mi addormentai. Mi svegliò il vociare delle ragazze che si stavano preparando per andare in aula studio.
Presi il mio materiale e le seguii. Ormai il sonno mi aveva rigenerata.
In due ore non toccai null’altro che il libro di tedesco. Girai quella materia come un calzino. Il professore non avrebbe avuto appigli. Ce l’avrei fatta.
Finito l’orario obbligatorio di studio tornai ancora in camera.
Brikena insisteva per farmi uscire, ma non accettai e non le spiegai nemmeno il motivo di tanta dedizione allo studio proprio quel pomeriggio. Lei non sapeva nulla del mio quattro.
Mi lasciò brontolando, ma non me ne curai.
Una volta sola in camera, ripresi lo studio e questa volta mi occupai delle altre materie.
Un’altra impreparazione sarebbe stata fatale per me. Scesi di sotto solo per la cena. Mangiai svogliatamente, giusto per mettere qualcosa nello stomaco, poi risalii in camera e di nuovo presi il tedesco.
“Ou, ma che hai? Sei diventata scema? Guarda che se non la smetti di studiare, ti nasconderò i libri e non li vedrai più per un mese. Lo sai che sono capacissima di farlo”. - mi minacciò lei.
Ero tentata di raccontarle tutto, ma poi lasciai perdere. Era sera e non volevo risvegliare la mia angoscia. Di notte volevo dormire. Ne avevo bisogno.
Il mattino dopo mi svegliai più presto del solito e diedi un’altra ripassata al tedesco. Ripresi a ripetere i dialoghi a voce alta. Riguardai gli ultimi argomenti ed ero serena.
Non venni interrogata in nessuna materia, fin quando non arrivò l’ora di tedesco.
Ero agitata quando entrò il professore malefico - testapiatta.
Ci salutò, e poi squadrò me con quello sguardo vendicativo. Un brivido di paura mi percorse tutta. Era una sensazione nuova per me. Non avevo mai avuto paura degli insegnanti.
Aprì il registro e: “Giò Bena, alla lavagna. Interrogata”.
Mi mossi con gambe tremanti, pronta ad essere decapitata.
Una volta lì, respirai a fondo. Guardai i compagni per prendere un po’ di fiducia, ma invano. Erano più impauriti di me.
Distolsi lo sguardo e mi concentrai sulle mie parole, come fossi fuori da lì, come quando studiavo da sola e nessun professore mi stava interrogando; ma lo stronzo mi interruppe subito:
“Chi ti ha detto di cominciare?”
“Io... io... cioè pensavo che dovevo cominciare...” - balbettai.
“Ah, adesso tu, signorina Giò, decidi da sola anche gli argomenti sui quali verrai interrogata? Non ti senti un po’ presuntuosa? O così siete abituati dalle vostre parti?”
Dentro di me stavo bollendo. Stavo facendo a botte con la mia voglia di rispondere e farmi rispettare. Volevo dirgli “Sì, noi montanari siamo così. Siamo venuti alla capitale per imparare da lei, ma non abbiamo soldi, quindi rimarremo a vita montanari”, ma tacqui. Mi sarebbe costato troppo.
“Dica, di cosa vuole che le parli, prof?” - gli dissi con aria superiore.
Voleva che parlassi di un argomento che manco aveva spiegato. Che l’altra volta ci aveva detto che non ci serviva... che...
“Ma quella parte ci ha detto che non era da studiare”. - gli risposi con finta calma.
Mi sorrise vendicativo.
“Bene Giò. Vedo che la presunzione regna indisturbata in te. Ti insegnerò un po’ di umiltà... Sai parlare di questo argomento o no? Rispondi!”
“No, professore!” - risposi sostenendo il suo sguardo.
“Puoi ritornare al tuo posto. Quattro.”
Ritornai barcollando come avessi scolato una bottiglia di raki da più di 40 gradi.
Non capivo più nulla.
Anila mi parlava. Qualcun altro anche da dietro mi strinse le spalle per confortarmi, ma ero partita. Volevo scappare da tutto e tutti. Volevo... eppure docilmente stavo al mio posto.
Finite le lezioni, raccolsi in fretta e furia il mio materiale. Non mi fermai con nessuno di loro anche se chiedevano di parlarmi.
Non andai in mensa per mangiare. Lo stomaco mi si era chiuso del tutto. Scappai fuori dal giardino della scuola. Presi la strada verso il lago. Come se scappare mi potesse risolvere tutti i problemi, come se il secondo quattro sarebbe sparito dal mio registro, come se la borsa di studio sarebbe rimasta intoccabile, come se...
Non volevo più pensare. Una pioggia fitta cominciò all’improvviso. Non avevo nemmeno l’ombrello con me. E nemmeno lo volevo. Avevo bisogno di lavarmi, magari mi purificavo dai pensieri neri.
Guardai l’ora. Dovevo rientrare. Tra poco cominciava lo studio obbligatorio e non potevo non esserci. Quanto mi mancava la libertà! Uno non poteva gestire nulla come meglio credeva, in base alle sue necessità, ai suoi stati d’animo. Costrette a subire regole imposte da altri, obbligandoci a rispettarle con la forza e nel peggiore dei modi.
Cominciai a piangere mentre di corsa cercavo di raggiungere il collegio. Le mie lacrime, unite a quelle del cielo, mi stavano dando sollievo. La corsa mi stava dando sollievo. Arrivai in camera che ero bagnata fino alle ossa.
Mi cambiai velocemente e mi asciugai con il phon che mi allungò Brikena.
“Noi due dobbiamo parlare. - mi disse - Non puoi fare tutto da sola”.
“Non è il momento, Brikena, scusa, - le risposi - non sono ancora pronta”.
Non mi disse più niente, ma supponevo che Anila le avesse raccontato tutto, e lei, giustamente, si preoccupava per me.
Andammo in aula studio. Sempre la solita storia, con la dirigente che stava a farci da guardia e noi che studiavamo.
Ad un certo punto entrò una delle sue due collaboratrici, una vipera velenosa e pettegola, pronta a spiarci anche in bagno per riferirle tutto. Le disse qualcosa sottovoce.
Dopo la chiacchierata, la dirigente si rivolse a me:
“Giò, vai nel mio ufficio. C’è tuo padre al telefono”.
