(Milano) La terrazza dei radical chic e la scrittrice di provincia

di
genere
dominazione

Francesca Cerignola Weber non era ancora ubriaca, ma era sulla buona strada.

Distesa sul divanetto della terrazza ascoltava gli invitati discutere di nuove ideologie e correnti artistiche, mentre le note distanti del pianoforte le accarezzavano l’orecchio. Sandali alla schiava con un tacco modesto, un Versace haute couture di chiffon porpora e cuoio borchiato, orecchini vintage, due gocce di Tom Ford Vanilla tobacco. A 29 anni aveva già visto buona parte del mondo che valeva la pena vedere, e il resto la annoiava.

Mora, occhi grigioverdi come la val padana, la sua famiglia aveva proprietà immobiliari in Costa Azzurra, sulla riviera amalfitana e in Grecia. Non aveva mai lavorato, e passava le giornate tra vernissage di amici e ricevimenti, quasi sempre in loft milanesi o in vecchie ville romane. Chiunque l’avesse vista in quel momento, brilla e quieta sulla terrazza di un appartamento del centro, avrebbe pensato fosse la donna più fortunata e felice del mondo.

E avrebbe sbagliato.

Ormai eravamo rimasti solo io, lei, il pittore con la fidanzata rossa, l’avvocato con la moglie prosperosa e ultimi, l’editore di un’importante casa editrice accompagnato da una biondina slavata di vent’anni, presentata come “grande penna”. Certo. La “grande penna” indossava un tubino aderente da due soldi, abbastanza stretto da evidenziare l’assenza di biancheria intima.

L’editore ne cambiava una a settimana; erano ragazzine di provincia con velleità letterarie.
Arrivavano a Milano in tacchi il giovedì sera e tornavano a gambe larghe il lunedì mattina.

L’editore era noto per le sue dimensioni spropositate e la sua passione per le strade posteriori, che le ragazzine in soggezione concedevano senza fare storie. Finivano impalate come passerotti e venivano rispedite alla famiglia il giorno dopo con tanti saluti. Era divertente osservare la “grande penna” mentre tentava di dire qualcosa di arguto, inconsapevole di quello che l’aspettava.

«Se si blocca la pubblicazione di qualcosa solo perché ha concetti che non ci piacciono, si censura» aveva detto la ragazzina.
«Selezionare le opere è il nostro lavoro, Emma» aveva detto l’editore.
«È questo il punto. I lettori scelgono in base a qualcosa di già scelto. Quindi censurato in partenza.»
«Magari fosse quello il problema» aveva sospirato l’editore «Averne, di autori coraggiosi che ti fanno dubitare se censurarli o meno. In realtà nuotiamo in un mare di banalità sgrammaticate.»

Francesca, come al solito, si stava annoiando.

La conoscevo da un paio d’anni e i suoi sguardi, per me, valevano come le parole. Non che fossi parte del suo mondo o potessi permettermi di starci; era lei a convocarmi. “Tu scriverai la mia biografia”, aveva riso, quando l’avevo conosciuta. A me era sembrata un’idea bislacca finché non avevo visto di cos’era capace. Aveva fatto le migliori scuole, aveva gusti sofisticati e classe, ma aveva un’anima corrotta e una mente fantasiosa, troppo rapida e acuminata per avere pace.

Si divertiva a scandalizzare e spaventare la sua classe sociale.

Solo davanti a dolore, piacere o prevaricazioni i suoi occhi mandavano lampi di una gioia folle e selvaggia, che per qualche tempo le dava pace. Poi tornava ad annoiarsi e la sua mente malata ricominciava a concepire perversioni che s’intrecciavano in un equilibrio fragile e magistrale. Lo chiamava il senso del sublime, e io sapevo che potervi assistere era un privilegio. Sapevo che scrivere di lei, un giorno, sarebbe stata l’unica cosa rilevante della mia vita.

Non che i presenti lo sapessero.
A differenza dell’editore, erano brave persone.

La rossa aveva la faccia della borghesuccia che andava a fare i corsi di burlesque o di lap dance, si faceva scopare dal marito una volta al mese e forse aveva un account Tinder anonimo per flirtare con dei cazzi decenti, ma senza mai usarli. La prosperosa, invece, era già meglio. Quella mastoplastica additiva che esibiva senza reggiseno era notevole. Forse bazzicava club privée distanti da Milano e forse aveva un amante. Di certo non più d’uno, perché era una di quelle donne che riusciva a farsi una scopata solo raccontandosi che era per amore.

L’avvocato e il giornalista erano gatti d’appartamento burrosi e rassegnati a masturbarsi in bagno, sognando cose che non avrebbero mai avuto il coraggio di confessare alla moglie. L’avvocato, con gli occhi azzurri e la pelle chiarissima, era nato per prenderlo nel culo e a quarant’anni passati ancora non se n’era accorto. Il giornalista probabilmente sognava di leccare piedi e quella roba lì, dopotutto lo faceva già di lavoro. Erano gente qualsiasi che attraversava la terrazza di Francesca perché portata da amici o conoscenti.

