Veleno

di
genere
masturbazione

Sono sveglia chissà da quanto ma ancora a letto, scomposta e sola, fisso la luce timida che attraversa le imposte chiuse. Di sicuro la primavera avrà fatto ritorno anche stamattina, il cielo sarà blu come lo squarcio di ieri che ho potuto vedere solo dal balcone e il sole arriverà tiepido nei vicoli deserti e privi della vita che li contraddistingue.
Non mi fa paura il silenzio insolito che mi circonda in questi giorni, anche se non appartiene minimamente al mondo in cui vivo. Tanto prima, prima di ora, prima di questa reclusione forzata, la spasmodica e continua ricerca di tempo da dedicare a me stessa, mi spingeva comunque a fare i conti, sempre e in solitudine, con il mio fottuto tormento.
Solo che erano minuti contati, attimi rubati a una routine stressante, momenti fugaci di una realtà sospesa che tanto bramavo quanto temevo. Ma se poi quei minuti sono diventati ore e ogni attimo eterno, se ogni momento scorre lento ed è infinitamente lungo, io non posso reggere, non trovo pace, mi perdo.
Non mi fa paura il silenzio, io adoro stare sola. Ascoltare le voci di dentro e farmi travolgere dallo smarrimento che mi provocano. Cercare di mettere ordine al mio disordine e trovare il senso nella mia confusione. Ridere di me stessa, dei miei alti bassi, dei sorrisi e dei pianti, dei miei famosi insuccessi. Spostarmi da un lato all’altro del letto, in mutande, a sfiorarmi la pelle e a mandare a puttane la voglia di alzarmi e guardarmi allo specchio. Perché incrociare i miei occhi ora, mentre lavo la faccia, significherebbe ancora leggervi dentro tutto quello che vorrei avere dimenticato almeno per una notte. Allora resto così, stordita dai pensieri che fanno un rumore assordante, nell’attesa vana di non so che cosa. Tanto tu non farai un passo, non muoverai un dito! E io mi sento come se mi mancasse un pezzo, un senso di incompletezza mi pervade. Ascolto una canzone per mettere a tacere tutto quello che mi batte in testa, con gli auricolari, come le ragazzine innamorate che si rivedono in ogni strofa cantata. Dovrei ricordare questa scena ogni volta che mi definisci immatura e mi incazzo sbattendoti in faccia la donna forte che sono. Semmai dovessi parlarmi ancora. Lo sguardo si posa sui piedi nudi e sullo smalto che ieri sera ho messo con molta cura.
Ecco, vorrei che fosse di nuovo sera per chiudermi in bagno e lasciare fuori ogni cosa.
Non mi mette ansia guardarmi intorno e rendermi conto che è tutto davvero fermo. Perché tutto può essere fermo come non lo è mai stato prima, se fermi siamo noi come non lo siamo mai stati prima! È il tempo, il cazzo di tempo che ho a disposizione che mi fotte. È tanto, troppo. È lento, inesorabile, così spietato da lasciare spazio ad ogni sorta di viaggio mentale malato. La mia giornata è fatta di rituali, di cose che ripeto e che mi sembrano uguali. Tutto quello che faccio non mi distrae affatto, per questo aspetto tutto il giorno la fottuta sera! Per sfogare come voglio sfogare, come non potrei fare ora! In bagno, nella vasca, immersa nell’acqua calda ricoperta di schiuma bianca e profumata, come ieri. Ad accarezzarmi il corpo che puntualmente cerco, che sempre tocco, che sfioro, che stringo. A cercarti negli altri, trovandoti a tratti.
Mi siedo sul bordo del letto, il solo ripensare alla mie labbra sui capezzoli e alla lingua sulla pelle bagnata, mi fa fremere. Sposto le mutande, le labbra sono gonfie, umide. Pulsano al ricordo di ieri, delle dita scivolose che ci ho infilato dentro, nell’acqua calda, fino a venire penetrandomi anche il culo.
E mi sento molle anche ora, ora che passo la lingua sulle labbra lasciando scivolare giù, sul petto, la saliva abbondante. E mi sento lasciva anche ora, ora che vorrei dirti mille cose tranne quella che, eccitata, sussurro piano.
“E se ti dicessi che vorrei fosse la tua sborra questa? Ti diventerebbe duro?”
Apro le cosce più che posso e pensando al tuo cazzo mi faccio più avanti. I piedi sono fissi a terra. Abbasso le mutande, accompagnandole giù, fino alle caviglie. Sei nella mia testa, nella mia fottuta testa bacata.
“E se ti dicessi che nulla, niente, nessuno, potrà mai cambiare questo!? Mi crederesti?”
Inizio a toccarmi, le dita si fanno strada, entrano dentro furiose e la mano sbatte sulla carne fradicia. Chiudo gli occhi per sentire il rumore, l’odore della mia fica eccitata mi arriva pungente al naso, se potessi mettertela in bocca, chiudendotela una buona volta, ora troverei la maledetta pace che cerco e non trovo.
Sono bagnata, languida, fuori controllo. Penso al desiderio di compiacerti e al godimento che mi da essere la tua puttana. Ma sono confusa, tu mischi le carte in tavola di continuo e io mi avvicino a soluzioni inesistenti perché forse sono io che ti cerco in ogni uomo per trovarti a modo mio. Sto per godere e la voglia di prenderti qui, così, a cosce aperte, mi avvelena il sangue!
Veleno, si. È quello che mi scorre nelle vene. Ogni volta che scopo e mi giro cercando i tuoi occhi, ogni volta che godo pensando che mi stai guardando. Ogni volta che gemo e il mio gemito è per te. Veleno, si. È il desiderio incessante che mi consuma lentamente. È il mio orgasmo soffocato in questa normalità asfissiante. Veleno sei tu, è la tua faccia, è la tua indifferenza, è il tuo orgasmo. È il piacere che mi neghi e che mi prendo nel piacere di un altro.
Perché io sono una, dieci, cento, mille donne.
Leggera nel corpo e profonda nella mente. Personalità dalle mille sfumature inchiodata al fottuto monocolore del tuo essere bianco o nero.
scritto il
2020-03-19
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