Temevo che qualcuno gli avesse detto qualcosa. Andai di corsa per sentire.
“Pronto, papà?!”
“Ciao tesoro. Che fai?”
“Sto studiando, quindi taglia corto”. - gli dissi... via il dente, via il dolore, pensai. Se mio padre aveva qualcosa da dirmi, meglio che non mi torturasse. Non era il caso.
“Voglio che vieni oggi a casa. Ti va? Domani viene Erdit con suo papà da noi, e volevo che ci fossi anche tu. Poi è da un po’ di tempo che non ti vediamo e ci manchi”.
La tenerezza con la quale mio padre mi parlò, il fatto che non sapesse nulla dei miei quattro in tedesco, la liberazione di andare via - anche se solo per un paio di giorni, nei quali non avrei pensato a ciò che mi era successo - mi tolsero un grande peso. Sospirai alleggerita.
“Ok papà, parto subito. Aspettami alla stazione. Credo massimo per le 19:30 sarò lì. Anche voi mi mancate. Ti voglio bene”.
Andai tutta contenta in aula studio per raccogliere i libri, riferire alla dirigente e salutare le mie compagne.
Partii di corsa verso la stazione. Non portai nessun libro con me. Avevo bisogno di staccare, un bisogno disperato di dimenticare, di togliermi di dosso quel carico molto più grande di me che mi stava schiacciando.
Mentre stavo per uscire dal territorio con ‘filo spinato’, vidi Klodi.
“Ho saputo dei quattro in tedesco, Giò - mi disse - e volevo dirti che mi dispiace tanto”.
“Non ho bisogno della tua pietà - gli risposi fredda - grazie comunque”.
Non disse nulla. Si limitò a guardarmi.
In treno stavo pensando a Erdit e a suo padre. Erdit era un mio ex compagno della ‘scuola vecchia’, come la chiamavo io. Siamo stati insieme dalle elementari fino alle superiori. Che però in seconda dovetti interrompere perché i miei si trasferirono nella città dove ora vivevamo. Era più che un ex compagno. Era un carissimo amico, simpatico e divertente. Gli volevo bene.
Era da tanto che non ci vedevamo, ma non avevamo mai interrotto i rapporti, anche perché suo papà, preside della scuola dove studiavamo all’epoca, nonché insegnante di letteratura, era un carissimo amico di mio padre, quindi ogni tanto venivano a trovarci o andavamo noi da loro. Ero contenta e nessuno avrebbe rovinato questo momento speciale, nemmeno il testapiatta con i suoi quattro.
Poi andavo d’accordissimo pure con suo padre, un pazzo di letteratura inglese, innamorato follemente di Shakespeare.
A lui dovevo la passione per le opere di questo scrittore. Me l’aveva fatto conoscere, amare. Tante volte mi dava pezzi di tragedie da imparare a memoria per recitarle davanti a tutta la classe. Alcune mi sono rimaste impresse ancora oggi.
Prevedevo un bel week end. Poi pensavo che almeno con Erdit avrei potuto parlare del problema che mi affliggeva. Era fuori dal contesto del collegio e avrebbe visto con più lucidità la situazione. Forse mi avrebbe consigliato... non so.
Raccontare a mio padre tutto non mi passava per la testa. L’avrei fatto preoccupare e non avrebbe risolto nulla. Poi non ero abituata a far risolvere i miei problemi scolastici da altri, e non avevo intenzione di cominciare adesso.
Questi pensieri mi accompagnarono durante tutto il viaggio fin quando arrivai alla stazione. Mio padre mi aspettava.
Gli corsi incontro e lo abbracciai forte forte. La sua presenza mi rasserenò.
Ancora adesso, dopo moltissimi anni, non sono cresciuta abbastanza per non aver bisogno delle sue braccia forti che mi alleggeriscono il peso della vita.
Mi commossi del suo modo di abbracciarmi e di come continuava a chiamarmi: “ecco è arrivata la mia piccolina”.
Dopo mezz’ora di camminata, giungemmo a casa, dove, oltre mia mamma, incontrai lo zio con la moglie. Dopo cena vennero anche i vicini del nostro piano.
Mi fecero le feste.
Quanto mi mancava questo calore!
Mi chiesero come andava nella scuola nuova, come andavano gli studi, le compagne ecc ecc. Risposi velocemente che non era facile, raccontai dei vetri rotti in pieno inverno, delle docce fatte di notte, ma non feci nessuna parola per quanto riguardava il tedesco. Poi si misero a parlare di loro, dei loro problemi, dei figli e così passò quella serata.
Al mattino dormivo profondamente, quando mia mamma mi chiamò:
“Giò, c’è Erdit con suo padre”.
“Sono già arrivati?” - chiesi mezza addormentata. Mi fece di sì con la testa.
“Ma che ore sono?”
“Le dieci”.
Era tardi. Avevo dormito come un ghiro. L’aria di casa mi aveva fatto bene. Mi alzai in pigiama, mi rinfrescai il viso e sempre in pigiama mi avviai verso il soggiorno dove si trovavano gli ospiti.
“Non puoi presentarti così - mi disse lei - dai, mettiti qualcosa di decente”.
Sorrisi vedendola imbarazzata, ma non l’ascoltai. Il mio pigiama era caldo e morbido e finalmente ero a casa e potevo tenermelo anche tutto il giorno, per comodità.
“Buongiorno Professore!” - dissi appena misi piede in soggiorno e diedi la mano al padre di Erdit, il quale appena mi vide si alzò subito in piedi.
Con mia sorpresa, mi abbracciò con affetto. Non l’aveva mai fatto. Di solito manteneva le distanze. Ricambiai il gesto un po’ imbarazzata.
Poi salutai Erdit il quale mi prese in braccio. Gli toccava. Era diventato altissimo. Dio se era cresciuto dall’ultima volta che l’avevo visto!
“Mollami giù - gli dissi ridendo - ma che modi sono?”
“Eh, se non cresci, Giò, non è colpa mia. Come faccio ad abbracciarti? O mi devo mettere seduto per terra ad altezza bambino?”
“Molto divertente! - gli dissi - ma lo sai come si dice...”
Mi interruppe:
“Si sì lo so! Il vino buono sta nella botte piccola”.
