(Grosseto) Le cicale della maremma e una vecchia contessa

di
genere
sentimentali

Sono vestito da pinguino e sto ballando con una ragazza che trema come una foglia, ma perché possiate capire come mai e perché, bisogna tornare a qualche ora prima, in cui stavo davanti alla villa in rovina con la camicia di lino fradicia di sudore.

Quella che avevamo davanti doveva essere stata una casa padronale stupenda, nei primi del ‘900. Aveva metà tetto crollato nell’ala est e quello a ovest non stava meglio. Nella parte centrale era stato restaurato; aveva tegole nuove e pannelli solari. Nel giardino le foglie secche avevano ricoperto la ghiaia, le siepi nelle aiuole erano state seccate dall’edera e il sole si rifletteva sui muri scrostati tanto da farmi a tenere gli occhi socchiusi.

Da almeno un paio di chilometri, l’unico suono che sentivamo dai finestrini erano le cicale.

Di fianco a me c’era Paola, che si portava i trent’anni come quel vestito verde che indossava, simpatia e speranza su scarpe da ginnastica nuove e una borsetta a fiori. Aveva le spalle larghe, che assieme alla sua taglia 42 le davano una forma ad anfora greca, aggraziata e sensuale. Aveva i tratti mediorientali della nonna, e sorrideva come se nessuno le avesse mai spezzato il cuore.

«Contessa Zordi!» avevo urlato.

Paola aveva tirato di nuovo la maniglia arrugginita di fianco al cancello. Stavolta la catenella era crollata a terra assieme a due ragni e un pugno di foglie. Si era voltata a guardarmi a labbra serrate, poi aveva tirato fuori il cellulare. L’aveva alzato al cielo girando su se stessa, rito pagano di supplica al dio della ricezione.

Niente da fare.

C’erano quaranta gradi, eravamo al sole, sentivo le gocce di sudore colarmi sotto la camicia ed ero tentato di tornare nel fresco abbraccio dell’aria condizionata in macchina. Stavo per proporlo quando dal retro della villa era spuntato un donnone in occhiali da sole, vestito bianco a fiori e cappello di paglia a tesa larga. Agitava la mano con in mano una forbice da giardino.

«Sono qui» aveva gracchiato «Giovanotti! Sono qui!»

«”Giovanotti”» avevo ripetuto sottovoce.
«C’hai quarant’anni, che ti doveva dire?»
«È una contessa. “Signori” andava bene.»
Paola aveva guardato alle mie spalle: «Non vedo la vostra carrozza, gentil signore.»

La vecchia era arrivata prima che io replicassi. Sorrideva e ansimava, arrancando sotto il sole con in mano una tenaglia e un cestino. Sciabattava più in fretta che poteva, ma aveva un bel po’ di cene di natale addosso. Ci aveva aperto il cancello e avevamo attraversato la ghiaia in silenzio, schiacciati dal sole e dal ronzare delle cicale. La vernice bianca della porta d’ingresso era così vecchia da polverizzarsi al tocco.

Eravamo entrati in un salone con le imposte chiuse, da cui filtravano tenui delle lame di luce. Nella penombra vedevo sagome di mobili e divani coperti da vecchie lenzuola o strati di cellophane. Il soffitto era alto almeno cinque metri, l’aria odorava di cenere e il fresco era un sollievo.

«Vi posso offrire dell’acqua o del kefir fresco» aveva detto la contessa, sciabattando attraverso la sala «È latte fermentato, una tradizione della nostra famiglia. In Russia lo bevono ancora.»

Avevamo optato per l’acqua.

La vecchia era sparita e tornata con due bicchieri sottili come velo di cipolla e resi opachi dall’usura. Era rimasta a squadrarci mentre bevevamo: «Siete proprio belli» aveva sorriso, poi aveva preso una cornice d’argento ossidata e ce l’aveva mostrata: «Questa ero io da giovane. Visto come somigliavo alla signorina?»

In realtà non molto.

