(Padova) La signora per bene che odiava gli uomini
di
Familiare
genere
masturbazione
Milena, da giovane, aveva avuto la fortuna di essere bellissima. Capelli rossi, occhi nocciola, longilinea, seno prosperoso, era una delle belle della scuola che tutti volevano.
Sua madre, casalinga, era stata lasciata dal marito per un’avvocatessa. Da allora Milena era stata istruita a non sposare un mediocre. Secondo la madre, avrebbe dovuto mantenere una reputazione rispettabile e impeccabile, così da sposare qualcuno in grado di darle una posizione di prestigio, e riscattare la madre.
Milena aveva fatto qualche tentativo con figli di papà presentati per conoscenze, e uno di questi l’aveva sverginata in fretta e male, mandando la mamma su tutte le furie. Per sua madre i pretendenti non erano mai abbastanza belli, stimati, ricchi o posizionati. A venticinque anni era arrivato Marco.
Buona famiglia, brillante, un metro e novantadue, appena uscito dall’università e futuro medico. Per tre settimane l’aveva corteggiata con fiori, uscite, cene, senza ottenere un bacio né una telefonata. Proprio quando secondo la madre era il momento di cedere, Marco aveva smesso di cercarla.
Lei gli aveva scritto messaggi dove faceva intuire che se si fosse degnato di calciare la palla avrebbe fatto goal, ma lui aveva nicchiato, scivolandole via dalle mani per finire tra le gambe di Federica Pasqualetto, una biondina che aveva già conosciuto gli uccelli di molti concittadini. Quando Milena l’aveva saputo, aveva scritto a Marco rovesciando su lui e lei epiteti irripetibili, poi li aveva seppelliti nel cassetto dei calzini spaiati ed era tornata alla sua vita.
Assieme alle amiche andava nei locali più esclusivi, nelle discoteche più blasonate, quelle che si diceva fossero frequentati dalle personalità dello spettacolo. Guardava le sue amiche regalarsi a destra e a manca, ma la madre la consolava ricordandole come sarebbero finite loro e come sarebbe finita lei.
Quando Milena aveva compiuto trent’anni non aveva più amiche da chiamare.
Erano sparite una dopo l’altra; alcune a vivere con l’amante senza sposarlo, altre con dei figli, altre trasferite nelle metropoli. Aveva chiamato Marco, decisa a chiedere scusa per quello che gli aveva detto anni prima e sperando di riallacciare i rapporti. Lui le aveva detto che non c’era problema: «E poi quello che avevi detto su me e mia moglie era vero, eh» aveva riso «Per quello la amo.»
A 34 anni, Sabrina aveva visto il mondo cambiare.
Gli alberghi accoglievano le coppie in day use senza problemi, i club privée spuntavano come funghi alla luce del sole, in televisione donne di cinquant’anni si presentavano con toyboy di venti, ragazzine seminude passavano da Instagram a Novella 3000, dive del porno venivano chiamate in TV come opinioniste, transessuali e lesbiche giravano seminudi per strada e venivano applauditi, filmati amatoriali di attrici hollywoodiane venivano diffusi senza intaccarne carriera né stima; giornalisti e intellettuali parlavano di coppie aperte, poliamore, scambi.
Nelle capitali europee e d’oltreoceano parole come compromettersi, rispettabilità, reputazione venivano usate solo in modo ironico, scatenando risate. Tra l’alta borghesia, le orge erano tornate a essere occasioni mondane, dove ci si conosceva e si facevano affari. Sua madre era morta quell’anno, seduta davanti al televisore mentre insultava una soubrette. Al funerale, il prete aveva precisato quanto in vita fosse stata una donna rispettabile.
Il mese dopo, il prete era stato trasferito perché si scopava le mogli del paese.
