La ragazzina e l'antiquario
di
Familiare
genere
etero
A differenza delle sue coetanee, Martina aveva il corpo simile al suo nome: un’acciuga striminzita priva di curve o fascino, con i capelli castano chiaro, occhiali tondi e qualche lentiggine a incorniciare occhi nocciola.
Aveva 17 anni ed era l’unica figlia del garzone. Sua madre, brava e onesta casalinga di provincia, le aveva insegnato a essere una ragazza a modo. Niente social, niente tatuaggi né piercing, niente scooter. Martina girava per strada con le sue scarpette di cuoio brogue consunte, una gonna al ginocchio e un maglioncino infeltrito; guai a mescolarsi con le sue compagne, che sarebbero finite presto su una brutta strada.
La vita di Martina erano il liceo, la biblioteca e le vetrine di qualche negozio del centro, dove le commesse la guardavano con una compassione divertita. E lei ci provava, a emergere, ma non ci riusciva nemmeno con lo studio.
I suoi voti erano mediocri come il suo aspetto; non abbastanza gravi da causarle una bocciatura, non abbastanza alti da metterla in mostra. Era una delle tante, irrilevanti creature che popolano le mostre d’arte, accalcate vicino a quadri che non capiscono nel disperato tentativo di assorbirne un po’ di luce, di colore, di eccellenza.
Ma a differenza loro, Martina era abbastanza intelligente da sapere di essere una mediocre.
Era una consapevolezza dolorosa, che le causava scatti di rabbia improvvisi quand’era sola in cameretta. Si detestava, e non riusciva a smettere di pensarci.
Vedeva i suoi difetti, le sue mancanze, le sue mediocrità fino a disgustarsi, e a quel punto veniva presa da un’eccitazione sessuale rabbiosa. La estingueva con gesti esperti e crudeli, usando lo spigolo della scrivania o il bracciolo della poltrona. Ci appoggiava il sesso sopra e premeva fino a trovare il perfetto equilibrio tra dolore e piacere. Allora si prendeva a schiaffi, s’infilava due dita in bocca e muoveva in bacino avanti e indietro, sopra e sotto, con i minuscoli quadricipiti che tremavano per lo sforzo, finché l’orgasmo le dava l’oblio. Poi crollava distesa sul pavimento, ansimando con gli occhi gonfi di lacrime, le guance arrossate e il cuore libero.
Il giorno del suo diciottesimo compleanno non aveva nemmeno pensato di dare una festa.
Dopo una mattinata di pioggia, quand’era uscita da scuola era spuntato il sole. Aveva deciso di fare il giro lungo e passeggiare per il centro. Dopotutto viveva in uno dei borghi più belli d’Italia, e il vicolo delle boutique aveva i gelsomini in fiore, un profumo che si mescolava al pavè bagnato e ai nidi di rondine dei portici. Buona parte dei negozi erano chiusi, e i passanti erano a pranzo. Arrivata davanti a una vetrina era rimasta paralizzata.
Mostrava un manichino di donna con un abito da sera bianco perla, con guanti bianchi e una stola di volpe, di fianco al manichino di un uomo in smoking. Quello che la colpiva era l’allestimento. L’intera vetrina sembrava lo scorcio di una qualche villa vittoriana, con boiserie di legno, libri ben rilegati, un tappeto persiano bianco, rosso e blu, un vassoietto d’argento su cui erano appoggiati un decanter di cristallo, due calici, una boccetta di profumo e un filo di perle. Era una scena stupenda, calda, bellissima, che proveniva da un mondo che lei non avrebbe mai potuto vivere.
Era scappata via a passo svelto, con i tacchi di cuoio che battevano forte sul pavè, i denti digrignati e il formicolio in mezzo alle gambe che la costringeva a stringere le cosce. Doveva arrivare in fretta in camera, così aveva tagliato per un vicolo. Passando davanti a una vetrina il suo occhio aveva notato qualcosa. Si era fermata ed era tornata indietro, con il fuoco che aveva nelle viscere che urlava per avere sollievo.