La vecchia aveva capelli neri, occhi azzurri e lineamenti dell’est. L’italiano lo parlava una meraviglia, però. Ciaccolava come un anfitrione professionista. Aveva chiesto da dove venivamo, quanti anni avevamo e se eravamo fidanzati.

«Solo colleghi» aveva risposto Paola.
Ed era vero.

Dopo altre ciaccole ci aveva preso i bicchieri di mano e indicato una porta, dicendo che lì era quello che ci interessava. Aveva aperto un doppio portone con minuscole maniglie d’ottone, rivelando una stanza con un caminetto centrale di marmo, pareti rosa antico e divanetti del primo ottocento in seta, sempre rosa. C’era un pianoforte a coda coperto da un telo, applique mezze storte con lampadine bruciate e gli abatjour anneriti dal fumo, un paio di specchi ammalorati in foglia d’oro e un mobiletto dell’800.

Sopra il caminetto c’era lui.

All’improvviso avevo freddo, e avevo sentito Paola trattenere il fiato. Avevo acceso la torcia del cellulare e mi ero avvicinato al quadro. Era molto meglio che in foto. In basso, la firma era quasi illeggibile. Mentre osservavo, la contessa aveva frugato nel mobiletto e tirato fuori una busta di plastica con un foglio ingiallito, scritto in calligrafia elegante e sbrigativa.

Era in francese e non la capivo.
La firma e la data invece sì.

Tenevo quella busta tra le mani mentre la vecchia spiegava che il uo bisnonno, aristocratico russo, era scappato da San Pietroburgo nel 1902, appena saputo della costituzione del partito bolscevico. Era andato in Francia e aveva fatto amicizia con un pittore che gli aveva regalato il quadro.

«È rimasto con la nostra famiglia da quella volta, solo che io non ho né figli né nipoti, e mio marito Ulderico è mancato» aveva spiegato la contessa «Quindi sto dando via tutto quello che me lo ricorda.»

Mi ero voltato verso Paola.
Lei teneva il foglio in mano come imbambolata, e aveva ragione.

Quello che avevamo davanti non rappresentava solo un patrimonio economico; non rappresentava solo un pezzo di storia; rappresentava il resto della nostra vita. Venduto quello, né io né lei avremmo mai più avuto bisogno di lavorare. Perché la dedica in francese era datata 14 luglio 1903, e recitava “al mio amico esule, con l’augurio di tanta fortuna, dal suo amico Paul Cézanne”.

Avevo tirato fuori il portafogli ed estratto le banconote: «Guardi, il quadro è carino. Le posso offrire trecento euro.»



Oh, non fate quella faccia.

Io non ho alle spalle il doppio cognome e patrimoni immobiliari. Mio padre vi portava via l’immondizia alle tre della mattina appeso a un camion. Puzzava come una discarica, dormiva di giorno, viveva in un buco in periferia tanto piccolo che per scoparsi mia madre doveva mandarmi fuori a giocare tra tossici e puttane. La carne la mangiavo solo la domenica, il resto era pasta coi sughi pronti e scatolette di tonno.

Ancora oggi non riesco a sentirne l’odore, e sono passati trent’anni.

È stato il mio vecchio a insegnarmi che la gente butta via tesori. Negli anni ’80 erano tutti ricchi, sapete. I peggiori idioti e i contadini, colti e ignoranti, tutti avevano ville, macchine, donne in pelliccia, porcellane bavaresi e calici col bordo d’oro. Noi a casa avevamo i bicchieri della Nutella e lavavamo i piatti del pranzo per usarli a cena.

A vent’anni rubavo negli appartamenti.
A trenta mi sono fatto due anni per ricettazione in carcere a Trieste. Siccome non lo sapete, ve lo dico io: ha le finestre con le sbarre che danno su via del Coroneo. Mi hanno tolto due anni della mia vita facendomi guardare questa gente qui che beveva l’aperitivo con donne in chiffon e l’auto sportiva. Quindi non cercate compassione nelle mie tasche, non ne ho nemmeno per me.


Paola era un’altra storia.