“No che non lo sai. Si dice che dove non arriva l’altezza, ci arriva l’intelligenza”. - gli risposi di rimando.
Ridemmo tutti. Essere a casa era bellissimo! E stare con gli amici che più ti stanno a cuore, era stupendo. Dio come stavo bene! In un attimo tutti i pensieri svaniti. Ero ritornata a vivere. Suo padre mi fece posto vicino a sé. Mi stavano facendo sentire importante.
Mi chiese cosa stessimo facendo in letteratura e chi fosse il professore di quella materia. Accanito com’era, non vedeva l’ora di saperlo. Mi chiese come mi trovavo, se mi piacesse e altre domande così. Quando gli dissi il nome della mia professoressa, si alzò in piedi meravigliato: “E’ quella Luce che scrive i testi, giusto Giò?”
Annuii.
“Sei proprio fortunata! Allora è vero che sei in una scuola di prestigio”. Esclamò.
“Con diversi professori, sì - gli risposi - ma non tutti sono come lei. Magari!”
Dopo un po’ Erdit mi tirò fuori da questi discorsi di scuola (per fortuna!) dicendomi che dovevamo uscire. Chiesi il permesso e andai a vestirmi ‘decentemente’ per la gioia di mia mamma.
Una volta fuori, Erdit cominciò a brontolare contro il padre:
“Ecco, ci mancava che ti interrogasse in letteratura per vedere se fossi ben preparata, o magari ti chiedesse di interpretare il Poema della povertà. - sbuffò - Lo odio quando fa così!”
“Smettila Erdit. Lo sai che tuo padre mi sta strasimpatico. A lui devo tanto”.
“Non so se devo essere preoccupato per mia madre o ti devo dire grazie”. - mi disse prendendomi in giro.
“Tu sei tutto scemo!” - gli risposi e cercai di colpirlo con i pugni, ma non riuscii nell’intento perché lui mi bloccava le mani con le sue, più grandi.
Rideva di gusto.
“Dove andiamo?” - gli chiesi.
“Non lo so. Fa freddo.” - mi rispose.
“Andiamo in qualche bar, ma non possiamo parlare tranquilli. Sono sempre pieni qui. Sembra che la gente non abbia altro da fare che bere”.
Alla fine, andammo in un albergo ristorante dal nome “Turismo”. Non ero mai stata lì. Era enorme, su tre piani, e da un'entrata separata si saliva al terzo, che con le sue vetrate faceva da bar panoramico.
Aveva parecchie sale grandi. Ne trovammo una quasi vuota dove poter chiacchierare tranquilli.
Ordinammo, io una zuppa e lui un bakllava.
A me il bakllava non piace perché lo trovo molto zuccherato, lui invece ne andava matto e lo sapevo. Dopo che il cameriere ci servì, cominciò a raccontarmi della scuola, della nostra classe. Di quanto si sentiva la mia mancanza, di come una volta il professore di chimica, che era anche il nostro coordinatore, aveva detto che quando finiva la quarta (certe scuole superiori, compreso il liceo, duravano quattro anni; la mia invece cinque), alla cena di fine scuola avrebbero invitato anche me e che sarei stata l’ospite d’onore.
Sorrisi per la dimostrazione d’affetto di questo professore e dei miei vecchi compagni.
“Giò, ti ricordi cos’hai combinato con lui quella volta che hai risolto gli esercizi di verifica ad Arti, che invece di copiarli con la sua scrittura, ha messo il suo nome sul foglio scritto da te?”
“Certo che mi ricordo. Ha messo quattro a me e a lui”. - cominciai a ridere.
“E tu invece ricordi cosa gli hai detto?”
“Che il mio dieci doveva darlo ad Arti. E lui arrabbiato mi ha mandata fuori... Ma ero piccola. - mi giustificai - Ero in prima superiore. Stavo sviluppando la mia personalità... Uffa!”
“E quella volta, - riprese Erdit - quando andammo al fiume durante l’ora di lezione?”
“Ops! Abbiamo fatto anche questo, vero?”
“Già, e più di una volta”.
“Che incoscienti!”
“Comunque, volevo dirti se ti ricordi quei ragazzi - credo avessero una ventina d'anni - che volevano passare con la loro auto il fiume e sono rimasti incastrati. La macchina non andava più avanti”.
“Ah, quella volta tu l’hai combinata grossa... - gli dissi con tono di rimprovero - tu insieme a Sami. Avete cominciato a prenderli in giro, mentre loro, poverini, cercavano di sollevare la loro Panda per farla uscire fuori da lì. E voi... voi disgraziati facevate: ‘Dai ragazzi, forza! Dai che ce la farete. Uno, due, tre: ooop!’ Loro vi hanno chiesto una mano e voi gli avete risposto: ‘Sì, questa con il dito medio!’ e noialtre ridevamo divertite. A voi hanno detto che appena arrivavano da questa parte ve le avrebbero date di santa ragione e a noi ragazze ci hanno chiamate ‘puttane’. E tutto per colpa vostra!”
“Abbiamo risposto, per difendervi, che puttane erano le loro madri e loro si sono arrabbiati ancora di più. Pensavamo di essere al sicuro, ma quando abbiamo visto che procedevano con la macchina sollevata a braccia verso di noi (incredibile, ma ce l’hanno fatta) ce la siamo data a gambe”.
Stavo ridendo con le mani alla pancia, poi cominciai a piangere a dirotto. Povero Erdit non capiva niente. Forse pensava che io avessi nostalgia dei miei amici. Forse pensava che avessi una delusione d’amore... cercava di consolarmi e farmi parlare. In quel momento buttai fuori il rospo. Gli raccontai del tedesco, delle difficoltà che avevo nell’approcciarmi con quel professore, della paura e della vergogna di essere bocciata in quella materia, della perdita della borsa di studio, di quello che avrebbero pensato i miei genitori se fossi tornata a casa senza diploma... del giudizio della gente.
Erdit, se in un primo momento era spaesato, poi cominciò a parlare per trovare una via d’uscita.
“Prima di tutto, Giò, non puoi fare tutto da sola (era la seconda volta che mi veniva detta questa frase in nemmeno 24 ore). Parla con tuo padre. Lui è ragionevole. Ti saprà consigliare”.