Era la vetrina di un antiquario.
Mostrava un tavolo Chippendale in piuma d’ebano su cui erano appoggiati un decanter e sei bicchieri di cristallo, anche più belli di quelli che aveva visto nella vetrina. La porta era aperta. Era entrata. L’interno era buio e silenzioso, rotto solo dal battere di una pendola. Il pavimento di pietra era coperto di polvere e segatura. C’era odore di muffa, fumo di sigarette e lucido per legno, attenuati da una corrente d’aria fresca di qualche cantina. A destra c’erano mobili accatastati alla bell’e meglio, mentre quelli verso la vetrina erano puliti e in ordine.
«C’è nessuno?» aveva chiesto, e la voce le era uscita roca.
Dai mobili in fondo era emerso un uomo sui quarant’anni, con una barba sale e pepe, una camicia di flanella sporca di segatura e l’aria annoiata. L’aveva squadrata appena e aveva fatto scattare il mento in avanti, pulendosi le mani con uno straccio.
«Quanto costano i bicchieri in vetrina?»
«È cristallo di Cumbria» aveva biascicato l’uomo in dialetto, facendosi largo tra i mobili «Primo novecento inglese.»
«Va bene, ma quanto vengono?»
Lui aveva stretto le spalle e sporto le labbra: «Cinquecento.»
Era una somma stratosferica.
Tutti i suoi risparmi non arrivavano alla metà, come ogni cosa nella sua vita.
La rabbia le era avvampata dentro come un incendio, e aveva battuto il piede sul pavimento mentre il formicolio tra le gambe era diventato dolore, e la corrente d’aria fredda le passava tra le gambe, facendole sentire le mutande fradice.
«Non potrebbe farmi uno sconto?» aveva detto, cercando di trattenere la rabbia. Detestava sentirsi in quel modo e detestava non avere niente per una trattativa: «Oggi è il mio compleanno» aveva aggiunto.
L’antiquario aveva fatto un sogghigno e sbuffato una risata: «Allora quattrocentonovanta» aveva detto.
Martina si era girata ed era scappata fuori.
Fatti dieci passi, però, si era fermata in centro al vicolo.
In giro non c’era nessuno, l’aria aveva lo stesso odore di pioggia e gelsomini, dai ristoranti provenivano suoni di posate e qualche radio, ed era come se lei non esistesse. Provava una tale rabbia e disgusto verso sé stessa che aveva avuto la tentazione d’infilarsi in un bar e chiudersi in bagno. Un altro posto dove non esisteva, e dove avrebbe potuto dare pace all’inferno che le stava divorando il ventre. Aveva stretto i pugni fino a piantarsi le unghie nei palmi, e all’improvviso era tornata indietro, questa volta camminando piano, guardando le proprie gambe muoversi come se non fossero le sue. Si era fermata sulla soglia dell’antiquario.
L’uomo era di nuovo chino sui mobili e aveva alzato la testa, facendo lo stesso scatto col mento. Lei stavolta non aveva detto niente. Era rimasta immobile a fissarlo, la schiena riscaldata dal sole dell’estarno, il viso rinfrescato dalla corrente. Dopo una manciata di secondi, a lui erano crollate le sopracciglia e aveva tirato appena la testa all’indietro. Lei non aveva cambiato espressione, mentre l’uomo la squadrava per la prima volta in un modo in cui nessuno l’aveva guardata prima.
«Quanti anni compi?» le aveva chiesto.
«Diciotto.»
«Sicura?»
Lei aveva annuito.
«Chiudi la porta» le aveva detto, poi era sparito nel retrobottega.
Martina aveva afferrato l’anta della porta vetrata con le mani che le tremavano. Si era fermata per ascoltarsi, poi aveva scrollato la testa e girato la chiave nella serratura. Con il cuore che le batteva in gola aveva attraversato il negozio fino alla porta. C’erano altri mobili. L’odore di muffa e legno era ancora più penetrante. Da qualche parte, in un’altra stanza, sentiva il suono di un rubinetto aperto.