Cinque anni fa era una laureata all’accademia di belle arti che cercava un lavoro. Non l’aveva mai trovato. Sapete chi è che dice che l’Italia “è la terra dell’arte e del bello”? I figli della borghesia che non avranno mai bisogno di aprire un giornale di annunci. Paola lavava scale, puliva uffici, faceva la babysitter, persino la dogsitter. Era lesbica, e quindi aveva poca moneta di scambio con il mondo del lavoro.

M’era finita in bottega che pesava come un pettirosso.

Mi aveva chiesto se poteva fare un lavoro, uno qualsiasi, perché siccome ormai era mezza anoressica, nei bar non la prendevano perché faceva tristezza e le famiglie non la volevano perché avevano paura. A me serviva, una che ci capiva d’arte. Le davo 1200 euro al mese. Lei mi aiutava a svuotare cantine, caricare furgoni e fare le pulizie. Quando giravamo per mercatini o avevamo un momento libero mi insegnava e spiegava le correnti artistiche e quelle balle là.

Non ci avevo mai provato con lei, né m’interessava. Eravamo due predatori di specie diverse che cacciavano insieme. Quando avevo detto alla contessa “trecento euro” lei non aveva battuto ciglio né guardato altrove.

«Ma io non voglio soldi» aveva detto la contessa, torcendosi le mani imbarazzata «Quando sono venuta nel vostro negozio non ho detto la cifra apposta.»


Era vero.

Aveva messo la testa dentro, era entrata, ci aveva squadrati con attenzione e mostrato le foto del quadro, chiedendoci di andare a visionarlo di persona. Appena Paola aveva visto la firma, figuratevi.

«Non capisco» avevo detto.

La contessa era rimasta zitta, poi mi aveva chiesto se la lasciavo sola con Paola. Avevo obbedito ed ero uscito, avevo attraversato il salone e m’ero messo sulla porta a fumare una sigaretta. Ero arrivato a metà della seconda, quando Paola mi aveva messo una mano sulla spalla. Si era seduta di fianco a me sui gradini, la faccia giallognola e i pugni chiusi.

«Allora?» avevo chiesto.
«Vuole farci fare... cose. Cose nudi.»

M’era caduta la sigaretta di mano. Lei l’aveva raccolta e aveva fatto una lunga boccata, trattenendo il fumo ed espirando piano. Non le avevo chiesto se scherzava. Non serviva. Non potevamo nemmeno prenderci del tempo per pensarci, nemmeno un giorno o una notte. Poteva succedere di tutto. Ladri, compratori, infarti, ripensamenti, non puoi mai sapere.


Avevo chiesto i dettagli.
Avevamo discusso pro e contro.
Avevamo deciso e cambiato idea, mentre i mozziconi di sigarette aumentavano e il sole scendeva. Verso le sette avevamo sentito il suono della porcellana. La contessa aveva deposto alle nostre spalle, sui gradini del portone, un vassoio d’argento. Sopra c’erano due sandwitch tagliati a metà, una caraffa d’acqua e due calici con il bordo dorato.
Si era affrettata a voltarsi e sparire all’interno.

Non avevamo ringraziato.

Eravamo rimasti seduti lì, sulle gradinate, a mangiare e bere in silenzio, guardando la luce del tramonto allungare le ombre degli alberi secchi. La verità è che avevamo già deciso. Nessuno si lascia alle spalle un Cèzanne, men che meno due come noi. Stavamo solo cercando il coraggio di dircelo. Era quella la parte difficile. Eravamo due cani randagi senza amici né fidanzate che annusavano la spazzatura del mondo. A guidare a turno di notte, a contarsi scheggie e calli, a fregare gli altri predatori, a brindare con le Moretti su un’edizione del De Bello gallico del 1783. Sempre e solo noi.

«Andiamo» avevo detto.
Né io né lei ci eravamo alzati.

«Promettimi» aveva detto, afferrandomi la mano «Prometti che tra noi non cambierà niente. Saremo ancora una squadra.»

