Il bodybuilder sfregiato, la giornalista e l'inchiesta 1/2
di
Familiare
genere
etero
Elisa aveva ventitrè anni e il giornale la pagava un euro ad articolo.
Viveva in un appartamentino di periferia con quattro ragazze, e i genitori le avevano dato sei mesi per ingranare o trovarsi un lavoro vero. Lei ci provava, prendendo i compiti più ingrati e noiosi. Quando il redattore aveva chiesto chi volesse coprire la conferenza stampa della Rexxon, un’azienda chimica, s’era precipitata.
Si era presentata in incognito, più per necessità che per scelta.
Farsi accreditare richiedeva tesserino, liste o almeno una telefonata dalla redazione, ma lei era l’ultimo anello della catena: il direttore probabilmente nemmeno sapeva che esistesse. Castana nei capelli e negli occhi, Elisa indossava un maglioncino nero, camicia bianca e gonna; pareva una delle cameriere addette al catering e nessuno aveva fatto domande. Si era messa in disparte mentre la sala conferenze si riempiva dei soliti completi blu e cravatte business, ma quando era entrato l’ippopotamo le si era fermata la matita a mezz’aria.
Era un bodybuilder, il più grosso che avesse mai visto.
Aveva passato i quaranta, barba sale e pepe, non un solo capello in testa. Aveva occhi neri e penetranti, una mascella scolpita e le spalle che quasi non passavano per le porte. La camicia azzurra gli stava a malapena addosso; le maniche arrotolate al gomito mostravano avambracci giganteschi ricoperti di cicatrici da ustioni. La pelle pareva liquefatta. Gesticolava infervorandosi con gli altri colleghi, che sembravano agitati. Lei si avvicinò con discrezione mentre le ragazze allestivano il buffet e i giornalisti entravano.
«Il B2 non è pronto, e dovremmo dirlo» disse il gigante «Se succede qualcosa ci restano secchi.»
«Cosa vuoi che succeda, Giorgio? Son cisterne vuote» disse quello che sembrava il leader.
«Sto parlando della coibentazione al B2, non delle cisterne.»
«Certo, e quelli al B2 si mettono a lavorare perché gli gira» replicò un altro «I famosi operai volonterosi. Mai visti in trent’anni di lavoro.»
«Sì, ridi su ‘sto cazzo» ruggì il gigante.
Aveva un suo fascino, forse grazie all’abbigliamento da ufficio.
Somigliava a una roccia infilata in una teca di cristallo, pesantezza e fragilità insieme. La carne sciolta delle braccia contrastava con le cuciture linde e precise della camicia. Una cameriera le passò di fianco e le fece l’occhiolino, indicando il gigante con la testa. Erica sbuffò un sorriso di cortesia, cercando di concentrarsi su cosa dicevano.
L’orologio del gigante mandò un cicalino. Lui lo spense e si voltò verso il buffet, incrociando lo sguardo con lei. Alzò le sopracciglia e schiuse le labbra come se avesse visto un alieno. Lei finse di annotare qualcosa, mentre lo percepì farsi largo tra gli altri e raggiungerla: «Ma buongiorno» esclamò con il tono da padrone di casa e tendendo la mano. Lei alzò la testa nel modo più disinteressato possibile: «Sì?»
«Al buffet hai della fesa di tacchino?» domandò, poi: «Già che ci siamo: sapresti dirmi il tuo numero di telefono a memoria?»
Lei socchiuse gli occhi: «Perché dovrei sapere cosa c’è al buffet?»
«Vi tengono all’oscuro fino all’ultimo?»
«Sono una giornalista, non una cameriera.»
Lui tirò indietro la testa come davanti a un serpente: «Scusi.»
«All’improvviso torniamo al lei!» esclamò Elisa «Non vuole più sentire il mio numero di telefono a memoria?»
Giorgio le lanciò l’occhiata del pescatore che vede la lenza spezzata, poi borbottò qualcosa e guadagnò il buffet. Durante la conferenza fu attento a non incrociare più il suo sguardo. Lei si appuntò il nome e il cognome che aveva scritto sulla targhetta davanti a lui e lo osservò. Era ridicolo, a guardarlo. Faceva sembrare quelli attorno dei bambini denutriti. Arrivato il momento delle domande lei alzò la mano: «Volevo fare una domanda al signor Giorgio Fumo.»
L’ippopotamo incassò la testa nelle spalle con uno sguardo torvo: «Dica.»
«Che problema c’è con la coibentazione del B2?»
Giorgio diventò violaceo, gettò un’occhiata al leader, poi scosse la testa: «Niente che non si possa risolvere.»
Tornata a casa lo cercò in Internet, trovando solo un profilo di Facebook che sapeva di aziendale e il suo nome in alcune gare di sollevamento pesi. Cercò i video: erano sempre la stessa cosa in anni diversi; lui in tuta che sollevava un bilanciere urlando come una scimmia. Chiuse con una smorfia.