Era rimasta sulla soglia, senza sapere cosa fare con le mani, finché lui era riemerso con le mani bagnate e aveva lanciato un asciugamano su una dormeuse foderata di stoffa francese azzurra. Ci si era seduto sopra e l’aveva fissata per qualche istante.
«Spogliati» aveva detto.
Martina aveva tolto il cappottino leggero, si era guardata attorno senza sapere dove appenderlo, poi l’aveva lasciato cadere a terra. Si era tolta il maglione, svelando una fintina sopra un reggiseno rosa. Se l’era tolta in fretta, per rivelare due seni minuscoli appena accennati. Aveva slacciato la fibbia della gonna rivelando un paio di collant da discount, si era inginocchiata a togliere gli stivaletti di cuoio ed era quasi inciampata. Si era sfilata le calze e aveva cercato di togliere le mutande di tela il più in fretta possibile. Poi era rimasta nuda, in piedi davanti a lui, con la corrente d’aria che le aveva irrigidito i capezzoli e la faceva tremare. Il fuoco che aveva tra le gambe si era quietato, sostituito dall’adrenalina.
L’antiquario l’aveva squadrata come se fosse stata uno dei suoi mobili. Appena aveva sentito quelle mani callose stringerle i fianchi, la fame di sesso le era esplosa dentro come acqua nell’olio bollente. L’odore di muffa, sudore e sigarette la disgustava, e quel disgusto la eccitava oltre ogni immaginazione. Sentiva quelle mani strizzarle i glutei, scendere e trovarla fradicia, infilarsi nella carne facendola vibrare e strappandole un gemito. Lei aveva armeggiato con la cinghia della cintura senza riuscirci al primo tentativo, scossa dalle ondate di piacere che le impedivano di stare eretta. Lui l’aveva scacciata, s’era aperto i bottoni dei jeans con un gesto e s’era abbassato i boxer neri, infilandole in bocca il cazzo.
Martina succhiava sentendoselo crescere nella bocca e ne voleva sempre di più, tanto da afferrare le natiche nude dell’antiquario e spingerselo fino in gola, più a fondo che poteva, fino a sentire i peli schiacciarle il naso e le contrazioni nella trachea. Aveva succhiato fino ad avere un conato, poi lui l’aveva gettata sulla dormeuse a pancia in giù, le aveva afferrato i capelli e glie l’aveva infilato dentro facendola urlare di piacere e raggiungere il primo orgasmo. Lei s’era aggrappata al bracciolo mentre lo sentiva squassarle le viscere con affondi secchi e decisi che le strappavano urla sempre più gutturali. Le aveva tappato la bocca con la mano ancora fradicia di lei, Martina se l’era tolta e aveva iniziato a succhiargli le dita, annientata dalle vampate di piacere, dal disgusto per quello che stava facendo e per la gioia selvaggia che provava.
Lui se l'era presa comoda, poi s’era tolto, l’aveva voltata e le aveva infilato in bocca il cazzo fradicio; l’aveva presa per le tempie: «Adesso guardami» aveva ringhiato. Martina aveva obbedito, guardando dritto negli occhi quell’uomo di cui non sapeva il nome, e che le stava venendo nella bocca.
«Inghiotti» aveva detto «Tutto.»
Lei aveva obbedito ancora, si era staccata e gli aveva mostrato la bocca vuota. Solo a quel punto lui l’aveva gettata via, come la lattina di una bibita vuota. Erano rimasti ad ansimare in silenzio, lui con ancora la camicia addosso, lei nuda e annientata. L’antiquario si era rivestito, aveva raccolto i suoi vestiti e glie li aveva lanciati addosso.
«Vado a incartarteli» aveva detto.
Martina era rimasta sulla dormeuse ad ascoltare il silenzio della sua testa e del suo cuore. Si era rivestita in fretta, era uscita trovando un sacchetto con dentro il decanter e i calici ben incartati in fogli di giornale.
«E buon compleanno» aveva detto l’antiquario.