Milena aveva vinto un concorso e s’era messa a insegnare storia dell’arte in un liceo, ed era stato il colpo di grazia. C’era un ragazzino mulatto, Makram, dal fisico asciutto e i muscoli in vista, che si comportava come il padrone di casa. Era attorniato da ragazzine con minishorts più simili a mutande di jeans, che nei corridoi sussurravano sulle sue dimensioni, cosa ci avevano fatto e cosa avrebbero fatto alla prossima festa.
Quando alla ricreazione aveva visto Makram limonare due di quelle ninfette di fila, a Milena era salito il fuoco dentro. Era scesa, aveva fatto una sfuriata e preso in disparte le ragazze, spiegando che non dovevano comportarsi in quel modo: «State prendendo una strada che non sapete dove porta».
«A letto?» le aveva risposto una, e l’altra era scoppiata a ridere.
Milena le aveva tirato un ceffone.
Il giorno dopo la preside le aveva fatto una lavata di capo. I genitori s’erano presentati sul piede di guerra e lei avrebbe dovuto scusarsi, cosa che Milena aveva fatto di corsa. Ringraziando Dio, i giornali erano troppo impegnati a trovare foto e raccontare i dettagli piccanti dell’ennesimo scandalo di baby escort.
«... e poi Cristo, Milena» aveva detto la preside «ormai il mondo è così, cosa vuoi farci?»
Milena aveva fatto una guerra selvaggia a Makram.
Alle interrogazioni lo massacrava di domande complesse ed era riuscita ad affondargli i voti, convinta che una bocciatura gli avrebbe abbassato la cresta e screditato agli occhi delle ragazzine. Ma nelle altre materie Makram se la cavava; storia dell’arte era l’unica materia in cui risultava gravemente insufficiente, e in un liceo scientifico era poca cosa. L’ultima umiliazione fu proprio in consiglio docenti, dov’era stato messo in discussione l’accanimento di Milena invece dei voti di Makram.
A quarantadue anni Milena aveva i capelli tinti male color carota, quattro taglie di troppo infilate a fatica dentro jeans fuori moda e un seno che obbediva alla spietata forza di gravità. Viveva in una casetta in periferia con un giardino trascurato. Nella biografia di Tinder aveva spiegato che tipo d’uomo e che tipo di relazione voleva, specificando di credere nei valori di una volta.
«Voglio innamorarmi», diceva.
Ma gli uomini che sceglieva non erano interessati, e quelli interessati erano ben diversi da quelli che sceglieva. Aveva provato ad accontentarsi, ma che lei si concedesse o meno la prima sera, quelli sparivano. Erano serate penose, in cui seduta in qualche pub da ventenni ascoltava quarantenni in maglietta credere Tolstoj un calciatore e l’Aida una discoteca. Carpe diem. Wonderlust. Travel addicted. Per aspera ad astra. L’essenziale è invisibie all’occhio. Risolvo problemi.
Dopo tre mesi aveva cancellato l’account e decretato che gli uomini erano feccia.
Quando ne incontrava per strada era presa da un odio feroce. Odiava i bistecconi, quegli idioti pieni di steroidi che giravano con magliette attillate per sfoggiare muscoli. Odiava gli universitari con quell’aria fresca e piena di vita. Odiava quelli di mezz’età con il completo, le scarpe lucide e l’aria di chi sta conquistando il mondo. Odiava gli atleti alle olimpiadi. In Internet si era appassionata a racconti di donne che erano state molestate o violentate: rilanciava di continuo articoli di storie abominevoli, e buona parte dei suoi contatti l’avevano silenziata.
Fino alla notte del giugno 2016.
Mentre faceva zapping sul televisore, si era trovata davanti a un match di boxe. Il dito le si era alzato dal telecomando prima di capire perché. Era uno spettacolo ripugnante, che poteva piacere solo a delle bestie. Aveva cambiato canale con una smorfia di disgusto, ma il minuto dopo era tornata lì. Studiava ogni muscolo, ogni goccia di sudore, e man mano che i pugni volavano sentiva il respiro affannarsi e il cuore batterle nelle tempie.