Se fossero stati intelligenti sarebbero andati via un’ora fa.

«Il mio romanzo è coraggioso» aveva detto la ragazzina «soprattutto in quest’epoca. Eppure non trovo chi me lo pubblica. Perché?»
«Bè, aspettiamo a leggerlo» aveva sorriso l’editore, appoggiandole una mano sulla spalla.
«No, Franco, sono seria: non mi ha mai risposto nessuno. Di fatto, sono stata censurata. Allora forse il problema non è la mancanza di autori coraggiosi, ma di editori.»
«Bè, pubblicare qualcuno è comunque un investimento, no?» s’era intromesso l’avvocato.
«Infatti» aveva annuito l’editore «Pagare autore, editor, stampa e promozione non è gratis.»
«Ecco!» aveva sbottato la ragazzina «Alla fine sono sempre i soldi, il problema, non gli autori coraggiosi. Io farei qualsiasi cosa per essere pubblicata, ma non ho i soldi per farlo. E non parlatemi dell’autopubblicazione.»

«Qualunque cosa?» aveva detto Francesca, con un lampo negli occhi.
La ragazzina si era fatta seria: «Certo. Qualunque cosa.»

Nella terrazza, all’improvviso, non parlava più nessuno. L’editore, alle spalle della ragazzina, aveva sgranato gli occhi e scosso la testa. Francesca l’aveva ignorato. Conoscevo quel tono da iena, mascherato da genuino interesse. Aveva fiutato carne. La ragazzina avrebbe dovuto liberarsi velocemente e con cautela, ma non aveva l’età né l’esperienza per capirlo.

«Con che casa editrice vorresti pubblicare?» aveva detto Francesca, tirando fuori il cellulare e scorrendo la rubrica.
«Il mio sogno sarebbe la Heckler&Koch.»
«Heckler&Koch, perfetto» aveva detto Francesca. Poi le aveva mostrato una scheda: «Questo è il vicedirettore della Heckler&Koch. Se io lo chiamo e gli dico che i soldi li metto di tasca mia, il tuo romanzo entra in stampa domani pomeriggio.»

Sulla terrazza c’era un tale silenzio che riuscivo a sentire le zanzare.

«Cristo, Francesca» aveva mormorato l’editore.
«E cosa devo fare, in cambio?» aveva risposto.

Francesca s’era lasciata cadere contro lo schienale del divanetto con un sorriso estatico. Aveva quella luce folle negli occhi e la preda tra le fauci. Ora voleva giocarci, e infatti si era presa la briga di riempirsi di nuovo il calice di prosecco, accavallare le gambe, bere un sorso e schioccare la lingua, mentre nessuno dei presenti apriva bocca né muoveva un muscolo.

«Quanto mi costerebbe quella telefonata, Franco? Cinquanta?»
«Con la Heckler&Koch? Circa, sì» aveva mormorato lui «Per una cosa in stile loro.»
«Quindi io metto conoscenze, raccomandazione e cinquantamila euro. Tu...» aveva detto, portandosi l’indice sulla guancia e poi sotto il mento, come un’attrice di terza categoria.

Si stava divertendo un mondo, oscillando la testa da una parte all’altra.

«Tu adesso ti togli quel tubino di H&M e ti inginocchi lì» aveva detto, indicando il centro della terrazza «E io ti piscio in bocca.»

All’editore era scappato un sorriso e aveva guardato altrove. La reazione dell’avvocato, del giornalista e delle consorti, invece, era puro, genuino orrore. La ragazza era pallida e si torceva le mani. Era affascinante vederla così vicina al baratro e altrettanto inconsapevole. I vent’anni sono un’età maledetta, in cui senti il bisogno di dimostrare una maturità e un’esperienza che non hai. Finché è troppo tardi.

«Quindi?» aveva trillato Francesca, con un sorriso eccitato.
«Non mi puoi chiedere una cosa del genere» aveva risposto la ragazzina, ed era così mortificata che per un attimo mi aveva fatto compassione. Non era la prima a finire in una delle trappole di Francesca, e di certo non era l’ultima. Ma aveva gli occhi così pieni di sogni che per un attimo mi era dispiaciuto. Lei era ancora innocente, a suo modo.

«Ah, Franco, avevi proprio ragione» aveva detto Francesca, roteando gli occhi «Averne, di autori coraggiosi.»
«Quanto sei stronza» aveva soffiato Franco, guardando altrove. Ma il rigonfiamento nei suoi pantaloni raccontava un’altra storia. Mi aspettavo la ragazzina – Emma, mi pare – si alzasse e se ne andasse, invece ci avevo azzeccato solo in parte.

S’era alzata sì, poi con un gesto stizzito s’era infilata i pollici sotto le ascelle e aveva lasciato cadere il tubino a terra, svelando un corpo statuario e una terza abbondante. Era bella e fresca come la pioggia di marzo. All’improvviso, nella terrazza, si faceva fatica a respirare. La rossa era scattata in piedi e se n’era andata, inseguita a malincuore dal marito che prima di varcare la soglia aveva gettato un ultimo sguardo a quel culo perfetto.