Le avevo mentito guardandola negli occhi. Lei aveva fatto finta di credermi allo stesso modo. Poi eravamo entrati in casa, trovando la vecchia sul cellophane del divano con un bicchiere di vino e una candela accesa. Aveva l’aria assente e avevo dovuto fare un colpo di tosse perché si voltasse. Ci aveva squadrati, poi l’avevamo seguita su per una scalinata di graniglia. C’era un disimpegno con il parquet a spina di pesce rovinato, e lampadine a basso consumo che penzolavano dal soffitto.

Aveva girato la chiave di una porta.
Era una stanza arredata interamente anni ‘50, con alcuni mobili di design.

A differenza del resto della casa, era ben tenuta e non c’erano teli né cellophane. Il letto era fatto, le lenzuola di lino ricamato erano fresche, e c’era un copriletto dorato. Ci eravamo fermati d’istinto sulla soglia, mentre la contessa apriva un armadio e ne tirava fuori un frac e un vestito da cocktail blu, con la vita stretta, la gonna ampia, le maniche a sbuffo e il colletto.

Li aveva appoggiati sul letto e se n’era uscita.

Io e Paola eravamo andati ognuno nell’angolo opposto della stanza, ci eravamo spogliati e li avevamo indossati. C’era puzza di naftalina e polvere. Mi stava tutto alla perfezione, come cucito addosso. Avevo provato tre volte a chiudermi il papillon bianco, poi m’ero girato per chiedere aiuto. Paola era nel vestito, pallida come un fantasma. Mi aveva aiutato senza parlare. La contessa era entrata, ci aveva guardati e le era spuntato un sorriso. Aveva spento il lampadario al centro e acceso gli abat jour sui comodini. Ci era girata attorno come una stilista, mi aveva sistemato il colletto e corretto la postura.

Era andata a sedersi in fondo alla stanza, su una poltroncina di velluto azzurro. C’era uno stereo con un mangiacassette. Aveva premuto e nell’aria erano risuonate le note di Earth angel dei Platters.

«Ballate» aveva detto.

Io mi ero voltato verso Paola. Lei aveva fatto un microscopico accenno con la testa. Le avevo cinto i fianchi, spostando il peso da una parte all’altra, duri e legnosi come manichini. Lei mi teneva la guancia contro il petto e tremava. Le avevo sussurrato Cèzanne, ed ecco da dove è iniziata questa storia: da me che cerco di depersonalizzare questa situazione.

«Baciala» dice la contessa.

Paola mi viene incontro. Le labbra si schiudono e le nostre lingue si trovano. Non c’è parte del mio corpo che voglia farlo. Vorrei staccarmi, caricarmela in braccio e portarla via. Ci baciamo come gli adolescenti baciano il cuscino per fare le prove.

«Portala sul letto.»

Accompagno Paola sul letto e la distendo. Lei mi fissa con un’attenzione maniacale.

«Spogliatevi.»

È la parte più facile. Mentre dai Platters siamo passati alle McGuire sisters con Sincerely, ci troviamo nudi come mamma ci ha fatti. Il mio è un uccello qualunque, ma in quel momento ha le stesse dimensioni di una falange. Giuro. Mai visto niente del genere, nemmeno col freddo peggiore. È come se stesse cercando di rientrarmi dentro.

«Adesso fate l’amore.»

Una parola. Io e Paola ci avviciniamo. Lei mi prende l’uccello in mano e comincia a muoverlo avanti e indietro, ma quello non accenna a dare segni di vita. Cerco di toccare lei, ed è come cercare d’infilare un dito tra gli stipiti di una porta. Stessa umidità, stessa apertura. Arriviamo alla fine di Come and go with me dei Del Vikings senza che succeda niente. Paola si stacca di colpo e tira una manata sul copriletto.

«Cosa c’è?» fa la contessa.
«Ma ti sembra...» dice Paola, poi si blocca e fa un lungo respiro. Si volta a fissarmi, poi mi accosta la bocca all’orecchio e riporta la mano sull’uccello: «Raccontami» sussurra «Dimmi cosa farai quando venderemo quel quadro.»