Martina aveva sorriso, ringraziato, preso i calici ed era tornata a casa. Non sarebbe più tornata. Di antiquari, dopotutto, era pieno il mondo.
Aveva 17 anni ed era l’unica figlia del garzone. Sua madre, brava e onesta casalinga di provincia, le aveva insegnato a essere una ragazza a modo. Niente social, niente tatuaggi né piercing, niente scooter. Martina girava per strada con le sue scarpette di cuoio brogue consunte, una gonna al ginocchio e un maglioncino infeltrito; guai a mescolarsi con le sue compagne, che sarebbero finite presto su una brutta strada.
La vita di Martina erano il liceo, la biblioteca e le vetrine di qualche negozio del centro, dove le commesse la guardavano con una compassione divertita. E lei ci provava, a emergere, ma non ci riusciva nemmeno con lo studio.
I suoi voti erano mediocri come il suo aspetto; non abbastanza gravi da causarle una bocciatura, non abbastanza alti da metterla in mostra. Era una delle tante, irrilevanti creature che popolano le mostre d’arte, accalcate vicino a quadri che non capiscono nel disperato tentativo di assorbirne un po’ di luce, di colore, di eccellenza.
Ma a differenza loro, Martina era abbastanza intelligente da sapere di essere una mediocre.
Era una consapevolezza dolorosa, che le causava scatti di rabbia improvvisi quand’era sola in cameretta. Si detestava, e non riusciva a smettere di pensarci.
Vedeva i suoi difetti, le sue mancanze, le sue mediocrità fino a disgustarsi, e a quel punto veniva presa da un’eccitazione sessuale rabbiosa. La estingueva con gesti esperti e crudeli, usando lo spigolo della scrivania o il bracciolo della poltrona. Ci appoggiava il sesso sopra e premeva fino a trovare il perfetto equilibrio tra dolore e piacere. Allora si prendeva a schiaffi, s’infilava due dita in bocca e muoveva in bacino avanti e indietro, sopra e sotto, con i minuscoli quadricipiti che tremavano per lo sforzo, finché l’orgasmo le dava l’oblio. Poi crollava distesa sul pavimento, ansimando con gli occhi gonfi di lacrime, le guance arrossate e il cuore libero.
Il giorno del suo diciottesimo compleanno non aveva nemmeno pensato di dare una festa.
Dopo una mattinata di pioggia, quand’era uscita da scuola era spuntato il sole. Aveva deciso di fare il giro lungo e passeggiare per il centro. Dopotutto viveva in uno dei borghi più belli d’Italia, e il vicolo delle boutique aveva i gelsomini in fiore, un profumo che si mescolava al pavè bagnato e ai nidi di rondine dei portici. Buona parte dei negozi erano chiusi, e i passanti erano a pranzo. Arrivata davanti a una vetrina era rimasta paralizzata.
Mostrava un manichino di donna con un abito da sera bianco perla, con guanti bianchi e una stola di volpe, di fianco al manichino di un uomo in smoking. Quello che la colpiva era l’allestimento. L’intera vetrina sembrava lo scorcio di una qualche villa vittoriana, con boiserie di legno, libri ben rilegati, un tappeto persiano bianco, rosso e blu, un vassoietto d’argento su cui erano appoggiati un decanter di cristallo, due calici, una boccetta di profumo e un filo di perle. Era una scena stupenda, calda, bellissima, che proveniva da un mondo che lei non avrebbe mai potuto vivere.
Era scappata via a passo svelto, con i tacchi di cuoio che battevano forte sul pavè, i denti digrignati e il formicolio in mezzo alle gambe che la costringeva a stringere le cosce. Doveva arrivare in fretta in camera, così aveva tagliato per un vicolo. Passando davanti a una vetrina il suo occhio aveva notato qualcosa. Si era fermata ed era tornata indietro, con il fuoco che aveva nelle viscere che urlava per avere sollievo.
Era la vetrina di un antiquario.