Il giorno dopo lo vide al telegiornale.
Erano le riprese della conferenza stampa a cui era andata lei, ma erano sovrapposte a immagini di un incendio, con sirene e barelle. Lui ripeteva “niente che non si possa risolvere”. Nei giorni seguenti i responsabili dell’incidente vennero identificati e indagati, ma il volto associato al disastro era quello di Giorgio. La Rexxon rese noto di averlo licenziato “per dare un segnale di cambiamento”.
Elisa si dispiacque.
Lei aveva fatto bene il suo lavoro, ma c’era andato di mezzo un innocente.
Arrivò luglio, l’ultimatum dei genitori sarebbe scaduto a settembre e lei non pensò nemmeno alle vacanze. Si concesse un sabato pomeriggio al mare con le coinquiline, ed era da poco passata l’ora di pranzo quando una di loro alzò la testa e si affrettò a infilarsi gli occhiali da sole: «Ore nove, ragazze, ore nove.»
«Diocristo, ma cos’è?» gemette un’altra «Pare un mostro dei film.»
Elisa vide Giorgio passeggiare a petto nudo e bermuda mimetici. Aveva i deltoidi così gonfi che lo costringevano a camminare muovendo le spalle avanti e indietro come un gorilla. Le cicatrici risalivano fino alle spalle e ai pettorali, in uno spettacolo spaventoso e grottesco. Mentre le altre commentavano a bassa voce, Elisa si diede un’occhiata: aveva un fisico qualunque, non era né grassa né tonica. Indossava un due pezzi vecchio e stinto dalle estati precedenti.
Però era l’unica occasione che aveva.
Scattò in piedi e gli andò incontro. Avvicinandosi le sue emozioni cambiarono, finché una voce nella testa le suggerì di andarsene. Quando lo chiamò, lui non la riconobbe. Appena si tolse gli occhiali da sole, la faccia di Giorgio si deformò in una smorfia di rabbia e disgusto. Elisa pensò che l’avrebbe uccisa lì, prima che qualcuno potesse intervenire.
«Mi dispiace per quello che è successo» balbettò.
Giorgio pareva un cane sul punto di attaccare.
Attorno i bambini correvano, la gente prendeva il sole, qualcuno vendeva teli e la risacca del mare andava e veniva, ma non la facevano sentire sicura. Per fermare quel carrarmato di carne sarebbero servite sei persone o le armi. Si sentì in pericolo come di rado le era capitato. Girò i tacchi e sgambettò verso le amiche, con il terrore che lui la seguisse. Arrivata agli asciugamani venne bombardata di domande e lei disse di avere sbagliato persona.
Giorgio, intanto, se n’era andato.
La sera ballò in un locale del centro, decisa a dimenticarselo. Quando un ragazzo della sua età con gli occhi azzurri e un sorriso assassino le si fece sotto in pista, lei gli diede in fretta quello che voleva. Finirono a limonare sui divanetti, a fare qualcosa di più nel parcheggio e salutarsi all’alba, scambiandosi il numero di telefono. Si chiamava Yuri.
Domenica mattina Instagram le notificò un nuovo follower. Guardò l’account e ci trovò solo foto di paesaggi, palestre vuote e tabelle di numeri. La foto profilo, però, era il testone di Giorgio. Aspettò che le scrivesse qualcosa fino a mercoledì. Al mattino, esasperata, gli mandò un punto di domanda.
Lui nemmeno visualizzò.
Lo rimosse dai followers, andò a farsi una doccia e s’infilò a letto. Chattò con Yuri, arrivarono a mandarsi foto intime e lei pensò di masturbarsi, ma era troppo tardi. Il mattino dopo trovò la chat aperta e la risposta di Giorgio: «Dobbiamo parlare» seguito da un numero di cellulare.
«Non ho niente da dirti» rispose lei.
Giorgio andò offline ed Elisa s’impose di non scrivergli più, ma ogni giorno, con una scusa o con l’altra, controllava per vedere se le aveva scritto qualcosa. Venerdì sera si trovò a procrastinare gli inviti di Yuri o delle amiche. Alle nove si guardò le gambe e decise che quella depilazione non sarebbe andata sprecata. Scrisse a Yuri, lui si presentò in maglietta aderente e jeans sdruciti. La portò in uno di quei pub che partono con l’idea di atmosfera medioevale e finiscono in un paio d’anni a mettere radio 105, appendere bandierine e servire hamburger qualsiasi.
Parlarono di idiozie, bevvero e flirtarono abbastanza perché a lei venisse voglia. Dopo un paio d’ore finirono in camera di lei. Ai preliminari Elisa spense la luce, e mentre Yuri faceva il suo dovere lei provò a immaginare quelle braccia enormi che la stringevano fino a stritolarla. Con sua sorpresa, l’immagine le permise di divertirsi più di quanto sperasse. Yuri se la sbrigò in fretta e lei lo mise alla porta prima che gli venisse in mente di fare un secondo round.