Saltai su: “No, Erdit, mio padre non deve sapere niente! Promettimi che non gli dirai nessuna parola”.
“Ok ok, calmati, Giò. Allora parliamo con il mio. Vedrai che troveremo una soluzione. È un preside e saprà come funzionano queste cose. Poi mi sembra assurdo che un professore faccia delle cose così ‘immorali’ - passami il termine - e la passi liscia... raccomandiamo a mio padre di non dire nulla ai tuoi di questa storia”.
Rimasi pensierosa per un po’.
“Scusa dello sfogo!” - gli dissi.
“Scherzi? Gli amici servono proprio per questo, non solo per dividere risate e pettegolezzi”.
“Hai ragione”.
Dopo un po’ gli chiesi:
“Come va con Sara? Siete ancora insieme?”
“Sì, non mi molla facilmente. Cioè ci siamo lasciati parecchie volte, ma poi abbiamo ripreso a frequentarci più di prima. Non so veramente come togliermela di dosso”.
“Ma dai Erdit, lei è così carina, ed è bellissima!”
“Certo, ed è molto generosa”. - mi rispose con disprezzo.
“In che senso?”
“Tutte le volte che ci siamo lasciati, ha trovato un altro per dargliela. Poverina, cercava conforto”.
“Non credo. Saranno malelingue”.
“Può darsi... Adesso ti devo confessare io un segreto... - mi disse a voce bassa - Vado anche con Ely!”
“Come, scusa?” - chiesi incredula.
“Hai capito bene”.
“Ely, sua sorella che è in seconda? Che ha un anno meno di noi?”
“Si... proprio quella. Ma non guardarmi così. Non farmi pentire di avertelo raccontato”.
“Sei un porco, Erdit, e ti sei cacciato in un bel guaio”.
“Lo so”.
“Bene! E ora? Dimmi, cos’hai intenzione di fare ora? Se Sara lo scopre, sei fritto”.
“Troppo tardi. Mi ha già scoperto...”
Cominciai ad agitarmi.
“E come l’ha scoperto?”
“Ci ha visti. Ti ricordi la vecchia chiesa abbandonata? Ci ha trovati mentre... hum, posso fermarmi qui o devo andare avanti?”
“No no, risparmiami i dettagli dell’amplesso, grazie. Dimmi solo come ha reagito Sara e che intenzioni hai tu ora”.
“Sara cominciò a urlare isterica. A piangere. Mi alzai da Ely e, con mia sorpresa, questa non si vergognava affatto. Anzi era tutta compiaciuta d’aver rubato il fidanzato a sua sorella”.
“E tu? Cos’hai fatto?”
“Lasciai Ely e corsi dietro a Sara. Urlava come una pazza. Gridava e piangeva. Tra le lacrime mi diceva: ‘No. Con tutte lo potevi fare, ma non con Ely.’ Riuscii a raggiungerla e la feci ragionare, dicendole che era stato solo un momento di debolezza. Che era la prima volta che succedeva (anche se non era vero) e altre cose così.”
“Oh Signur! E ora? Dimmi, cosa farai ora?”
“Non lo so, Giò, non lo so... Vorrei chiudere con tutt’e due, ma temo mi ricattino. E immagina il casino che verrebbe fuori. Diventerebbe un caso di Stato”.
“Robe da matti! – esclamai - e io pensavo che l’unico don Giovanni al mondo fosse Klodi.”
Ops, accidenti che non seppi tenere la bocca chiusa. Infatti Erdit cominciò subito a farmi il terzo grado e… e io gli raccontai pure di lui.
Ecco: nessun segreto tra di noi.
“Ti piace?”
“Tanto tanto, ma non ho intenzione di fare la fine di Sara. Anzi, ti devo ringraziare perché mi hai aperto gli occhi... mamma mia come sei cambiato però... non ti riconosco più”.
“Io non c’entro Giò. Fanno tutto loro”.
“Certo caro sono loro che ti costringono a scoparle (ops… questa parola mi è scivolata) a turno... povero Erdit!”
Rise. Per fortuna non se la prese.
“E Alma, Giò? La compagna della nostra classe? Sta facendo carte false per mettersi con me”.
“E suppongo tu non voglia” - gli risposi ironica.
“Certo che no. Non voglio incasinarmi dentro la classe. In classe ho sempre portato rispetto”.
Sospirai scombussolata. Robe da matti, davvero. Non puoi più fidarti di nessuno.
Pensi di conoscere una persona e invece... comunque il rapporto tra noi sembrava rinforzato. Condividere i segreti, fidarsi ciecamente senza sentirsi giudicati, è una gran bella cosa.
In quel momento il cameriere scocciato: “ragazzi prendete altro?”
“No no” - fece Erdit e gli lasciò i soldi dell’ordinazione, compresa una bella mancia.
Uscimmo nell’aria fredda di quel mese di dicembre. Mi abbracciai con le mie braccia per scaldarmi.
“Tieni la mia sciarpa, Giò – disse - sei sempre stata freddolosa”.
Andammo a casa per il pranzo e non parlammo più. Ognuno perso nei propri pensieri. Le uniche parole che si sentivano erano quelle dei nostri genitori.
Nel pomeriggio andarono via. Mi offrii di accompagnarli alla stazione.
Per strada raccontai tutto al mio caro professore di lettere, al mio preside, al papà del mio miglior amico.
Si arrabbiò tantissimo e, dopo lo sfogo contro il professore, mi disse:
“Intanto tu non devi aver paura di lui, ricordatelo. È lui che sbaglia e continua a perseverare nello sbaglio. Comunque, puoi sempre denunciarlo, prima al vostro preside, e poi più in alto. Prima però di farti un nemico a vita, ti consiglierei di parlare con lui a quattrocchi. Gli conviene fare marcia indietro. Rischia il posto”.
Lo ringraziai del consiglio e ritornai a casa. La mia minivacanza era risultata anche migliore del previsto.
Il giorno dopo ero mezza addormentata. La prima parte della mattinata la spesi per svegliarmi. La seconda la dedicai alla scuola e a ciò che i professori spiegavano.
Dopo pranzo rientrai in collegio e non uscii più. Avevo bisogno di riposare e siccome l’indomani era venerdì e avevo tedesco, dovevo studiarlo per bene. Poteva interrogarmi di nuovo e io volevo prendere il massimo dei voti per recuperare quel quattro e stare tranquilla.