Mostrava un tavolo Chippendale in piuma d’ebano su cui erano appoggiati un decanter e sei bicchieri di cristallo, anche più belli di quelli che aveva visto nella vetrina. La porta era aperta. Era entrata. L’interno era buio e silenzioso, rotto solo dal battere di una pendola. Il pavimento di pietra era coperto di polvere e segatura. C’era odore di muffa, fumo di sigarette e lucido per legno, attenuati da una corrente d’aria fresca di qualche cantina. A destra c’erano mobili accatastati alla bell’e meglio, mentre quelli verso la vetrina erano puliti e in ordine.
«C’è nessuno?» aveva chiesto, e la voce le era uscita roca.
Dai mobili in fondo era emerso un uomo sui quarant’anni, con una barba sale e pepe, una camicia di flanella sporca di segatura e l’aria annoiata. L’aveva squadrata appena e aveva fatto scattare il mento in avanti, pulendosi le mani con uno straccio.
«Quanto costano i bicchieri in vetrina?»
«È cristallo di Cumbria» aveva biascicato l’uomo in dialetto, facendosi largo tra i mobili «Primo novecento inglese.»
«Va bene, ma quanto vengono?»
Lui aveva stretto le spalle e sporto le labbra: «Cinquecento.»
Era una somma stratosferica.
Tutti i suoi risparmi non arrivavano alla metà, come ogni cosa nella sua vita.
La rabbia le era avvampata dentro come un incendio, e aveva battuto il piede sul pavimento mentre il formicolio tra le gambe era diventato dolore, e la corrente d’aria fredda le passava tra le gambe, facendole sentire le mutande fradice.
«Non potrebbe farmi uno sconto?» aveva detto, cercando di trattenere la rabbia. Detestava sentirsi in quel modo e detestava non avere niente per una trattativa: «Oggi è il mio compleanno» aveva aggiunto.
L’antiquario aveva fatto un sogghigno e sbuffato una risata: «Allora quattrocentonovanta» aveva detto.
Martina si era girata ed era scappata fuori.
Fatti dieci passi, però, si era fermata in centro al vicolo.
In giro non c’era nessuno, l’aria aveva lo stesso odore di pioggia e gelsomini, dai ristoranti provenivano suoni di posate e qualche radio, ed era come se lei non esistesse. Provava una tale rabbia e disgusto verso sé stessa che aveva avuto la tentazione d’infilarsi in un bar e chiudersi in bagno. Un altro posto dove non esisteva, e dove avrebbe potuto dare pace all’inferno che le stava divorando il ventre. Aveva stretto i pugni fino a piantarsi le unghie nei palmi, e all’improvviso era tornata indietro, questa volta camminando piano, guardando le proprie gambe muoversi come se non fossero le sue. Si era fermata sulla soglia dell’antiquario.
L’uomo era di nuovo chino sui mobili e aveva alzato la testa, facendo lo stesso scatto col mento. Lei stavolta non aveva detto niente. Era rimasta immobile a fissarlo, la schiena riscaldata dal sole dell’estarno, il viso rinfrescato dalla corrente. Dopo una manciata di secondi, a lui erano crollate le sopracciglia e aveva tirato appena la testa all’indietro. Lei non aveva cambiato espressione, mentre l’uomo la squadrava per la prima volta in un modo in cui nessuno l’aveva guardata prima.
«Quanti anni compi?» le aveva chiesto.
«Diciotto.»
«Sicura?»
Lei aveva annuito.
«Chiudi la porta» le aveva detto, poi era sparito nel retrobottega.
Martina aveva afferrato l’anta della porta vetrata con le mani che le tremavano. Si era fermata per ascoltarsi, poi aveva scrollato la testa e girato la chiave nella serratura. Con il cuore che le batteva in gola aveva attraversato il negozio fino alla porta. C’erano altri mobili. L’odore di muffa e legno era ancora più penetrante. Da qualche parte, in un’altra stanza, sentiva il suono di un rubinetto aperto.