Il bianco stava dominando il nero, anche se a fatica. Dopo un paio di montanti falliti, il bianco era andato a segno con un jab fortunato, che aveva mandato al tappeto l’avversario. Milena aveva serrato i denti e una fiammata le aveva investito il monte di Venere. Il nero s’era rialzato. Con gli occhi fissi sullo schermo, aveva lasciato il telecomando, aveva fatto scendere la mano che s’era insinuata sotto i pantaloni e le mutande, trovandosi bagnata.
Aveva iniziato a massaggiarsi la clitoride piano, quando il gong era suonato e il bianco era stato dichiarato vincitore.
Era stata a massaggiarsi e guardarlo esultare, poi aveva spento ed era rimasta sola, nel silenzio dell’appartamento, con la mano che si faceva più intensa e i gemiti che le uscivano dalla gola, finché la mente le aveva mandato un’immagine, un solo fotogramma, e all’improvviso era stata investita dall’orgasmo più potente della sua vita.
Era rimasta a sussultare e ansimare sulla poltrona, incredula.
Niente, né uomo né mano, le aveva fatto provare qualcosa di tanto intenso. Aveva fatto fatica a rialzarsi, mentre le endorfine la facevano sentire felice e leggera, senza preoccupazioni, se non capire cos’era successo e replicarlo. Nei giorni seguenti s’era messa a guardare gli incontri su Youtube, e anche se sentiva l’eccitazione crescere, non somigliava neanche remotamente a quella provata.
Era la durata dei match a essere scomoda.
In tre minuti lei riusciva a raggiungere uno stato di eccitazione decente, poi suonavano quel dannato campanello, gli uomini se ne andavano nei loro angoli per un minuto e lei si sentiva stupida.
In una settimana aveva capito che era qualcosa che riguardava il finale. I knockout erano un’esplosione di piacere, indipendentemente da chi fosse a restare in piedi. Appena vedeva l’uomo rimbalzare sul ring e l’altro alzare le mani, le bastavano pochi istanti per inarcare la schiena e lanciare un grido strozzato, mentre l’orgasmo la cristallizzava.
Il giorno del suo quarantaseiesimo compleanno era diventata un’esperta.
Si massaggiava piano, guardandoli arrivare sul ring, spogliarsi e fare i primi scambi. Saltava in avanti, in modo da farlo sembrare un unico, lungo match, mentre la mano aumentava d’intensità e la portava nella fase di pre orgasmo. Poi arrivava al finale e appena l’uomo veniva dichiarato vincitore, lo guardava scendere dal ring e raggiungeva l’orgasmo.
A scuola aspettava solo il weekend per flagellarsi, un match dopo l’altro.
Digrignava i denti percorsa da un odio famelico appena vedeva un pugno ben dato, o quando un pugile finito al tappeto si rialzava. A bassa voce istigava l’uno o l’altro, e poi passava a un altro filmato finché si trovava con la schiena fradicia di sudore, i crampi al polso e la clitoride così gonfia, rossa e pulsante da essere inservibile. Crollava esausta sul divano e dormiva lì, per poi svegliarsi e ricominciare, alla disperata ricerca di quel fotogramma indistinto.
Poi, una notte, a 47 anni aveva capito.
S’era svegliata con le mutande fradice e gli occhi sbarrati. Aveva aperto Amazon e ordinato due vibratori di dimensioni diverse, poi era tornata a dormire, felice come la notte prima di natale. Erano arrivati in due giorni in un pacco anonimo. Li aveva aperti, studiati con attenzione, lavati e riposti sotto i cuscini del divano.
È la notte dell’incontro del secolo. Il palasport ha tutti i posti esauriti, un mare oscuro e formicolante di uomini che urlano nel buio. In mezzo, illuminata da un cono di luce, Milena ha vent’anni, è nuda e stupenda su un letto. Si tocca e contorce come una gatta, mentre attorno a lei gli uomini della sicurezza fanno un cordone insuperabile. Al centro del ring, i due pugili si spogliano e guardano verso di lei: la donna che tutti vogliono e per la quale devono essere disposti a battersi. Lei fa un cenno. Li osserva combattere, cerca di capire chi vincerà, fantastica su che tipo di amanti siano finché uno dei due smette di rialzarsi.