In camera decise che avrebbe finito da sola.
Chiuse gli occhi e pensò a Giorgio, alle spalle che la sovrastavano e a lui che la penetrava. Usò solo le mani, e quando stava arrivando vide che Yuri aveva lasciato fazzoletto e preservativo sul comodino. L'idea la fece sentire sporca e perversa. Si sporcò le dita del primo amante e se le infilò in bocca pensando al secondo. L’orgasmo fu intenso e prolungato ben oltre quanto s’aspettasse. Il senso di colpa svanì nel lavandino con un po' di sapone, e al mattino decise di telefonare a Giorgio. Lui rispose al terzo squillo.
«Sono Elisa N., la giornalista. Cosa vuoi dirmi?»
«Non per telefono. Di persona.»
«Dopo come m’hai guardato in spiaggia? Non credo» disse.
Ci fu un istante di silenzio, con i respiri di lui nella cornetta: «Cosa t’aspettavi, baci e abbracci?»
«Un minimo di civiltà.»
«So che voi giornalisti amate il caffè. Beviamone uno insieme.»
Provò ad a dargli un suggerimento: «Senti, Giorgio, tu mi hai fatto paura.»
«Mica ti ho invitata in un vicolo buio. Scegli un posto dove ti fidi tu, se preferisci.»
Lei voltò gli occhi al cielo: «Tra un paio d’ore al Tropicana.»
Era il bar sotto casa sua, ma aveva bisogno di prepararsi. Impiegò il ragguardevole record di 40 minuti per truccarsi, ma perse oltre un’ora tra armadio e specchio. Quando l’orologio segnò dieci minuti di ritardo scelse un prendisole a righe blu e corse fuori prima di cambiare idea.
Giorgio l’aspettava con una camicia di lino a maniche lunghe e dei pantaloni di un completo grigio. L’abbronzatura e gli occhi neri gli davano un’aria mediorientale. Stava a braccia incrociate sul tavolino tondo, che davanti a lui pareva uno sgabello per bambini. Appena la vide si alzò in piedi. Lei s’impose di non sorridere.
«Andavi in spiaggia?» chiese.
«Dimmi quello che devi dirmi e facciamola finita.»
«I giornali hanno fatto un’inchiesta parziale. La Rexxon mi ha silurato perché aveva paura voi veniste a farmi domande. Secondo il loro cervello a nessuno interessano i rami morti, se c’è già gente appesa. Ma il loro è un sistema. Queste sono le fabbriche fuori norma» disse Giorgio, tirando fuori da una ventiquattrore nera un fascicolo e mettendolo sul tavolo «Ci ho messo dentro fabbriche, nomi dei responsabili – quelli veri, non i prestanome – e la lista di incidenti che avete sempre relegato nei trafiletti.»
Elisa fu felice e delusa allo stesso tempo.
Quello che diceva era oro, ma non era quello che sperava.
«Queste cose saresti disposto a ripeterle in un microfono?» chiese.
«Neanche per sogno. Voi giornalisti siete sciacalli. Non mi fido di voi.»
«Allora vai dalla polizia. Che vuoi da me?»
«Oh, ci sono andato. Ma i magistrati si svegliano solo se voi fate casino.»
«Se vuoi un favore, Giorgio, devi imparare a chiederli» disse lei, tirando indietro la schiena.
«Non chiedo favori, offro ragali. Questo fascicolo domattina va dalla vostra testata concorrente. Hai la possibilità di battere tutte le firme grosse, oppure di bucare la notizia. Scegli tu.»
Era stronzo, ma sapeva il fatto suo.
Quel fascicolo poteva essere il trampolino per la sua carriera come la pietra tombale: se il suo direttore avesse scoperto che lei aveva rifiutato quei documenti, l’avrebbe buttata fuori a calci. Era fregata. Afferrò il fascicolo a denti stretti: «C’è altro?»
Lui tentennò e per un istante la sua impassibilità si incrinò. Abbozzò un sorriso: «Bè, alla fine sono riuscito ad avere il tuo numero di telefono.»
«Bravo» disse lei, poi si alzò senza salutare e filò in redazione.
Era una sede vecchia e trasandata. Moquette marrone per attutire i suoni, pareti di vetro e alluminio, scrivanie anni ’70, computer del secolo scorso e fogli, fogli, fogli dappertutto. Quando il redattore vide il contenuto del fascicolo chiamò il vicedirettore e lui chiamò il direttore, che finito di leggere fissò Erica come se la vedesse per la prima volta. Chiese come ne era venuta in possesso e lei tentò di restare sul vago, finché il redattore intervenne: «Te li ha dati il gigante sfregiato?» domandò «Perché se è così, sono affidabili.»