Ero l’unica rimasta in camera, ma meglio così! - pensai.
Con questi buoni propositi mi addormentai. Mi svegliò il vociare delle ragazze che si stavano preparando per andare in aula studio.
Presi il mio materiale e le seguii. Ormai il sonno mi aveva rigenerata.
In due ore non toccai null’altro che il libro di tedesco. Girai quella materia come un calzino. Il professore non avrebbe avuto appigli. Ce l’avrei fatta.
Finito l’orario obbligatorio di studio tornai ancora in camera.
Brikena insisteva per farmi uscire, ma non accettai e non le spiegai nemmeno il motivo di tanta dedizione allo studio proprio quel pomeriggio. Lei non sapeva nulla del mio quattro.
Mi lasciò brontolando, ma non me ne curai.
Una volta sola in camera, ripresi lo studio e questa volta mi occupai delle altre materie.
Un’altra impreparazione sarebbe stata fatale per me. Scesi di sotto solo per la cena. Mangiai svogliatamente, giusto per mettere qualcosa nello stomaco, poi risalii in camera e di nuovo presi il tedesco.
“Ou, ma che hai? Sei diventata scema? Guarda che se non la smetti di studiare, ti nasconderò i libri e non li vedrai più per un mese. Lo sai che sono capacissima di farlo”. - mi minacciò lei.
Ero tentata di raccontarle tutto, ma poi lasciai perdere. Era sera e non volevo risvegliare la mia angoscia. Di notte volevo dormire. Ne avevo bisogno.
Il mattino dopo mi svegliai più presto del solito e diedi un’altra ripassata al tedesco. Ripresi a ripetere i dialoghi a voce alta. Riguardai gli ultimi argomenti ed ero serena.
Non venni interrogata in nessuna materia, fin quando non arrivò l’ora di tedesco.
Ero agitata quando entrò il professore malefico - testapiatta.
Ci salutò, e poi squadrò me con quello sguardo vendicativo. Un brivido di paura mi percorse tutta. Era una sensazione nuova per me. Non avevo mai avuto paura degli insegnanti.
Aprì il registro e: “Giò Bena, alla lavagna. Interrogata”.
Mi mossi con gambe tremanti, pronta ad essere decapitata.
Una volta lì, respirai a fondo. Guardai i compagni per prendere un po’ di fiducia, ma invano. Erano più impauriti di me.
Distolsi lo sguardo e mi concentrai sulle mie parole, come fossi fuori da lì, come quando studiavo da sola e nessun professore mi stava interrogando; ma lo stronzo mi interruppe subito:
“Chi ti ha detto di cominciare?”
“Io... io... cioè pensavo che dovevo cominciare...” - balbettai.
“Ah, adesso tu, signorina Giò, decidi da sola anche gli argomenti sui quali verrai interrogata? Non ti senti un po’ presuntuosa? O così siete abituati dalle vostre parti?”
Dentro di me stavo bollendo. Stavo facendo a botte con la mia voglia di rispondere e farmi rispettare. Volevo dirgli “Sì, noi montanari siamo così. Siamo venuti alla capitale per imparare da lei, ma non abbiamo soldi, quindi rimarremo a vita montanari”, ma tacqui. Mi sarebbe costato troppo.
“Dica, di cosa vuole che le parli, prof?” - gli dissi con aria superiore.
Voleva che parlassi di un argomento che manco aveva spiegato. Che l’altra volta ci aveva detto che non ci serviva... che...
“Ma quella parte ci ha detto che non era da studiare”. - gli risposi con finta calma.
Mi sorrise vendicativo.
“Bene Giò. Vedo che la presunzione regna indisturbata in te. Ti insegnerò un po’ di umiltà... Sai parlare di questo argomento o no? Rispondi!”
“No, professore!” - risposi sostenendo il suo sguardo.
“Puoi ritornare al tuo posto. Quattro.”
Ritornai barcollando come avessi scolato una bottiglia di raki da più di 40 gradi.
Non capivo più nulla.
Anila mi parlava. Qualcun altro anche da dietro mi strinse le spalle per confortarmi, ma ero partita. Volevo scappare da tutto e tutti. Volevo... eppure docilmente stavo al mio posto.
Finite le lezioni, raccolsi in fretta e furia il mio materiale. Non mi fermai con nessuno di loro anche se chiedevano di parlarmi.
Non andai in mensa per mangiare. Lo stomaco mi si era chiuso del tutto. Scappai fuori dal giardino della scuola. Presi la strada verso il lago. Come se scappare mi potesse risolvere tutti i problemi, come se il secondo quattro sarebbe sparito dal mio registro, come se la borsa di studio sarebbe rimasta intoccabile, come se...
Non volevo più pensare. Una pioggia fitta cominciò all’improvviso. Non avevo nemmeno l’ombrello con me. E nemmeno lo volevo. Avevo bisogno di lavarmi, magari mi purificavo dai pensieri neri.
Guardai l’ora. Dovevo rientrare. Tra poco cominciava lo studio obbligatorio e non potevo non esserci. Quanto mi mancava la libertà! Uno non poteva gestire nulla come meglio credeva, in base alle sue necessità, ai suoi stati d’animo. Costrette a subire regole imposte da altri, obbligandoci a rispettarle con la forza e nel peggiore dei modi.
Cominciai a piangere mentre di corsa cercavo di raggiungere il collegio. Le mie lacrime, unite a quelle del cielo, mi stavano dando sollievo. La corsa mi stava dando sollievo. Arrivai in camera che ero bagnata fino alle ossa.
Mi cambiai velocemente e mi asciugai con il phon che mi allungò Brikena.
“Noi due dobbiamo parlare. - mi disse - Non puoi fare tutto da sola”.
“Non è il momento, Brikena, scusa, - le risposi - non sono ancora pronta”.
Non mi disse più niente, ma supponevo che Anila le avesse raccontato tutto, e lei, giustamente, si preoccupava per me.
Andammo in aula studio. Sempre la solita storia, con la dirigente che stava a farci da guardia e noi che studiavamo.