Allora lei sorride, lui scavalca le corde, si toglie i guantoni e la raggiunge, ancora sudato dall’incontro. Dietro di lui, l’avversario è ancora al tappeto. Milena guarda gli infermieri e l’allenatore sollevarlo di peso: forse s’è fatto davvero male, ma non le importa, è la vita. Il vincitore raggiunge il cordone di sicurezza. La guardia si volta verso di lei. Lei fa un cenno con la testa e il pugile passa. Le sale sopra con quell’espressione di trionfo e stanchezza. Lei gli appoggia una mano sulla spalla sudata, con l’altra gli fruga nei pantaloncini e lo trova pronto.
«Prendimi» mormora, affondandosi il vibratore nella carne con tutta la forza che ha. L’orgasmo le manda una scarica elettrica tale da piegarla in due.
La folla esplode in un’ovazione.
L’anatomopatologa Federica Pasqualetto s’era allontanata dalla salma sul tavolo d’acciaio e sfilata i guanti per prendere la penna: «Direi che ci sono pochi dubbi», aveva sospirato.
«Cristo, un’emorragia cerebrale a quarantasette anni» aveva detto l’assistente, osservando il corpo di Milena sul tavolo «poveraccia.»
«Giuliano, NO!» aveva sbottato Federica, mollando la penna «Se in questo lavoro empatizzi, finisci pazzo in due mesi. L’ho già visto succedere. Se empatizzi fai errori. Errori che in altri casi lasciano assassini a piede libero. Trova un lato buffo, o poetico, quello che vuoi. Ma stai concentrato e distante.»
«Scusa. Ma non riesco a trovare nessun lato poetico.»
«Guarda com’era messa lì sotto. A spanna direi che s’è fatta più chilometri di me. La vita se l’è goduta alla grande.»
«Almeno quello» aveva detto l’assistente, poi aveva accennato un sorriso e l’aveva coperta con il telo.
Sua madre, casalinga, era stata lasciata dal marito per un’avvocatessa. Da allora Milena era stata istruita a non sposare un mediocre. Secondo la madre, avrebbe dovuto mantenere una reputazione rispettabile e impeccabile, così da sposare qualcuno in grado di darle una posizione di prestigio, e riscattare la madre.
Milena aveva fatto qualche tentativo con figli di papà presentati per conoscenze, e uno di questi l’aveva sverginata in fretta e male, mandando la mamma su tutte le furie. Per sua madre i pretendenti non erano mai abbastanza belli, stimati, ricchi o posizionati. A venticinque anni era arrivato Marco.
Buona famiglia, brillante, un metro e novantadue, appena uscito dall’università e futuro medico. Per tre settimane l’aveva corteggiata con fiori, uscite, cene, senza ottenere un bacio né una telefonata. Proprio quando secondo la madre era il momento di cedere, Marco aveva smesso di cercarla.
Lei gli aveva scritto messaggi dove faceva intuire che se si fosse degnato di calciare la palla avrebbe fatto goal, ma lui aveva nicchiato, scivolandole via dalle mani per finire tra le gambe di Federica Pasqualetto, una biondina che aveva già conosciuto gli uccelli di molti concittadini. Quando Milena l’aveva saputo, aveva scritto a Marco rovesciando su lui e lei epiteti irripetibili, poi li aveva seppelliti nel cassetto dei calzini spaiati ed era tornata alla sua vita.
Assieme alle amiche andava nei locali più esclusivi, nelle discoteche più blasonate, quelle che si diceva fossero frequentati dalle personalità dello spettacolo. Guardava le sue amiche regalarsi a destra e a manca, ma la madre la consolava ricordandole come sarebbero finite loro e come sarebbe finita lei.
Quando Milena aveva compiuto trent’anni non aveva più amiche da chiamare.