«Cosa cambia?» chiese il direttore.
«Ho coperto io la sua storia, sei o sette anni fa» disse il redattore «Quella dell’incendio nella palazzina del quartiere est. Ha una motivazione forte.»
Elisa era curiosa, la redazione quasi vuota e il redattore, come tutti i redattori del mondo, davanti al direttore diventava loquace. Raccontò che Giorgio era un addetto alla sicurezza di basso livello, con una moglie e un figlio. La palazzina dove vivevano non era a norma. Dei cavi si erano surriscaldati, c’era stato un incendio e quando lui era arrivato la palazzina era già mezza crollata. I pompieri tardavano per un incidente sulla statale. Giorgio aveva provato a tirare fuori dalle macerie la sua famiglia da solo.
Non c’era riuscito.
I pompieri l’avevano tirato fuori mezzo morto con le braccia in fiamme.
Tornata a casa, Giorgia cercò in rete la storia. Trovò i telegiornali e le interviste. Giorgio appariva con una corporatura normale, i capelli castani e una mascella qualsiasi. Stava disteso in un letto d’ospedale con gli occhi lucidi e le braccia fasciate, raccontava di avere visto sua moglie e suo figlio, ancora vivi, sotto una trave di cemento. S’era strappato tutti i muscoli del corpo per riuscirci, ma era stato inutile.
«Era troppo pesante» ripeteva.
Elisa tornò a guardare i filmati delle sue gare di culturismo. La prima era due anni dopo l’incidente. Ogni anno il suo record aumentava assieme alla sua stazza. Nell’ultimo era il gigante che aveva conosciuto.
Chiuse e si mise al lavoro.
Consegnò l’articolo alle quattro di mattina, e quando l’inchiesta uscì accadde un putiferio. Le telefonarono dalle testate e dalle redazioni nazionali. Passò una settimana in un vortice di interviste ricevendo tre proposte di lavoro, di cui una a Milano. Era talmente euforica da essersi dimenticata di lui, finché in redazione arrivò un mazzo di fiori e un biglietto: «Ottimo lavoro. G.».
Lo chiamò subito. Parlarono degli sviluppi e scherzarono sull’utilità degli sciacalli.
«Comunque, mi sa che ho trovato un lavoro appena in tempo» disse lei «Voglio festeggiare.»
«Fai bene. Che farai?»
«Accetto suggerimenti, bestione» disse, scandendo bene l’ultima parola.
«Potremmo andare a cena.»
Lei spalancò la bocca e lanciò le braccia verso l’alto, esultando in silenzio.
«Sei sicuro? Credevo voi palestrati mangiaste solo pollo» disse.
«Sì, ma anche lo sciacallo non è male.»
Un formicolio le partì dalla schiena e scese in basso. Sentì gli slip bagnarsi ed ebbe la tentazione di istigarlo, ma non glie l’avrebbe resa facile. Oh, no. L’aveva fatta tribolare parecchio, e adesso lei gli avrebbe reso il favore. Era lunedì. L’avrebbe tenuto sulla corda e pungolato durante la settimana, così da farlo arrivare bello carico e affamato. Lei avrebbe avuto tempo di prepararsi e ripassarsi Yuri, prima di defenestrarlo.
«Possiamo fare venerdì sera» disse lei.
Lui acconsentì.
La sera lei gli scrisse qualcosa di malizioso e lui replicò tiepido, ma dopo una mezz’ora l’aveva già caricato a sufficienza. Gli mandò una foto con le labbra a forma di bacio, premurandosi che si intravedesse la scollatura della camicia da notte. Martedì sera fu lui a cercarla. Lei aspettò mezzanotte per visualizzare i messaggi, scusarsi per non averli letti e andare a dormire. Mercoledì pomeriggio aveva così tanta voglia di sesso che rischiò di mandargli un messaggio esplicito.
Invece chiamò Yuri, che fece quel che doveva peggio dell’altra volta, ma a lei importava solo quel regalo prezioso che le lasciava sul comodino, e che le permise di passare una serata con il suo vibratore e mandare a Giorgio solo un “buonanotte”. Giovedì lo passò a fare shopping, provare vestiti e studiare il ristorante dove Giorgio voleva portarla.
Venerdì fu una giornata lunga e straziante.
A mezzogiorno era in ritardo di almeno tre articoli, ma riusciva a pensare solo al sesso con Giorgio. Era bombardata di immagini di amplessi con lui. Si concesse l’ultimo giro con Yuri, e quella volta il ragazzino la scopò meglio delle altre, lasciandola stanca e soddisfatta. Guardò l'orologio. Erano le cinque. Quella sera, pensò, Giorgio sarebbe venuto a prendere una ragazza assolutamente disinteressata al sesso.
Sbagliava.
