Maggio è un mese senza frutti
di
lewarcher
genere
dominazione
Se la pioggia avesse compassione, sarebbe una maliarda seducente, una liquida ovatta sui vetri che separa il mondo dal languore in cui mi adagio. E se un uomo non fa i conti con se stesso, quando si trova solo è in grossi guai.
Dormono, i ragazzi, nelle stanze. Il paralume ocra della lampada sul comodino distribuisce ombre fra le pieghe delle tende, nel vano dell’armadio (dove c’era un mostro, tanti anni fa), sui braccioli della tua poltrona con le calze e i vestiti di ieri.
È l’una di domenica mattina, sarai di rientro e ti aspetto. Sono tornato da tre quarti d’ora, ho fatto in tempo a salutare Laura, che si lavava i denti. Luca, invece, dormiva, perché sono un padre di merda.
Butto la giacca sulla madia per andare a pisciare. La piccola Madonna di ceramica precipita e rimbalza sul tappeto senza rompersi. Piscio a lungo osservandola mentre mi osserva. Lei fa il miracolo e riesco a centrare la tazza. La fisiologia assecondata fa sprizzare le scintille nel cervello, infatti divento all’improvviso ipersensibile agli odori: l’uccello, per esempio, sa un aroma tutto nuovo, un misto ferino e complesso di muco, sudore, saliva, urina, liquido seminale (mio) e umori vaginali (di Cristiana). Le ruote di una macchina scrosciando mi riscuotono. Mi tasto la barba che punge. Come un animale mi riaffaccio nella stanza con il cazzo e i coglioni di fuori, perché stasera voglio sradicarmi ogni residua dignità. Sbarazzarmi della camicia mi inebria. Disfo il letto dalla mia parte e mi lascio cadere di schiena in lenzuola pulite. La camera assomiglia a quella di un hotel, nel senso che sì, sono a casa, ma in fondo rimango per sempre un randagio.
I fanali di un’auto scansionano il soffitto proiettandovi l’ombra dei tuoi fiori nei vasi. Mi sfibbio la cintura lentamente e tiro fuori dalla tasca il cellulare: 17 foto di Cristiana che farebbero sbiancare Bobbi Starr. Ho il cazzo in attesa. È morbido ma non addormentato, vigila al modo dei gatti con gli occhi socchiusi. E le palle pesano sul fondo dello scroto.
Quando sento, giù all’ingresso, il rumore delle chiavi sono nudo. La casa silenziosa all’improvviso ti risponde, riconquisti i territori con ignara sfrontatezza, al volo si capisce chi comanda adesso qui… l’ombrello che tonfa dentro il portaombrelli, l’anta del guardaroba che sbatte col frusciare del soprabito, le scarpe ricacciate contro il muro con la rabbia che viene e che passa in un lampo. La pioggia ti fa incazzare come un ratto messo a mollo per la coda, sorrido immaginandoti. Ma intanto tu incominci a salire per la scala (i piedi da pantera silenziosi e inesorabili, il frusciare della gonna a ciascun passo più vicino): e il mio sorriso a un tratto si fa torbido e sugli occhi si aduna un cupo velo.
Compari sulla porta. Ti seguo con lo sguardo mentre sfili dirigendoti alla sedia per spogliarti. Via il giro delle perle, l’anello, gli orecchini… tintinnano ammucchiandosi dentro il portagioie sul comò. Mi volgi le spalle, muovi i gesti come se non esistessi sbottonando gradualmente la camicia con le mani che discendono dal collo e divaricano i lembi della stoffa, che si schiude sul tuo seno che non vedo. Mi sfioro la pelle con la punta delle dita, rarefatti arzigogoli sul petto e sull’addome, lascivi e voluttuosi, diabolici incentivi per i nervi nell’attesa…
Ti liberi della camicia. I muscoli e la pelle della schiena si rivelano in linee sinuose e arcuate attraversate dalla fascia color indaco del reggiseno. Procedo con le dita, tocco i peli, ci indugio osservandoti avvilire la cerniera della gonna, che cadendo si affloscia intorno ai piedi. I polpastrelli palpano l’uccello e lo massaggiano facendolo pulsare, fra le dita il cazzo si indurisce come un bravo servitore... mi diventa grosso inerpicandosi fin oltre l’ombelico, si scolpisce nel turgore delle vene, sento emergere il canale dell'uretra dilatandosi pervaso da una smania primordiale. Mi rassegno ad essere un insulso portatore mentre ammiro il tuo culo raccolto nei pizzi della brasiliana, le pieghe fra i glutei rotondi e le cosce, un palmo di pelle al di sopra dei fiori traforati delle autoreggenti nere.