Erano sparite una dopo l’altra; alcune a vivere con l’amante senza sposarlo, altre con dei figli, altre trasferite nelle metropoli. Aveva chiamato Marco, decisa a chiedere scusa per quello che gli aveva detto anni prima e sperando di riallacciare i rapporti. Lui le aveva detto che non c’era problema: «E poi quello che avevi detto su me e mia moglie era vero, eh» aveva riso «Per quello la amo.»
A 34 anni, Sabrina aveva visto il mondo cambiare.
Gli alberghi accoglievano le coppie in day use senza problemi, i club privée spuntavano come funghi alla luce del sole, in televisione donne di cinquant’anni si presentavano con toyboy di venti, ragazzine seminude passavano da Instagram a Novella 3000, dive del porno venivano chiamate in TV come opinioniste, transessuali e lesbiche giravano seminudi per strada e venivano applauditi, filmati amatoriali di attrici hollywoodiane venivano diffusi senza intaccarne carriera né stima; giornalisti e intellettuali parlavano di coppie aperte, poliamore, scambi.
Nelle capitali europee e d’oltreoceano parole come compromettersi, rispettabilità, reputazione venivano usate solo in modo ironico, scatenando risate. Tra l’alta borghesia, le orge erano tornate a essere occasioni mondane, dove ci si conosceva e si facevano affari. Sua madre era morta quell’anno, seduta davanti al televisore mentre insultava una soubrette. Al funerale, il prete aveva precisato quanto in vita fosse stata una donna rispettabile.
Il mese dopo, il prete era stato trasferito perché si scopava le mogli del paese.
Milena aveva vinto un concorso e s’era messa a insegnare storia dell’arte in un liceo, ed era stato il colpo di grazia. C’era un ragazzino mulatto, Makram, dal fisico asciutto e i muscoli in vista, che si comportava come il padrone di casa. Era attorniato da ragazzine con minishorts più simili a mutande di jeans, che nei corridoi sussurravano sulle sue dimensioni, cosa ci avevano fatto e cosa avrebbero fatto alla prossima festa.
Quando alla ricreazione aveva visto Makram limonare due di quelle ninfette di fila, a Milena era salito il fuoco dentro. Era scesa, aveva fatto una sfuriata e preso in disparte le ragazze, spiegando che non dovevano comportarsi in quel modo: «State prendendo una strada che non sapete dove porta».
«A letto?» le aveva risposto una, e l’altra era scoppiata a ridere.
Milena le aveva tirato un ceffone.
Il giorno dopo la preside le aveva fatto una lavata di capo. I genitori s’erano presentati sul piede di guerra e lei avrebbe dovuto scusarsi, cosa che Milena aveva fatto di corsa. Ringraziando Dio, i giornali erano troppo impegnati a trovare foto e raccontare i dettagli piccanti dell’ennesimo scandalo di baby escort.
«... e poi Cristo, Milena» aveva detto la preside «ormai il mondo è così, cosa vuoi farci?»
Milena aveva fatto una guerra selvaggia a Makram.
Alle interrogazioni lo massacrava di domande complesse ed era riuscita ad affondargli i voti, convinta che una bocciatura gli avrebbe abbassato la cresta e screditato agli occhi delle ragazzine. Ma nelle altre materie Makram se la cavava; storia dell’arte era l’unica materia in cui risultava gravemente insufficiente, e in un liceo scientifico era poca cosa. L’ultima umiliazione fu proprio in consiglio docenti, dov’era stato messo in discussione l’accanimento di Milena invece dei voti di Makram.
A quarantadue anni Milena aveva i capelli tinti male color carota, quattro taglie di troppo infilate a fatica dentro jeans fuori moda e un seno che obbediva alla spietata forza di gravità. Viveva in una casetta in periferia con un giardino trascurato. Nella biografia di Tinder aveva spiegato che tipo d’uomo e che tipo di relazione voleva, specificando di credere nei valori di una volta.