[continua]
Viveva in un appartamentino di periferia con quattro ragazze, e i genitori le avevano dato sei mesi per ingranare o trovarsi un lavoro vero. Lei ci provava, prendendo i compiti più ingrati e noiosi. Quando il redattore aveva chiesto chi volesse coprire la conferenza stampa della Rexxon, un’azienda chimica, s’era precipitata.
Si era presentata in incognito, più per necessità che per scelta.
Farsi accreditare richiedeva tesserino, liste o almeno una telefonata dalla redazione, ma lei era l’ultimo anello della catena: il direttore probabilmente nemmeno sapeva che esistesse. Castana nei capelli e negli occhi, Elisa indossava un maglioncino nero, camicia bianca e gonna; pareva una delle cameriere addette al catering e nessuno aveva fatto domande. Si era messa in disparte mentre la sala conferenze si riempiva dei soliti completi blu e cravatte business, ma quando era entrato l’ippopotamo le si era fermata la matita a mezz’aria.
Era un bodybuilder, il più grosso che avesse mai visto.
Aveva passato i quaranta, barba sale e pepe, non un solo capello in testa. Aveva occhi neri e penetranti, una mascella scolpita e le spalle che quasi non passavano per le porte. La camicia azzurra gli stava a malapena addosso; le maniche arrotolate al gomito mostravano avambracci giganteschi ricoperti di cicatrici da ustioni. La pelle pareva liquefatta. Gesticolava infervorandosi con gli altri colleghi, che sembravano agitati. Lei si avvicinò con discrezione mentre le ragazze allestivano il buffet e i giornalisti entravano.
«Il B2 non è pronto, e dovremmo dirlo» disse il gigante «Se succede qualcosa ci restano secchi.»
«Cosa vuoi che succeda, Giorgio? Son cisterne vuote» disse quello che sembrava il leader.
«Sto parlando della coibentazione al B2, non delle cisterne.»
«Certo, e quelli al B2 si mettono a lavorare perché gli gira» replicò un altro «I famosi operai volonterosi. Mai visti in trent’anni di lavoro.»
«Sì, ridi su ‘sto cazzo» ruggì il gigante.
Aveva un suo fascino, forse grazie all’abbigliamento da ufficio.
Somigliava a una roccia infilata in una teca di cristallo, pesantezza e fragilità insieme. La carne sciolta delle braccia contrastava con le cuciture linde e precise della camicia. Una cameriera le passò di fianco e le fece l’occhiolino, indicando il gigante con la testa. Erica sbuffò un sorriso di cortesia, cercando di concentrarsi su cosa dicevano.
L’orologio del gigante mandò un cicalino. Lui lo spense e si voltò verso il buffet, incrociando lo sguardo con lei. Alzò le sopracciglia e schiuse le labbra come se avesse visto un alieno. Lei finse di annotare qualcosa, mentre lo percepì farsi largo tra gli altri e raggiungerla: «Ma buongiorno» esclamò con il tono da padrone di casa e tendendo la mano. Lei alzò la testa nel modo più disinteressato possibile: «Sì?»
«Al buffet hai della fesa di tacchino?» domandò, poi: «Già che ci siamo: sapresti dirmi il tuo numero di telefono a memoria?»
Lei socchiuse gli occhi: «Perché dovrei sapere cosa c’è al buffet?»
«Vi tengono all’oscuro fino all’ultimo?»
«Sono una giornalista, non una cameriera.»
Lui tirò indietro la testa come davanti a un serpente: «Scusi.»
«All’improvviso torniamo al lei!» esclamò Elisa «Non vuole più sentire il mio numero di telefono a memoria?»
Giorgio le lanciò l’occhiata del pescatore che vede la lenza spezzata, poi borbottò qualcosa e guadagnò il buffet. Durante la conferenza fu attento a non incrociare più il suo sguardo. Lei si appuntò il nome e il cognome che aveva scritto sulla targhetta davanti a lui e lo osservò. Era ridicolo, a guardarlo. Faceva sembrare quelli attorno dei bambini denutriti. Arrivato il momento delle domande lei alzò la mano: «Volevo fare una domanda al signor Giorgio Fumo.»
L’ippopotamo incassò la testa nelle spalle con uno sguardo torvo: «Dica.»
«Che problema c’è con la coibentazione del B2?»
Giorgio diventò violaceo, gettò un’occhiata al leader, poi scosse la testa: «Niente che non si possa risolvere.»
Tornata a casa lo cercò in Internet, trovando solo un profilo di Facebook che sapeva di aziendale e il suo nome in alcune gare di sollevamento pesi. Cercò i video: erano sempre la stessa cosa in anni diversi; lui in tuta che sollevava un bilanciere urlando come una scimmia. Chiuse con una smorfia.
Il giorno dopo lo vide al telegiornale.
