Il viaggio di Cecilia 6
di
beatrice
genere
sentimentali
Radicofani 1630
Ero con le lacrime agli occhi alla sola idea che mi sarei dovuta separare da lui, dando seguito all'ordine impartito da quel masnadiere; che non aveva avuto nemmeno il coraggio di presentarsi per nome e a viso aperto.
"starà bene e avrete presto notizie!" disse "e vedo che il vostro ferito si è ripreso: non perdete tempo!" furono le sue ultime parole pronunciate, Michele rispose urlando un "non finisce qui" di frustrazione, ma quello riprese "certo che finisce qui, sparite!";
lo spagnolo tirò le redini per portarmi, pensai, sul dosso dove c'erano i due tiratori; e intanto udivo le parole del brigante sibilate sottovoce fra i denti: "speriamo facciano in tempo..." e ancora "avevo detto a quei due idioti, di non mirare a nessuno, dannati!".
Mario tentò di frapporsi fra me e l'andaluso che, sì, stava tirando la mia cavalla ma lei era immobile al suo posto, una sorta di momento propizio illuminò la nostra speranza: alle spalle dei due balestrieri comparve Said, Michele lo vide prima di tutti e virò prontamente il cavallo verso quell'ignoto capo, che si era avvicinato troppo incautamente; con rapidità la sciabola del moro disarmò i due sgherri.
Michele, non più sotto tiro, sguainò repentino la propria spada e la puntò alla gola di quel grassatore incappucciato, questi scartò di lato, ferendosi ma liberandosi, e afferrando l'elsa della sua si scagliò contro Michele, il clangore fu forte e violento nell'urto delle due lame, un'epico scontro all'arma bianca fu ingaggiato fra i due cavalieri, di nero vestito e fiero con la piuma al vento sul cavallo bianco l'uno e incappucciato, di cuoio e pelle ricoperto, sul destriero lucente nero l'altro, abili spadaccini entrambi e addestrati a non cedere; Marco cercò di andargli in aiuto ma, sfilata la spada, il dardo piantato nella sua spalla lo fece gridare di dolore e cadde da cavallo insieme all'arma.
Said stoccava bene con i due sull'altura, ma decisi di raggiungerlo e dare manforte, sul come non avevo idea, spronai la mia cavalla che schizzò in avanti spingendo il sauro dello spagnolo, preso alla sprovvista il suo equino s'imbizzarrì e lo disarcionò, Mario fu lesto a sfruttare l'attimo, e balzò a terra affrontandolo a nude mani, ma era più forte e più grosso, dopo lo sbandamento della caduta si riprese e iniziò a ribattere veemente, sferrò un calcio di suola al corpo del mio senese facendolo atterrare, sofferente, quattro braccia più lontano; s'armò dello stiletto che aveva e si avventò su Mario che arretrava e schivava i colpi, violenti ma imprecisi; Marco si accorse d'avere il padrone, l'amico, vicino e con un colpo di piede gli lanciò la spada, che roteò e brillò nella luce della radura, rapendo lo sguardo dell'iberico, e si conficcò nel terreno a pronta presa, un affondo ancora dell'energumeno, scomposto e scoperto, prestò il fianco alla difesa, adesso armata, del mio amore, crollò col suo peso su quella cuspide affilata che riemerse madida di vermiglio.
Il ladrone da bosco si rese conto d'essere oramai solo e scappò via di gran galoppo tenendosi il cappuccio.
Said, anche grazie a qualche culata della mia cavalla atterrò i due sgherri, uno cercò di scappare gettandosi nel folto della boscaglia ma si scontrò, voltandosi per vedere se rincorso, contro un albero e cadde all'indietro tramortito: andai a riprenderlo e lo trascinai mani legate dal suo compare…
Una pattuglia dei Medici stava rientrando alla rocca sulla sommità delle millecinquecentocinquanta braccia del monte, tre miglia a maestrale di dove eravamo. il caporale disse: "che è successo qui?"