«Voglio innamorarmi», diceva.
Ma gli uomini che sceglieva non erano interessati, e quelli interessati erano ben diversi da quelli che sceglieva. Aveva provato ad accontentarsi, ma che lei si concedesse o meno la prima sera, quelli sparivano. Erano serate penose, in cui seduta in qualche pub da ventenni ascoltava quarantenni in maglietta credere Tolstoj un calciatore e l’Aida una discoteca. Carpe diem. Wonderlust. Travel addicted. Per aspera ad astra. L’essenziale è invisibie all’occhio. Risolvo problemi.
Dopo tre mesi aveva cancellato l’account e decretato che gli uomini erano feccia.
Quando ne incontrava per strada era presa da un odio feroce. Odiava i bistecconi, quegli idioti pieni di steroidi che giravano con magliette attillate per sfoggiare muscoli. Odiava gli universitari con quell’aria fresca e piena di vita. Odiava quelli di mezz’età con il completo, le scarpe lucide e l’aria di chi sta conquistando il mondo. Odiava gli atleti alle olimpiadi. In Internet si era appassionata a racconti di donne che erano state molestate o violentate: rilanciava di continuo articoli di storie abominevoli, e buona parte dei suoi contatti l’avevano silenziata.
Fino alla notte del giugno 2016.
Mentre faceva zapping sul televisore, si era trovata davanti a un match di boxe. Il dito le si era alzato dal telecomando prima di capire perché. Era uno spettacolo ripugnante, che poteva piacere solo a delle bestie. Aveva cambiato canale con una smorfia di disgusto, ma il minuto dopo era tornata lì. Studiava ogni muscolo, ogni goccia di sudore, e man mano che i pugni volavano sentiva il respiro affannarsi e il cuore batterle nelle tempie.
Il bianco stava dominando il nero, anche se a fatica. Dopo un paio di montanti falliti, il bianco era andato a segno con un jab fortunato, che aveva mandato al tappeto l’avversario. Milena aveva serrato i denti e una fiammata le aveva investito il monte di Venere. Il nero s’era rialzato. Con gli occhi fissi sullo schermo, aveva lasciato il telecomando, aveva fatto scendere la mano che s’era insinuata sotto i pantaloni e le mutande, trovandosi bagnata.
Aveva iniziato a massaggiarsi la clitoride piano, quando il gong era suonato e il bianco era stato dichiarato vincitore.
Era stata a massaggiarsi e guardarlo esultare, poi aveva spento ed era rimasta sola, nel silenzio dell’appartamento, con la mano che si faceva più intensa e i gemiti che le uscivano dalla gola, finché la mente le aveva mandato un’immagine, un solo fotogramma, e all’improvviso era stata investita dall’orgasmo più potente della sua vita.
Era rimasta a sussultare e ansimare sulla poltrona, incredula.
Niente, né uomo né mano, le aveva fatto provare qualcosa di tanto intenso. Aveva fatto fatica a rialzarsi, mentre le endorfine la facevano sentire felice e leggera, senza preoccupazioni, se non capire cos’era successo e replicarlo. Nei giorni seguenti s’era messa a guardare gli incontri su Youtube, e anche se sentiva l’eccitazione crescere, non somigliava neanche remotamente a quella provata.
Era la durata dei match a essere scomoda.
In tre minuti lei riusciva a raggiungere uno stato di eccitazione decente, poi suonavano quel dannato campanello, gli uomini se ne andavano nei loro angoli per un minuto e lei si sentiva stupida.
In una settimana aveva capito che era qualcosa che riguardava il finale. I knockout erano un’esplosione di piacere, indipendentemente da chi fosse a restare in piedi. Appena vedeva l’uomo rimbalzare sul ring e l’altro alzare le mani, le bastavano pochi istanti per inarcare la schiena e lanciare un grido strozzato, mentre l’orgasmo la cristallizzava.
Il giorno del suo quarantaseiesimo compleanno era diventata un’esperta.