Maggio è un mese senza frutti, fa piovere a scrosci sui vetri isolando questo piccolo spettacolo dal mondo. Tu perseveri senza voltarti. Eppure, ansimo, lo senti per forza. Le lenzuola frusciano intorno alle mie gambe che spalanco rinunciando a ogni difesa. Le tue dita sottili disinnescano i ganci del reggiseno, la sfida dunque aumenta di livello, compi il rito della seduzione per il quale la Lussuria ti ha educata.
Posso forse resistere, se mi travolgi? Impugno il cazzo sotto la cappella ricavandone un benessere immediato, fremendo di tensione. Le tette, il primo stadio della perdizione, vengono liberate oltre il torace, non viste ma immaginate, eleganti e acuminate con le piccole rosette protese. La schiena, magra e nervosa, è segnata dal solco della spina dorsale, che si perde nel culo, nello spacco arcano in cui il pizzo scompare. Che profumo c'è, là dentro? E sotto, dove la seta avvolge il fagottino della figa? Mi sego profanandoti con gli occhi e con la mente e se tu fossi qui, ora, Cristiana, sentiremmo lo sguazzare delle dita nella passera e i gemiti sognanti di una femmina che gode fornirebbero la voce al tuo piacere.
Con le dita negli elastici sui fianchi scacci in basso le mutande (fuoriescono dal solco fra le natiche) e inchinandoti in avanti trovi il modo che ti veda al tempo stesso il buco del culo e la figa, rannicchiata e chiusa nel suo guscio fra le cosce, l’origine del mondo in un mistero ribadito ad ogni uomo che abbia gli occhi per resistere a una donna. E, finalmente, ti giri...
Il boccheggiare è proprio di chi muore. Senza vergogna vedi che lo faccio coi miei occhi trasognati. Mi cammini incontro con le sole autoreggenti (le autoreggenti nere con la riga posteriore), nel passo hai l’andatura di una strega pornoerotica, negli occhi ti balugina quello che mi vuoi fare: quello che intendi fare di me. Respiro in abbandono contemplando, dal basso, le tette. Tu sollevi un piede e me lo premi sulla faccia. Ti guardo la figa e tu guardi il mio cazzo nel tormento disperato dentro il pugno.
Togli il piede e ti accosti alla guancia per sentire quale aroma ci hai lasciato; quindi, la lecchi come una puttana che si fotte di morale e di pietà. La tua lingua calda scorre morbida sul collo, scivola indugiando sui capezzoli con voluttà perversa. Ti dirigi in basso verso il cazzo montandomi sul viso a cavalcioni. Hai la figa stanca e imporporata, spalancata nel richiamo del vestibolo lucente, che lusinga sia la vista sia l’olfatto con l’offerta della tua vagina e il minuscolo buchino dell’uretra.
Ti abbraccio per i fianchi nudi, ti attiro sulla bocca pervertendomi nell’atto più volgare e sconsacrante, ti divoro nella figa con perduta devozione, la tua anima sessuale che mi cola nella gola mi appartiene in un tutt’uno con l’essenza di una donna che soltanto un’ora fa stava in un letto sconosciuto. Pareggi assaporando il gusto di Cristiana. Sento la tua lingua circondare la cappella, le mucose morbide e sugose la ricevono e io spingo per cacciartela più in fondo nella gola. Un sussulto m’invoglia a violarti nell'ano. Ti lecco nel buco del culo, tu vieni gridando. Mi pisci nella bocca e io ti sborro nella gola.
Dormono, i ragazzi, nelle stanze. Il paralume ocra della lampada sul comodino distribuisce ombre fra le pieghe delle tende, nel vano dell’armadio (dove c’era un mostro, tanti anni fa), sui braccioli della tua poltrona con le calze e i vestiti di ieri.
È l’una di domenica mattina, sarai di rientro e ti aspetto. Sono tornato da tre quarti d’ora, ho fatto in tempo a salutare Laura, che si lavava i denti. Luca, invece, dormiva, perché sono un padre di merda.
Butto la giacca sulla madia per andare a pisciare. La piccola Madonna di ceramica precipita e rimbalza sul tappeto senza rompersi. Piscio a lungo osservandola mentre mi osserva. Lei fa il miracolo e riesco a centrare la tazza. La fisiologia assecondata fa sprizzare le scintille nel cervello, infatti divento all’improvviso ipersensibile agli odori: l’uccello, per esempio, sa un aroma tutto nuovo, un misto ferino e complesso di muco, sudore, saliva, urina, liquido seminale (mio) e umori vaginali (di Cristiana). Le ruote di una macchina scrosciando mi riscuotono. Mi tasto la barba che punge. Come un animale mi riaffaccio nella stanza con il cazzo e i coglioni di fuori, perché stasera voglio sradicarmi ogni residua dignità. Sbarazzarmi della camicia mi inebria. Disfo il letto dalla mia parte e mi lascio cadere di schiena in lenzuola pulite. La camera assomiglia a quella di un hotel, nel senso che sì, sono a casa, ma in fondo rimango per sempre un randagio.