La procace mogliettina e il suo giornalista, invece, erano chiaramente arrapati come animali.

Emma aveva tolto le scarpe col tacco – anche quelle di Zara – e mi ricordo lo scalpicciare lento, solenne e orgoglioso dei suoi piedi sulle mattonelle di cotto finché arrivava al centro della terrazza. Gli occhi di Francesca erano lucidi, la bocca contorta nel suo sogghigno sadico. Appena le ginocchia di Emma avevano toccato le piastrelle, lei aveva infilato le mani sotto il vestito e aveva tirato via un paio di mutande Victoria’s secret. Tenendole con due dita, le aveva lasciate cadere nel flute di prosecco con un gesto teatrale. Poi s’era alzata sui tacchi e l’aveva raggiunta.

Le aveva appoggiato la mano sui capelli, le aveva accarezzato le guance come una sorella piccola: «Adesso attenta» le aveva detto con dolcezza «Se una sola goccia finisce per terra, io non faccio quella telefonata. Mi hai capito?»
Emma aveva annuito, e le tremavano le labbra.
«Adesso apri la bocca.»

Avevo una voglia folle di masturbarmi, e l’editore mi aveva battuto in velocità. Aveva estratto quel cannone mostruoso e s’era messo ad accarezzarselo con pazienza. Ne avevo sentito parlare, ma non l’avevo mai visto. Sembrava il cazzo di un mulo, o una protesi. Spuntava dai pantaloni del completo come un totem di carne, e la mano di lui ne copriva a malapena un terzo. Era difficile pensare un essere umano potesse riuscire a infilarsi dentro una cosa simile. La procace mogliettina spostava gli occhi da quella proboscide alla ragazzina con la bocca semiaperta, incapace di parlare o di fare qualsiasi cosa. Francesca adorava quel momento, quando d’un tratto la brava gente scopriva l’esistenza di mondi che loro non avevano nemmeno il coraggio di pensare.

Il giornalista era paonazzo e stava mettendo a dura prova le cuciture dei pantaloni di lino. Io non sapevo che fare.
Ero ospite, ma non volevo fare passi falsi. Soprattutto non volevo inimicarmi una delle donne più potenti d'Italia.

Emma aveva aperto la bocca, e nel silenzio assoluto della notte di Milano avevamo sentito il sibilo e il gorgoglio, poi l’avevamo vista sussultare e ingoiare. Era più furba del previsto. Aveva messo le mani giusto sotto il mento, così le gocce che le scappavano se le spalmava addosso invece di farle cadere. Francesca la teneva premuta contro il sesso con una mano, e l’altra la teneva sul fianco: «Bevi, bevi» mormorava a denti stretti.

La mano dell’editore aveva aumentato la velocità, mentre la procace mogliettina aveva il ben più modesto cazzo del marito in bocca e lo succhiava guardando la scena, muovendo il bacino avanti e indietro sopra la mano del coniuge. Per un istante, tutti avevano pensato che Emma ce l’avrebbe fatta. Invece aveva avuto un sussulto, s’era tirata via e piegata in due a vomitare. Francesca era stata veloce a tirarsi su il vestito e accovacciarsi di scatto, finendo di pisciare sul pavimento e guardandola scossa dai conati: «Peccato» le aveva detto, poi s’era rialzata ed era passata oltre con la sua camminata da sfilata. Aveva raggiunto l’editore, aveva allargato le gambe e gli aveva sfilato di mano l’arnese.

«Che onore» aveva detto lui. Lei non l’aveva nemmeno guardato in faccia.

Se l’era appoggiato sulla fica bagnata, poi l’aveva fatto scivolare dentro e le era mancato il fiato. Era scesa piano su quel mostro che pareva non finire mai e arrivarle nell’esofago. Arrivata in fondo s’era fermata un attimo a prendere fiato, poi s’era voltata a guardare Emma, ancora sul pavimento, e aveva iniziato a muoversi e gemere. L’editore aveva provato a dire qualcosa, ma Francesca gli aveva tappato la bocca, sempre voltata verso la ragazzina, con gli occhi che le brillavano di gioia sadica.

Persino il giornalista e la moglie s’erano messi a scopare sul serio, con lei a pecora e la faccia coperta dai cuscini per la vergogna, lui che la stantuffava rabbioso, schiaffeggiandole il culo. Emma si era alzata e si era guardata attorno con gli occhi arrossati e gonfi di lacrime, come se fosse una reduce da una battaglia. Alla fine aveva guardato me cercando del conforto, immagino, senza sapere che tutti, in quella terrazza, eravamo corrotti fino al midollo. La guardavo e continuavo a masturbarmi senza sapere cosa mi eccitasse, se la scena che avevo visto, se la sua miseria, se la sua ingenuità spezzata, o solo la vista della fica di Francesca aperta in due.

Forse mi eccitava che lì, in quel momento, eravamo solo porci sadici e decadenti.
scritto il
2021-05-23
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