Non ho niente da perdere. Chiudo gli occhi, e con la mano tra le sue gambe inizio a raccontarle dei viaggi, della casa che avrò, quello che mangerò, perdendomi nei minimi dettagli. Le racconto dello yacht che avrò ormeggiato a Barcola. Come sarà fatto all’interno. Jerry Vale canta You don’t know me quando trovo le mie dita bagnate di Paola, e mi accorgo che mi sta masturbando il cazzo in piena erezione.

La stendo sul letto e mi sistemo tra le sue gambe.

«Avrà anche l’idromassaggio?» mi domanda, e le vedo in faccia che ha voglia anche lei.
«E i divanetti bianchi attorno con le ceste di frutta e i portaceneri di cristallo» le dico.
«Entra» mi sussurra, stringendomi il collo «Non abbiamo paura di niente. Non possono farci niente. Vaffanculo tutti, Rob.»
«Vaffanculo tutti, Pao» ripeto, e le entro dentro il più dolcemente possibile. La sento percorsa da una scossa elettrica, poi rilassarsi e tenermi gli occhi puntati contro, mentre mi muovo prima piano, poi più in fretta, e capisco di essere innamorato di lei.
«Fermi» dice la contessa.

Io mi blocco dentro Paola. Sento un movimento alla mia destra. La vecchia è completamente nuda, di fianco al letto.

«Tu vai via» dice a Paola. Lei è svelta a tirarsi via e appoggiarsi contro la testiera del letto, gli occhi di nuovo allarmati. La vecchia si sistema sotto di me. Con la mano mi cerca e lo stringe così forte da farmi male, poi mi mette le mani sul culo e mi spinge dentro. È bagnata da pazzi. Muove il bacino e mi stringe con più forza di quanto credevo possibile.

Mi scava con le dita paffute nella carne, lecca e morde schiacciandomi contro di lei, appoggiandomi l’orecchio e i capelli grigiastri contro il cuore, tirandomi a sè come se dovesse mangiarmi. I rotoli di ciccia mi spingono via. L’odore di sudore e di vecchia è terrificante, devo respirare dal naso. Tengo gli occhi fissi su Paola appoggiata alla testiera del letto, nuda, le gambe strette, la mano a tapparsi la bocca e gli occhi sbarrati come chi assiste a un omicidio.

«Ti amo, Umberto» dice la vecchia, stringendomi quasi fino a farmi male «Ti amo tanto.»

A quella frase, Paola si volta, come se avesse visto qualcosa di osceno. Sento l’uccello ammosciarsi e mi sale il panico che forse una qualunque donna non avrebbe visto, ma Paola sì. Mentre lo sento spegnersi la vedo aprire le gambe e stringersi le tette: “Guarda me”, sillaba con le labbra. Poi si portata le dita attorno alla fica e me la schiude davanti. Pat Boone canta April love, la contessa mi stringe e piange, io riesco a recuperare senza che s’accorga di niente, finché la sento gridarmi contro il petto.

«Dammi un figlio» piagnucola la vecchia «Dammi un bambino, Umberto, dammelo.»

Alzo gli occhi su Paola. Ha gli occhi gonfi di lacrime e la mano premuta contro la bocca. Mi concentro sulle sue tette e ci metto tutta la forza che posso. Sovraccarico il cervello di Paola, di soldi, di pornostar, di argenti, di lusso, di spiagge, donne in topless. Ho l’orgasmo più doloroso della mia vita che mi strappa un gemito. Resto a riprendere fiato dentro la vecchia, che continua a stringermi e a baciarmi il petto.

Paola scatta giù dal letto a prendere il suo vestito verde. Io mi divincolo e faccio lo stesso. La contessa è rannicchiata sul letto come una bambina, una montagna di grasso che singhiozzando fa sussultare il letto. Corriamo giù dalle scale senza voltarci. La vecchia grida qualcosa, ma la ignoriamo. Afferriamo il quadro e la dedica, spalanchiamo la porta e finiamo nella notte. Sentiamo i nostri passi nella ghiaia fino al cancello. Lo tiro con tutta la forza che ho. Si apre di una fessura e scivoliamo via. La macchina è la cosa più bella che io abbia mai visto.

Infilo le chiavi e partiamo.
scritto il
2021-05-27
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