Ad un certo punto entrò una delle sue due collaboratrici, una vipera velenosa e pettegola, pronta a spiarci anche in bagno per riferirle tutto. Le disse qualcosa sottovoce.
Dopo la chiacchierata, la dirigente si rivolse a me:
“Giò, vai nel mio ufficio. C’è tuo padre al telefono”.
Temevo che qualcuno gli avesse detto qualcosa. Andai di corsa per sentire.
“Pronto, papà?!”
“Ciao tesoro. Che fai?”
“Sto studiando, quindi taglia corto”. - gli dissi... via il dente, via il dolore, pensai. Se mio padre aveva qualcosa da dirmi, meglio che non mi torturasse. Non era il caso.
“Voglio che vieni oggi a casa. Ti va? Domani viene Erdit con suo papà da noi, e volevo che ci fossi anche tu. Poi è da un po’ di tempo che non ti vediamo e ci manchi”.
La tenerezza con la quale mio padre mi parlò, il fatto che non sapesse nulla dei miei quattro in tedesco, la liberazione di andare via - anche se solo per un paio di giorni, nei quali non avrei pensato a ciò che mi era successo - mi tolsero un grande peso. Sospirai alleggerita.
“Ok papà, parto subito. Aspettami alla stazione. Credo massimo per le 19:30 sarò lì. Anche voi mi mancate. Ti voglio bene”.
Andai tutta contenta in aula studio per raccogliere i libri, riferire alla dirigente e salutare le mie compagne.
Partii di corsa verso la stazione. Non portai nessun libro con me. Avevo bisogno di staccare, un bisogno disperato di dimenticare, di togliermi di dosso quel carico molto più grande di me che mi stava schiacciando.
Mentre stavo per uscire dal territorio con ‘filo spinato’, vidi Klodi.
“Ho saputo dei quattro in tedesco, Giò - mi disse - e volevo dirti che mi dispiace tanto”.
“Non ho bisogno della tua pietà - gli risposi fredda - grazie comunque”.
Non disse nulla. Si limitò a guardarmi.
In treno stavo pensando a Erdit e a suo padre. Erdit era un mio ex compagno della ‘scuola vecchia’, come la chiamavo io. Siamo stati insieme dalle elementari fino alle superiori. Che però in seconda dovetti interrompere perché i miei si trasferirono nella città dove ora vivevamo. Era più che un ex compagno. Era un carissimo amico, simpatico e divertente. Gli volevo bene.
Era da tanto che non ci vedevamo, ma non avevamo mai interrotto i rapporti, anche perché suo papà, preside della scuola dove studiavamo all’epoca, nonché insegnante di letteratura, era un carissimo amico di mio padre, quindi ogni tanto venivano a trovarci o andavamo noi da loro. Ero contenta e nessuno avrebbe rovinato questo momento speciale, nemmeno il testapiatta con i suoi quattro.
Poi andavo d’accordissimo pure con suo padre, un pazzo di letteratura inglese, innamorato follemente di Shakespeare.
A lui dovevo la passione per le opere di questo scrittore. Me l’aveva fatto conoscere, amare. Tante volte mi dava pezzi di tragedie da imparare a memoria per recitarle davanti a tutta la classe. Alcune mi sono rimaste impresse ancora oggi.
Prevedevo un bel week end. Poi pensavo che almeno con Erdit avrei potuto parlare del problema che mi affliggeva. Era fuori dal contesto del collegio e avrebbe visto con più lucidità la situazione. Forse mi avrebbe consigliato... non so.
Raccontare a mio padre tutto non mi passava per la testa. L’avrei fatto preoccupare e non avrebbe risolto nulla. Poi non ero abituata a far risolvere i miei problemi scolastici da altri, e non avevo intenzione di cominciare adesso.
Questi pensieri mi accompagnarono durante tutto il viaggio fin quando arrivai alla stazione. Mio padre mi aspettava.
Gli corsi incontro e lo abbracciai forte forte. La sua presenza mi rasserenò.
Ancora adesso, dopo moltissimi anni, non sono cresciuta abbastanza per non aver bisogno delle sue braccia forti che mi alleggeriscono il peso della vita.
Mi commossi del suo modo di abbracciarmi e di come continuava a chiamarmi: “ecco è arrivata la mia piccolina”.
Dopo mezz’ora di camminata, giungemmo a casa, dove, oltre mia mamma, incontrai lo zio con la moglie. Dopo cena vennero anche i vicini del nostro piano.
Mi fecero le feste.
Quanto mi mancava questo calore!
Mi chiesero come andava nella scuola nuova, come andavano gli studi, le compagne ecc ecc. Risposi velocemente che non era facile, raccontai dei vetri rotti in pieno inverno, delle docce fatte di notte, ma non feci nessuna parola per quanto riguardava il tedesco. Poi si misero a parlare di loro, dei loro problemi, dei figli e così passò quella serata.
Al mattino dormivo profondamente, quando mia mamma mi chiamò:
“Giò, c’è Erdit con suo padre”.
“Sono già arrivati?” - chiesi mezza addormentata. Mi fece di sì con la testa.
“Ma che ore sono?”
“Le dieci”.
Era tardi. Avevo dormito come un ghiro. L’aria di casa mi aveva fatto bene. Mi alzai in pigiama, mi rinfrescai il viso e sempre in pigiama mi avviai verso il soggiorno dove si trovavano gli ospiti.
“Non puoi presentarti così - mi disse lei - dai, mettiti qualcosa di decente”.
Sorrisi vedendola imbarazzata, ma non l’ascoltai. Il mio pigiama era caldo e morbido e finalmente ero a casa e potevo tenermelo anche tutto il giorno, per comodità.
“Buongiorno Professore!” - dissi appena misi piede in soggiorno e diedi la mano al padre di Erdit, il quale appena mi vide si alzò subito in piedi.
Con mia sorpresa, mi abbracciò con affetto. Non l’aveva mai fatto. Di solito manteneva le distanze. Ricambiai il gesto un po’ imbarazzata.
Poi salutai Erdit il quale mi prese in braccio. Gli toccava. Era diventato altissimo. Dio se era cresciuto dall’ultima volta che l’avevo visto!
“Mollami giù - gli dissi ridendo - ma che modi sono?”
“Eh, se non cresci, Giò, non è colpa mia. Come faccio ad abbracciarti? O mi devo mettere seduto per terra ad altezza bambino?”