Mario iniziò indicandoci: "sono Mario Chigi di Siena e questi viaggiano con me; questi qui legati, invece, ci hanno assaliti ed uno di loro ha ferito questa mia guardia" indicò la spalla trafitta di Marco "erano comandati da un'uomo incappucciato che è riuscito a fuggire nel folto, laggiù, verso grecale e da quell'energumeno che ha avuto la peggio",
"mi dispiace per la pessima accoglienza... silenzio voi due" gridò ai ladruncoli "parlerete alla fortezza" e riprese a noi "bel lavoro! datemi le briglie li portiamo su noi, voi proseguite come preferite: vedo vi sapete difendere! alla posta nuova, prima del borgo, c'è un bravo chirurgo che ha studiato dal Paré in Francia, un po' macellaio ma bravo, ci penserà lui a sistemare il vostro amico" infine ai suoi: "spronate i cavalli, andiamo miei prodi!"
via loro dissi stupita: "certo, tesoro, la foresta è grande e siamo entrati nel granducato solo da poche miglia, mi sorprende vedere già in giro truppe",
"è rischioso qui, peccato solo che siano arrivati tardi; andiamo che Marco ha bisogno di cure e fra poco sarà buio"
dovemmo mandare veloci i cavalli, anche se in salita e con Marco che soffriva ad ogni sobbalzo, ma arrivammo giusto sull'imbrunire.
Il barbiere-chirurgo stava terminando una cucitura ad un contadino quando Said e Michele entrarono sostenendo Marco
"perbacco!" esclamò "intanto levategli la camicia e lavatelo bene con quell'acqua bollita, metto l'impiastro al buon vecchio Tobia e arrivo"
così fece, il vecchio salutò ed uscì tranquillo, sulla porta si fermò a parlare con Mario, io guardavo attenta quel che faceva.
Il dardo non era molto affondato e lo sfilò facilmente.
un fiotto di sangue uscì ma cambiò subito in un rigagnolo lento, "bene!" disse "almeno la ferita s'è pulita bene, nulla di rotto, amico mio, a parte un tendine: sei stato fortunato, mezzo pollice più giù e addio braccio..."
Marco era inerte e non disse parola, un sacco sarebbe stato più espressivo,
"e che è un vestito? che ci fa con ago e filo?"
ironizzò Said,
"devo chiudere il foro, sennò s'ammala",
"e il ferro rovente?"
domandò Michele,
"ooh! ste cose da tempi delle crociate! avete visto Tobia prima, no? era un taglio di mezza spanna, questo è appena mezzo dito! su, su, tenetelo fermo che lo buco un paio di volte",
"cos'era quell'impiastro di prima?"
chiesi curiosa,
"bravo ragazzo, domanda giusta, è uovo, trementina e distillato di rose, mescolato insieme: serve a non far marcire la ferita, una delle cose che ho imparato a Parigi",
"sarei una donna...",
"vestita da uomo non l'avevo notato, chiedo venia" e a Michele "fatto, potete portarlo in branda, domattina passo a vedere come sta, ah! se vuole cenare che ceni"
uscirono trascinando Marco
"vieni anche tu?"
mi chiesero in coro,
"si, avviatevi",
"che maleducato, mi chiamo Giacomo",
"capita... Cecilia, dicevo... venite a cena con noi?"
così si unì a noi, a tavola ci raccontò degli studi e di quando entrò a corte come aiutante del medico di Maria de' Medici, dello sfarzo e spreco che vi regna, del Concini vero re in ombra, poi il ritorno a Firenze con l'arrivo del Richelieu; noi tutti pendenti dalle sue labbra ad ascoltare. Sapeva tante cose, alcune le capivo perché me le aveva accennate Federico, altre non ci arrivavo proprio.
Poi di colpo si commosse e gli occhi, al chiarore delle candele sul tavolo, gli brillarono: parlò della figlia, un segreto disse, Elisabetta, cresciuta da principessa e adesso regina in Spagna; "l'ho tenuta in braccio poche volte" disse "non avrei mai dovuto rivelarle nulla, pena lo squartamento, com'è toccato poi, vent'anni fa, al Ravaillac"
"vi state commuovendo..."
dissi,
"oh si, quella monella che ho visto diventare una ragazzina, era un fiore di solo tredici anni quando la mandarono in sposa a Felipe, non l'ho più rivista e mi manca tanto... è rossa come voi sapete?",
l'emozione fu tanto forte che proruppe in un pianto, l'istinto mi guidò ad abbracciarlo e consolarlo, e lui fra le mie braccia sussurrò con la voce rotta: "adesso me la immagino bella e gentile come voi",
vidi gli occhi del mio Mario lucidarsi, capii che anche lui avrebbe voluto poter fare qualcosa per quell'uomo,
forse anche solo portarlo con noi ed imbarcarlo a Livorno su una nave per Barcellona.