Era rimasta sulla soglia, senza sapere cosa fare con le mani, finché lui era riemerso con le mani bagnate e aveva lanciato un asciugamano su una dormeuse foderata di stoffa francese azzurra. Ci si era seduto sopra e l’aveva fissata per qualche istante.
«Spogliati» aveva detto.
Martina aveva tolto il cappottino leggero, si era guardata attorno senza sapere dove appenderlo, poi l’aveva lasciato cadere a terra. Si era tolta il maglione, svelando una fintina sopra un reggiseno rosa. Se l’era tolta in fretta, per rivelare due seni minuscoli appena accennati. Aveva slacciato la fibbia della gonna rivelando un paio di collant da discount, si era inginocchiata a togliere gli stivaletti di cuoio ed era quasi inciampata. Si era sfilata le calze e aveva cercato di togliere le mutande di tela il più in fretta possibile. Poi era rimasta nuda, in piedi davanti a lui, con la corrente d’aria che le aveva irrigidito i capezzoli e la faceva tremare. Il fuoco che aveva tra le gambe si era quietato, sostituito dall’adrenalina.
L’antiquario l’aveva squadrata come se fosse stata uno dei suoi mobili. Appena aveva sentito quelle mani callose stringerle i fianchi, la fame di sesso le era esplosa dentro come acqua nell’olio bollente. L’odore di muffa, sudore e sigarette la disgustava, e quel disgusto la eccitava oltre ogni immaginazione. Sentiva quelle mani strizzarle i glutei, scendere e trovarla fradicia, infilarsi nella carne facendola vibrare e strappandole un gemito. Lei aveva armeggiato con la cinghia della cintura senza riuscirci al primo tentativo, scossa dalle ondate di piacere che le impedivano di stare eretta. Lui l’aveva scacciata, s’era aperto i bottoni dei jeans con un gesto e s’era abbassato i boxer neri, infilandole in bocca il cazzo.
Martina succhiava sentendoselo crescere nella bocca e ne voleva sempre di più, tanto da afferrare le natiche nude dell’antiquario e spingerselo fino in gola, più a fondo che poteva, fino a sentire i peli schiacciarle il naso e le contrazioni nella trachea. Aveva succhiato fino ad avere un conato, poi lui l’aveva gettata sulla dormeuse a pancia in giù, le aveva afferrato i capelli e glie l’aveva infilato dentro facendola urlare di piacere e raggiungere il primo orgasmo. Lei s’era aggrappata al bracciolo mentre lo sentiva squassarle le viscere con affondi secchi e decisi che le strappavano urla sempre più gutturali. Le aveva tappato la bocca con la mano ancora fradicia di lei, Martina se l’era tolta e aveva iniziato a succhiargli le dita, annientata dalle vampate di piacere, dal disgusto per quello che stava facendo e per la gioia selvaggia che provava.
Lui se l'era presa comoda, poi s’era tolto, l’aveva voltata e le aveva infilato in bocca il cazzo fradicio; l’aveva presa per le tempie: «Adesso guardami» aveva ringhiato. Martina aveva obbedito, guardando dritto negli occhi quell’uomo di cui non sapeva il nome, e che le stava venendo nella bocca.
«Inghiotti» aveva detto «Tutto.»
Lei aveva obbedito ancora, si era staccata e gli aveva mostrato la bocca vuota. Solo a quel punto lui l’aveva gettata via, come la lattina di una bibita vuota. Erano rimasti ad ansimare in silenzio, lui con ancora la camicia addosso, lei nuda e annientata. L’antiquario si era rivestito, aveva raccolto i suoi vestiti e glie li aveva lanciati addosso.
«Vado a incartarteli» aveva detto.
Martina era rimasta sulla dormeuse ad ascoltare il silenzio della sua testa e del suo cuore. Si era rivestita in fretta, era uscita trovando un sacchetto con dentro il decanter e i calici ben incartati in fogli di giornale.
«E buon compleanno» aveva detto l’antiquario.
Martina aveva sorriso, ringraziato, preso i calici ed era tornata a casa. Non sarebbe più tornata. Di antiquari, dopotutto, era pieno il mondo.
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