“Molto divertente! - gli dissi - ma lo sai come si dice...”
Mi interruppe:
“Si sì lo so! Il vino buono sta nella botte piccola”.
“No che non lo sai. Si dice che dove non arriva l’altezza, ci arriva l’intelligenza”. - gli risposi di rimando.
Ridemmo tutti. Essere a casa era bellissimo! E stare con gli amici che più ti stanno a cuore, era stupendo. Dio come stavo bene! In un attimo tutti i pensieri svaniti. Ero ritornata a vivere. Suo padre mi fece posto vicino a sé. Mi stavano facendo sentire importante.
Mi chiese cosa stessimo facendo in letteratura e chi fosse il professore di quella materia. Accanito com’era, non vedeva l’ora di saperlo. Mi chiese come mi trovavo, se mi piacesse e altre domande così. Quando gli dissi il nome della mia professoressa, si alzò in piedi meravigliato: “E’ quella Luce che scrive i testi, giusto Giò?”
Annuii.
“Sei proprio fortunata! Allora è vero che sei in una scuola di prestigio”. Esclamò.
“Con diversi professori, sì - gli risposi - ma non tutti sono come lei. Magari!”
Dopo un po’ Erdit mi tirò fuori da questi discorsi di scuola (per fortuna!) dicendomi che dovevamo uscire. Chiesi il permesso e andai a vestirmi ‘decentemente’ per la gioia di mia mamma.
Una volta fuori, Erdit cominciò a brontolare contro il padre:
“Ecco, ci mancava che ti interrogasse in letteratura per vedere se fossi ben preparata, o magari ti chiedesse di interpretare il Poema della povertà. - sbuffò - Lo odio quando fa così!”
“Smettila Erdit. Lo sai che tuo padre mi sta strasimpatico. A lui devo tanto”.
“Non so se devo essere preoccupato per mia madre o ti devo dire grazie”. - mi disse prendendomi in giro.
“Tu sei tutto scemo!” - gli risposi e cercai di colpirlo con i pugni, ma non riuscii nell’intento perché lui mi bloccava le mani con le sue, più grandi.
Rideva di gusto.
“Dove andiamo?” - gli chiesi.
“Non lo so. Fa freddo.” - mi rispose.
“Andiamo in qualche bar, ma non possiamo parlare tranquilli. Sono sempre pieni qui. Sembra che la gente non abbia altro da fare che bere”.
Alla fine, andammo in un albergo ristorante dal nome “Turismo”. Non ero mai stata lì. Era enorme, su tre piani, e da un'entrata separata si saliva al terzo, che con le sue vetrate faceva da bar panoramico.
Aveva parecchie sale grandi. Ne trovammo una quasi vuota dove poter chiacchierare tranquilli.
Ordinammo, io una zuppa e lui un bakllava.
A me il bakllava non piace perché lo trovo molto zuccherato, lui invece ne andava matto e lo sapevo. Dopo che il cameriere ci servì, cominciò a raccontarmi della scuola, della nostra classe. Di quanto si sentiva la mia mancanza, di come una volta il professore di chimica, che era anche il nostro coordinatore, aveva detto che quando finiva la quarta (certe scuole superiori, compreso il liceo, duravano quattro anni; la mia invece cinque), alla cena di fine scuola avrebbero invitato anche me e che sarei stata l’ospite d’onore.
Sorrisi per la dimostrazione d’affetto di questo professore e dei miei vecchi compagni.
“Giò, ti ricordi cos’hai combinato con lui quella volta che hai risolto gli esercizi di verifica ad Arti, che invece di copiarli con la sua scrittura, ha messo il suo nome sul foglio scritto da te?”
“Certo che mi ricordo. Ha messo quattro a me e a lui”. - cominciai a ridere.
“E tu invece ricordi cosa gli hai detto?”
“Che il mio dieci doveva darlo ad Arti. E lui arrabbiato mi ha mandata fuori... Ma ero piccola. - mi giustificai - Ero in prima superiore. Stavo sviluppando la mia personalità... Uffa!”
“E quella volta, - riprese Erdit - quando andammo al fiume durante l’ora di lezione?”
“Ops! Abbiamo fatto anche questo, vero?”
“Già, e più di una volta”.
“Che incoscienti!”
“Comunque, volevo dirti se ti ricordi quei ragazzi - credo avessero una ventina d'anni - che volevano passare con la loro auto il fiume e sono rimasti incastrati. La macchina non andava più avanti”.
“Ah, quella volta tu l’hai combinata grossa... - gli dissi con tono di rimprovero - tu insieme a Sami. Avete cominciato a prenderli in giro, mentre loro, poverini, cercavano di sollevare la loro Panda per farla uscire fuori da lì. E voi... voi disgraziati facevate: ‘Dai ragazzi, forza! Dai che ce la farete. Uno, due, tre: ooop!’ Loro vi hanno chiesto una mano e voi gli avete risposto: ‘Sì, questa con il dito medio!’ e noialtre ridevamo divertite. A voi hanno detto che appena arrivavano da questa parte ve le avrebbero date di santa ragione e a noi ragazze ci hanno chiamate ‘puttane’. E tutto per colpa vostra!”
“Abbiamo risposto, per difendervi, che puttane erano le loro madri e loro si sono arrabbiati ancora di più. Pensavamo di essere al sicuro, ma quando abbiamo visto che procedevano con la macchina sollevata a braccia verso di noi (incredibile, ma ce l’hanno fatta) ce la siamo data a gambe”.
Stavo ridendo con le mani alla pancia, poi cominciai a piangere a dirotto. Povero Erdit non capiva niente. Forse pensava che io avessi nostalgia dei miei amici. Forse pensava che avessi una delusione d’amore... cercava di consolarmi e farmi parlare. In quel momento buttai fuori il rospo. Gli raccontai del tedesco, delle difficoltà che avevo nell’approcciarmi con quel professore, della paura e della vergogna di essere bocciata in quella materia, della perdita della borsa di studio, di quello che avrebbero pensato i miei genitori se fossi tornata a casa senza diploma... del giudizio della gente.
Erdit, se in un primo momento era spaesato, poi cominciò a parlare per trovare una via d’uscita.