Erano le riprese della conferenza stampa a cui era andata lei, ma erano sovrapposte a immagini di un incendio, con sirene e barelle. Lui ripeteva “niente che non si possa risolvere”. Nei giorni seguenti i responsabili dell’incidente vennero identificati e indagati, ma il volto associato al disastro era quello di Giorgio. La Rexxon rese noto di averlo licenziato “per dare un segnale di cambiamento”.
Elisa si dispiacque.
Lei aveva fatto bene il suo lavoro, ma c’era andato di mezzo un innocente.
Arrivò luglio, l’ultimatum dei genitori sarebbe scaduto a settembre e lei non pensò nemmeno alle vacanze. Si concesse un sabato pomeriggio al mare con le coinquiline, ed era da poco passata l’ora di pranzo quando una di loro alzò la testa e si affrettò a infilarsi gli occhiali da sole: «Ore nove, ragazze, ore nove.»
«Diocristo, ma cos’è?» gemette un’altra «Pare un mostro dei film.»
Elisa vide Giorgio passeggiare a petto nudo e bermuda mimetici. Aveva i deltoidi così gonfi che lo costringevano a camminare muovendo le spalle avanti e indietro come un gorilla. Le cicatrici risalivano fino alle spalle e ai pettorali, in uno spettacolo spaventoso e grottesco. Mentre le altre commentavano a bassa voce, Elisa si diede un’occhiata: aveva un fisico qualunque, non era né grassa né tonica. Indossava un due pezzi vecchio e stinto dalle estati precedenti.
Però era l’unica occasione che aveva.
Scattò in piedi e gli andò incontro. Avvicinandosi le sue emozioni cambiarono, finché una voce nella testa le suggerì di andarsene. Quando lo chiamò, lui non la riconobbe. Appena si tolse gli occhiali da sole, la faccia di Giorgio si deformò in una smorfia di rabbia e disgusto. Elisa pensò che l’avrebbe uccisa lì, prima che qualcuno potesse intervenire.
«Mi dispiace per quello che è successo» balbettò.
Giorgio pareva un cane sul punto di attaccare.
Attorno i bambini correvano, la gente prendeva il sole, qualcuno vendeva teli e la risacca del mare andava e veniva, ma non la facevano sentire sicura. Per fermare quel carrarmato di carne sarebbero servite sei persone o le armi. Si sentì in pericolo come di rado le era capitato. Girò i tacchi e sgambettò verso le amiche, con il terrore che lui la seguisse. Arrivata agli asciugamani venne bombardata di domande e lei disse di avere sbagliato persona.
Giorgio, intanto, se n’era andato.
La sera ballò in un locale del centro, decisa a dimenticarselo. Quando un ragazzo della sua età con gli occhi azzurri e un sorriso assassino le si fece sotto in pista, lei gli diede in fretta quello che voleva. Finirono a limonare sui divanetti, a fare qualcosa di più nel parcheggio e salutarsi all’alba, scambiandosi il numero di telefono. Si chiamava Yuri.
Domenica mattina Instagram le notificò un nuovo follower. Guardò l’account e ci trovò solo foto di paesaggi, palestre vuote e tabelle di numeri. La foto profilo, però, era il testone di Giorgio. Aspettò che le scrivesse qualcosa fino a mercoledì. Al mattino, esasperata, gli mandò un punto di domanda.
Lui nemmeno visualizzò.
Lo rimosse dai followers, andò a farsi una doccia e s’infilò a letto. Chattò con Yuri, arrivarono a mandarsi foto intime e lei pensò di masturbarsi, ma era troppo tardi. Il mattino dopo trovò la chat aperta e la risposta di Giorgio: «Dobbiamo parlare» seguito da un numero di cellulare.
«Non ho niente da dirti» rispose lei.
Giorgio andò offline ed Elisa s’impose di non scrivergli più, ma ogni giorno, con una scusa o con l’altra, controllava per vedere se le aveva scritto qualcosa. Venerdì sera si trovò a procrastinare gli inviti di Yuri o delle amiche. Alle nove si guardò le gambe e decise che quella depilazione non sarebbe andata sprecata. Scrisse a Yuri, lui si presentò in maglietta aderente e jeans sdruciti. La portò in uno di quei pub che partono con l’idea di atmosfera medioevale e finiscono in un paio d’anni a mettere radio 105, appendere bandierine e servire hamburger qualsiasi.
Parlarono di idiozie, bevvero e flirtarono abbastanza perché a lei venisse voglia. Dopo un paio d’ore finirono in camera di lei. Ai preliminari Elisa spense la luce, e mentre Yuri faceva il suo dovere lei provò a immaginare quelle braccia enormi che la stringevano fino a stritolarla. Con sua sorpresa, l’immagine le permise di divertirsi più di quanto sperasse. Yuri se la sbrigò in fretta e lei lo mise alla porta prima che gli venisse in mente di fare un secondo round.