L'ora si faceva tarda, ma sotto le arcate e coll'aria fresca, che risaliva dalla foresta si stava benissimo, bevemmo anche un cognac che aveva imparato a fare in Francia, una specie di grappa però più dolce e con un bel colore ambrato; era forte e al primo sorso mi bruciò la gola, poi disse che andava sorseggiato piano respirandolo, magari riuscendo a scaldare il bicchiere con le mani: eseguii, anzi lo facemmo tutti, il profumo man mano aumentava. È molto buono, tutt'oggi ne bevo sempre un bicchierino. Andammo a letto più alticci del solito. La stazione aveva un gineceo e le donne stavano tutte insieme in due cameroni. Vestita da uomo com'ero avrei potuto dormire con Mario, ma scelsi di non farlo: volevo essere libera di pensare e sognare il mio amore.
Non saremmo ripartiti il giorno dopo, con Marco ferito, forse nemmeno quello appresso. Ma lassù si stava bene e il velo di afa era parecchio più in basso.
Dormii con la coperta in un letto molto pulito.
Fu un biennio difficile quello del 1630 e il 1631.
La mia mente era rivolta a quell'uomo di cultura e rigore, lo ammiravo, ne amavo la serietà, l'intelligenza, la dolcezza nei miei confronti, il suono pieno della sua voce mi vibrava nel profondo; quando ero con lui non avevo che il desiderio di farlo felice, di donarmi a lui, di succhiare l'essenza di ogni parola, ogni gesto, ogni pensiero del mio amato mentore.
Ma soffrivo tremendamente dell'impossibilità di vivere quel sentimento alla luce del giorno; per vendetta e dispregio continuavo a gettare queI mio corpo, così turgido e fresco, nel mio ventiquattresimo di cammino nella vita, ma, allo stesso tempo, vecchio e logoro da due lustri di mercimonio, fra braccia ignare della mia sofferenza; gridavo silente, piangevo lacrime aride mentre uomini godevano delle mie carni, lavandosi poi la coscienza con scudi e doni e, infine, tornare poi alle loro mogli.
Mario era diverso, mi giuravo; mi amava, mi dicevo; ma non avevo ben chiaro cosa provassi davvero per lui. Ero felice del fatto che restava con me, che mi cercava e salutava in pubblico, che mi invitava a teatro e non si nascondeva se eravamo in qualche osteria assieme, avevo la speranza che potesse essere amore vero; vacillavo; ero disposta a rinunciare a Federico e renderlo unico; gli avevo già detto tutto di Corner quell'estate del 30, l'accettava, come anche le mie frequentazioni; forse un dubbio mi sarebbe dovuto venire. Divenne triste realtà quando Berenice della Ciaia, sua legittima, venne a Roma quell'inverno: Mario, come tutti gli altri non restava più con me e poi, col nuovo anno, non ci vedemmo più.
Anche il mio corpo cominciava a cambiare, dentro cresceva e scalciava un piccolo Chigi.
E, come per Giacomo, mio figlio non sa chi veramente l'ha tenuto in grembo, carezzando il ventre mentre lui, al sicuro, si nutriva di me, non conosce il dolore che ho patito quando Berenice mi disse (anche questo Mario non lo sa): "è un bel maschietto, non pensavo che una sporca meretrice come te potesse essere una buona fattrice! è adesso figlio mio, punto, tu non sarai mai nulla per lui; verrà chiamato Flavio, come da tradizione e non Alessandro come vorresti".
Il nome dell'unica specie di padre che ho avuto fu la mia sola richiesta, ma era ovvio che non sarebbe stata accolta.
È nato il primo di maggio a Roma, in via di Ripetta, risulta venuto al mondo in Siena il decimo dello stesso mese, in via del casato.
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