“Prima di tutto, Giò, non puoi fare tutto da sola (era la seconda volta che mi veniva detta questa frase in nemmeno 24 ore). Parla con tuo padre. Lui è ragionevole. Ti saprà consigliare”.
Saltai su: “No, Erdit, mio padre non deve sapere niente! Promettimi che non gli dirai nessuna parola”.
“Ok ok, calmati, Giò. Allora parliamo con il mio. Vedrai che troveremo una soluzione. È un preside e saprà come funzionano queste cose. Poi mi sembra assurdo che un professore faccia delle cose così ‘immorali’ - passami il termine - e la passi liscia... raccomandiamo a mio padre di non dire nulla ai tuoi di questa storia”.
Rimasi pensierosa per un po’.
“Scusa dello sfogo!” - gli dissi.
“Scherzi? Gli amici servono proprio per questo, non solo per dividere risate e pettegolezzi”.
“Hai ragione”.
Dopo un po’ gli chiesi:
“Come va con Sara? Siete ancora insieme?”
“Sì, non mi molla facilmente. Cioè ci siamo lasciati parecchie volte, ma poi abbiamo ripreso a frequentarci più di prima. Non so veramente come togliermela di dosso”.
“Ma dai Erdit, lei è così carina, ed è bellissima!”
“Certo, ed è molto generosa”. - mi rispose con disprezzo.
“In che senso?”
“Tutte le volte che ci siamo lasciati, ha trovato un altro per dargliela. Poverina, cercava conforto”.
“Non credo. Saranno malelingue”.
“Può darsi... Adesso ti devo confessare io un segreto... - mi disse a voce bassa - Vado anche con Ely!”
“Come, scusa?” - chiesi incredula.
“Hai capito bene”.
“Ely, sua sorella che è in seconda? Che ha un anno meno di noi?”
“Si... proprio quella. Ma non guardarmi così. Non farmi pentire di avertelo raccontato”.
“Sei un porco, Erdit, e ti sei cacciato in un bel guaio”.
“Lo so”.
“Bene! E ora? Dimmi, cos’hai intenzione di fare ora? Se Sara lo scopre, sei fritto”.
“Troppo tardi. Mi ha già scoperto...”
Cominciai ad agitarmi.
“E come l’ha scoperto?”
“Ci ha visti. Ti ricordi la vecchia chiesa abbandonata? Ci ha trovati mentre... hum, posso fermarmi qui o devo andare avanti?”
“No no, risparmiami i dettagli dell’amplesso, grazie. Dimmi solo come ha reagito Sara e che intenzioni hai tu ora”.
“Sara cominciò a urlare isterica. A piangere. Mi alzai da Ely e, con mia sorpresa, questa non si vergognava affatto. Anzi era tutta compiaciuta d’aver rubato il fidanzato a sua sorella”.
“E tu? Cos’hai fatto?”
“Lasciai Ely e corsi dietro a Sara. Urlava come una pazza. Gridava e piangeva. Tra le lacrime mi diceva: ‘No. Con tutte lo potevi fare, ma non con Ely.’ Riuscii a raggiungerla e la feci ragionare, dicendole che era stato solo un momento di debolezza. Che era la prima volta che succedeva (anche se non era vero) e altre cose così.”
“Oh Signur! E ora? Dimmi, cosa farai ora?”
“Non lo so, Giò, non lo so... Vorrei chiudere con tutt’e due, ma temo mi ricattino. E immagina il casino che verrebbe fuori. Diventerebbe un caso di Stato”.
“Robe da matti! – esclamai - e io pensavo che l’unico don Giovanni al mondo fosse Klodi.”
Ops, accidenti che non seppi tenere la bocca chiusa. Infatti Erdit cominciò subito a farmi il terzo grado e… e io gli raccontai pure di lui.
Ecco: nessun segreto tra di noi.
“Ti piace?”
“Tanto tanto, ma non ho intenzione di fare la fine di Sara. Anzi, ti devo ringraziare perché mi hai aperto gli occhi... mamma mia come sei cambiato però... non ti riconosco più”.
“Io non c’entro Giò. Fanno tutto loro”.
“Certo caro sono loro che ti costringono a scoparle (ops… questa parola mi è scivolata) a turno... povero Erdit!”
Rise. Per fortuna non se la prese.
“E Alma, Giò? La compagna della nostra classe? Sta facendo carte false per mettersi con me”.
“E suppongo tu non voglia” - gli risposi ironica.
“Certo che no. Non voglio incasinarmi dentro la classe. In classe ho sempre portato rispetto”.
Sospirai scombussolata. Robe da matti, davvero. Non puoi più fidarti di nessuno.
Pensi di conoscere una persona e invece... comunque il rapporto tra noi sembrava rinforzato. Condividere i segreti, fidarsi ciecamente senza sentirsi giudicati, è una gran bella cosa.
In quel momento il cameriere scocciato: “ragazzi prendete altro?”
“No no” - fece Erdit e gli lasciò i soldi dell’ordinazione, compresa una bella mancia.
Uscimmo nell’aria fredda di quel mese di dicembre. Mi abbracciai con le mie braccia per scaldarmi.
“Tieni la mia sciarpa, Giò – disse - sei sempre stata freddolosa”.
Andammo a casa per il pranzo e non parlammo più. Ognuno perso nei propri pensieri. Le uniche parole che si sentivano erano quelle dei nostri genitori.
Nel pomeriggio andarono via. Mi offrii di accompagnarli alla stazione.
Per strada raccontai tutto al mio caro professore di lettere, al mio preside, al papà del mio miglior amico.
Si arrabbiò tantissimo e, dopo lo sfogo contro il professore, mi disse:
“Intanto tu non devi aver paura di lui, ricordatelo. È lui che sbaglia e continua a perseverare nello sbaglio. Comunque, puoi sempre denunciarlo, prima al vostro preside, e poi più in alto. Prima però di farti un nemico a vita, ti consiglierei di parlare con lui a quattrocchi. Gli conviene fare marcia indietro. Rischia il posto”.
Lo ringraziai del consiglio e ritornai a casa. La mia minivacanza era risultata anche migliore del previsto.
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Il collegio (settimo capitolo)racconto sucessivo
Patto con il Tempo
Commenti dei lettori al racconto erotico