In camera decise che avrebbe finito da sola.
Chiuse gli occhi e pensò a Giorgio, alle spalle che la sovrastavano e a lui che la penetrava. Usò solo le mani, e quando stava arrivando vide che Yuri aveva lasciato fazzoletto e preservativo sul comodino. L'idea la fece sentire sporca e perversa. Si sporcò le dita del primo amante e se le infilò in bocca pensando al secondo. L’orgasmo fu intenso e prolungato ben oltre quanto s’aspettasse. Il senso di colpa svanì nel lavandino con un po' di sapone, e al mattino decise di telefonare a Giorgio. Lui rispose al terzo squillo.
«Sono Elisa N., la giornalista. Cosa vuoi dirmi?»
«Non per telefono. Di persona.»
«Dopo come m’hai guardato in spiaggia? Non credo» disse.
Ci fu un istante di silenzio, con i respiri di lui nella cornetta: «Cosa t’aspettavi, baci e abbracci?»
«Un minimo di civiltà.»
«So che voi giornalisti amate il caffè. Beviamone uno insieme.»
Provò ad a dargli un suggerimento: «Senti, Giorgio, tu mi hai fatto paura.»
«Mica ti ho invitata in un vicolo buio. Scegli un posto dove ti fidi tu, se preferisci.»
Lei voltò gli occhi al cielo: «Tra un paio d’ore al Tropicana.»
Era il bar sotto casa sua, ma aveva bisogno di prepararsi. Impiegò il ragguardevole record di 40 minuti per truccarsi, ma perse oltre un’ora tra armadio e specchio. Quando l’orologio segnò dieci minuti di ritardo scelse un prendisole a righe blu e corse fuori prima di cambiare idea.
Giorgio l’aspettava con una camicia di lino a maniche lunghe e dei pantaloni di un completo grigio. L’abbronzatura e gli occhi neri gli davano un’aria mediorientale. Stava a braccia incrociate sul tavolino tondo, che davanti a lui pareva uno sgabello per bambini. Appena la vide si alzò in piedi. Lei s’impose di non sorridere.
«Andavi in spiaggia?» chiese.
«Dimmi quello che devi dirmi e facciamola finita.»
«I giornali hanno fatto un’inchiesta parziale. La Rexxon mi ha silurato perché aveva paura voi veniste a farmi domande. Secondo il loro cervello a nessuno interessano i rami morti, se c’è già gente appesa. Ma il loro è un sistema. Queste sono le fabbriche fuori norma» disse Giorgio, tirando fuori da una ventiquattrore nera un fascicolo e mettendolo sul tavolo «Ci ho messo dentro fabbriche, nomi dei responsabili – quelli veri, non i prestanome – e la lista di incidenti che avete sempre relegato nei trafiletti.»
Elisa fu felice e delusa allo stesso tempo.
Quello che diceva era oro, ma non era quello che sperava.
«Queste cose saresti disposto a ripeterle in un microfono?» chiese.
«Neanche per sogno. Voi giornalisti siete sciacalli. Non mi fido di voi.»
«Allora vai dalla polizia. Che vuoi da me?»
«Oh, ci sono andato. Ma i magistrati si svegliano solo se voi fate casino.»
«Se vuoi un favore, Giorgio, devi imparare a chiederli» disse lei, tirando indietro la schiena.
«Non chiedo favori, offro ragali. Questo fascicolo domattina va dalla vostra testata concorrente. Hai la possibilità di battere tutte le firme grosse, oppure di bucare la notizia. Scegli tu.»
Era stronzo, ma sapeva il fatto suo.
Quel fascicolo poteva essere il trampolino per la sua carriera come la pietra tombale: se il suo direttore avesse scoperto che lei aveva rifiutato quei documenti, l’avrebbe buttata fuori a calci. Era fregata. Afferrò il fascicolo a denti stretti: «C’è altro?»
Lui tentennò e per un istante la sua impassibilità si incrinò. Abbozzò un sorriso: «Bè, alla fine sono riuscito ad avere il tuo numero di telefono.»
«Bravo» disse lei, poi si alzò senza salutare e filò in redazione.
Era una sede vecchia e trasandata. Moquette marrone per attutire i suoni, pareti di vetro e alluminio, scrivanie anni ’70, computer del secolo scorso e fogli, fogli, fogli dappertutto. Quando il redattore vide il contenuto del fascicolo chiamò il vicedirettore e lui chiamò il direttore, che finito di leggere fissò Erica come se la vedesse per la prima volta. Chiese come ne era venuta in possesso e lei tentò di restare sul vago, finché il redattore intervenne: «Te li ha dati il gigante sfregiato?» domandò «Perché se è così, sono affidabili.»
«Cosa cambia?» chiese il direttore.