Si massaggiava piano, guardandoli arrivare sul ring, spogliarsi e fare i primi scambi. Saltava in avanti, in modo da farlo sembrare un unico, lungo match, mentre la mano aumentava d’intensità e la portava nella fase di pre orgasmo. Poi arrivava al finale e appena l’uomo veniva dichiarato vincitore, lo guardava scendere dal ring e raggiungeva l’orgasmo.
A scuola aspettava solo il weekend per flagellarsi, un match dopo l’altro.
Digrignava i denti percorsa da un odio famelico appena vedeva un pugno ben dato, o quando un pugile finito al tappeto si rialzava. A bassa voce istigava l’uno o l’altro, e poi passava a un altro filmato finché si trovava con la schiena fradicia di sudore, i crampi al polso e la clitoride così gonfia, rossa e pulsante da essere inservibile. Crollava esausta sul divano e dormiva lì, per poi svegliarsi e ricominciare, alla disperata ricerca di quel fotogramma indistinto.
Poi, una notte, a 47 anni aveva capito.
S’era svegliata con le mutande fradice e gli occhi sbarrati. Aveva aperto Amazon e ordinato due vibratori di dimensioni diverse, poi era tornata a dormire, felice come la notte prima di natale. Erano arrivati in due giorni in un pacco anonimo. Li aveva aperti, studiati con attenzione, lavati e riposti sotto i cuscini del divano.
È la notte dell’incontro del secolo. Il palasport ha tutti i posti esauriti, un mare oscuro e formicolante di uomini che urlano nel buio. In mezzo, illuminata da un cono di luce, Milena ha vent’anni, è nuda e stupenda su un letto. Si tocca e contorce come una gatta, mentre attorno a lei gli uomini della sicurezza fanno un cordone insuperabile. Al centro del ring, i due pugili si spogliano e guardano verso di lei: la donna che tutti vogliono e per la quale devono essere disposti a battersi. Lei fa un cenno. Li osserva combattere, cerca di capire chi vincerà, fantastica su che tipo di amanti siano finché uno dei due smette di rialzarsi.
Allora lei sorride, lui scavalca le corde, si toglie i guantoni e la raggiunge, ancora sudato dall’incontro. Dietro di lui, l’avversario è ancora al tappeto. Milena guarda gli infermieri e l’allenatore sollevarlo di peso: forse s’è fatto davvero male, ma non le importa, è la vita. Il vincitore raggiunge il cordone di sicurezza. La guardia si volta verso di lei. Lei fa un cenno con la testa e il pugile passa. Le sale sopra con quell’espressione di trionfo e stanchezza. Lei gli appoggia una mano sulla spalla sudata, con l’altra gli fruga nei pantaloncini e lo trova pronto.
«Prendimi» mormora, affondandosi il vibratore nella carne con tutta la forza che ha. L’orgasmo le manda una scarica elettrica tale da piegarla in due.
La folla esplode in un’ovazione.
L’anatomopatologa Federica Pasqualetto s’era allontanata dalla salma sul tavolo d’acciaio e sfilata i guanti per prendere la penna: «Direi che ci sono pochi dubbi», aveva sospirato.
«Cristo, un’emorragia cerebrale a quarantasette anni» aveva detto l’assistente, osservando il corpo di Milena sul tavolo «poveraccia.»
«Giuliano, NO!» aveva sbottato Federica, mollando la penna «Se in questo lavoro empatizzi, finisci pazzo in due mesi. L’ho già visto succedere. Se empatizzi fai errori. Errori che in altri casi lasciano assassini a piede libero. Trova un lato buffo, o poetico, quello che vuoi. Ma stai concentrato e distante.»
«Scusa. Ma non riesco a trovare nessun lato poetico.»
«Guarda com’era messa lì sotto. A spanna direi che s’è fatta più chilometri di me. La vita se l’è goduta alla grande.»
«Almeno quello» aveva detto l’assistente, poi aveva accennato un sorriso e l’aveva coperta con il telo.
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