«Ho coperto io la sua storia, sei o sette anni fa» disse il redattore «Quella dell’incendio nella palazzina del quartiere est. Ha una motivazione forte.»
Elisa era curiosa, la redazione quasi vuota e il redattore, come tutti i redattori del mondo, davanti al direttore diventava loquace. Raccontò che Giorgio era un addetto alla sicurezza di basso livello, con una moglie e un figlio. La palazzina dove vivevano non era a norma. Dei cavi si erano surriscaldati, c’era stato un incendio e quando lui era arrivato la palazzina era già mezza crollata. I pompieri tardavano per un incidente sulla statale. Giorgio aveva provato a tirare fuori dalle macerie la sua famiglia da solo.
Non c’era riuscito.
I pompieri l’avevano tirato fuori mezzo morto con le braccia in fiamme.
Tornata a casa, Giorgia cercò in rete la storia. Trovò i telegiornali e le interviste. Giorgio appariva con una corporatura normale, i capelli castani e una mascella qualsiasi. Stava disteso in un letto d’ospedale con gli occhi lucidi e le braccia fasciate, raccontava di avere visto sua moglie e suo figlio, ancora vivi, sotto una trave di cemento. S’era strappato tutti i muscoli del corpo per riuscirci, ma era stato inutile.
«Era troppo pesante» ripeteva.
Elisa tornò a guardare i filmati delle sue gare di culturismo. La prima era due anni dopo l’incidente. Ogni anno il suo record aumentava assieme alla sua stazza. Nell’ultimo era il gigante che aveva conosciuto.
Chiuse e si mise al lavoro.
Consegnò l’articolo alle quattro di mattina, e quando l’inchiesta uscì accadde un putiferio. Le telefonarono dalle testate e dalle redazioni nazionali. Passò una settimana in un vortice di interviste ricevendo tre proposte di lavoro, di cui una a Milano. Era talmente euforica da essersi dimenticata di lui, finché in redazione arrivò un mazzo di fiori e un biglietto: «Ottimo lavoro. G.».
Lo chiamò subito. Parlarono degli sviluppi e scherzarono sull’utilità degli sciacalli.
«Comunque, mi sa che ho trovato un lavoro appena in tempo» disse lei «Voglio festeggiare.»
«Fai bene. Che farai?»
«Accetto suggerimenti, bestione» disse, scandendo bene l’ultima parola.
«Potremmo andare a cena.»
Lei spalancò la bocca e lanciò le braccia verso l’alto, esultando in silenzio.
«Sei sicuro? Credevo voi palestrati mangiaste solo pollo» disse.
«Sì, ma anche lo sciacallo non è male.»
Un formicolio le partì dalla schiena e scese in basso. Sentì gli slip bagnarsi ed ebbe la tentazione di istigarlo, ma non glie l’avrebbe resa facile. Oh, no. L’aveva fatta tribolare parecchio, e adesso lei gli avrebbe reso il favore. Era lunedì. L’avrebbe tenuto sulla corda e pungolato durante la settimana, così da farlo arrivare bello carico e affamato. Lei avrebbe avuto tempo di prepararsi e ripassarsi Yuri, prima di defenestrarlo.
«Possiamo fare venerdì sera» disse lei.
Lui acconsentì.
La sera lei gli scrisse qualcosa di malizioso e lui replicò tiepido, ma dopo una mezz’ora l’aveva già caricato a sufficienza. Gli mandò una foto con le labbra a forma di bacio, premurandosi che si intravedesse la scollatura della camicia da notte. Martedì sera fu lui a cercarla. Lei aspettò mezzanotte per visualizzare i messaggi, scusarsi per non averli letti e andare a dormire. Mercoledì pomeriggio aveva così tanta voglia di sesso che rischiò di mandargli un messaggio esplicito.
Invece chiamò Yuri, che fece quel che doveva peggio dell’altra volta, ma a lei importava solo quel regalo prezioso che le lasciava sul comodino, e che le permise di passare una serata con il suo vibratore e mandare a Giorgio solo un “buonanotte”. Giovedì lo passò a fare shopping, provare vestiti e studiare il ristorante dove Giorgio voleva portarla.
Venerdì fu una giornata lunga e straziante.
A mezzogiorno era in ritardo di almeno tre articoli, ma riusciva a pensare solo al sesso con Giorgio. Era bombardata di immagini di amplessi con lui. Si concesse l’ultimo giro con Yuri, e quella volta il ragazzino la scopò meglio delle altre, lasciandola stanca e soddisfatta. Guardò l'orologio. Erano le cinque. Quella sera, pensò, Giorgio sarebbe venuto a prendere una ragazza assolutamente disinteressata al sesso.
Sbagliava.
[continua]
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
(Venezia) L'ultima notte prima di diventare grandiracconto sucessivo
Il bodybuilder sfregiato, la giornalista e l'inchiesta 2/2
Commenti dei lettori al racconto erotico