I fanali di un’auto scansionano il soffitto proiettandovi l’ombra dei tuoi fiori nei vasi. Mi sfibbio la cintura lentamente e tiro fuori dalla tasca il cellulare: 17 foto di Cristiana che farebbero sbiancare Bobbi Starr. Ho il cazzo in attesa. È morbido ma non addormentato, vigila al modo dei gatti con gli occhi socchiusi. E le palle pesano sul fondo dello scroto.
Quando sento, giù all’ingresso, il rumore delle chiavi sono nudo. La casa silenziosa all’improvviso ti risponde, riconquisti i territori con ignara sfrontatezza, al volo si capisce chi comanda adesso qui… l’ombrello che tonfa dentro il portaombrelli, l’anta del guardaroba che sbatte col frusciare del soprabito, le scarpe ricacciate contro il muro con la rabbia che viene e che passa in un lampo. La pioggia ti fa incazzare come un ratto messo a mollo per la coda, sorrido immaginandoti. Ma intanto tu incominci a salire per la scala (i piedi da pantera silenziosi e inesorabili, il frusciare della gonna a ciascun passo più vicino): e il mio sorriso a un tratto si fa torbido e sugli occhi si aduna un cupo velo.
Compari sulla porta. Ti seguo con lo sguardo mentre sfili dirigendoti alla sedia per spogliarti. Via il giro delle perle, l’anello, gli orecchini… tintinnano ammucchiandosi dentro il portagioie sul comò. Mi volgi le spalle, muovi i gesti come se non esistessi sbottonando gradualmente la camicia con le mani che discendono dal collo e divaricano i lembi della stoffa, che si schiude sul tuo seno che non vedo. Mi sfioro la pelle con la punta delle dita, rarefatti arzigogoli sul petto e sull’addome, lascivi e voluttuosi, diabolici incentivi per i nervi nell’attesa…
Ti liberi della camicia. I muscoli e la pelle della schiena si rivelano in linee sinuose e arcuate attraversate dalla fascia color indaco del reggiseno. Procedo con le dita, tocco i peli, ci indugio osservandoti avvilire la cerniera della gonna, che cadendo si affloscia intorno ai piedi. I polpastrelli palpano l’uccello e lo massaggiano facendolo pulsare, fra le dita il cazzo si indurisce come un bravo servitore... mi diventa grosso inerpicandosi fin oltre l’ombelico, si scolpisce nel turgore delle vene, sento emergere il canale dell'uretra dilatandosi pervaso da una smania primordiale. Mi rassegno ad essere un insulso portatore mentre ammiro il tuo culo raccolto nei pizzi della brasiliana, le pieghe fra i glutei rotondi e le cosce, un palmo di pelle al di sopra dei fiori traforati delle autoreggenti nere.
Maggio è un mese senza frutti, fa piovere a scrosci sui vetri isolando questo piccolo spettacolo dal mondo. Tu perseveri senza voltarti. Eppure, ansimo, lo senti per forza. Le lenzuola frusciano intorno alle mie gambe che spalanco rinunciando a ogni difesa. Le tue dita sottili disinnescano i ganci del reggiseno, la sfida dunque aumenta di livello, compi il rito della seduzione per il quale la Lussuria ti ha educata.
Posso forse resistere, se mi travolgi? Impugno il cazzo sotto la cappella ricavandone un benessere immediato, fremendo di tensione. Le tette, il primo stadio della perdizione, vengono liberate oltre il torace, non viste ma immaginate, eleganti e acuminate con le piccole rosette protese. La schiena, magra e nervosa, è segnata dal solco della spina dorsale, che si perde nel culo, nello spacco arcano in cui il pizzo scompare. Che profumo c'è, là dentro? E sotto, dove la seta avvolge il fagottino della figa? Mi sego profanandoti con gli occhi e con la mente e se tu fossi qui, ora, Cristiana, sentiremmo lo sguazzare delle dita nella passera e i gemiti sognanti di una femmina che gode fornirebbero la voce al tuo piacere.
Con le dita negli elastici sui fianchi scacci in basso le mutande (fuoriescono dal solco fra le natiche) e inchinandoti in avanti trovi il modo che ti veda al tempo stesso il buco del culo e la figa, rannicchiata e chiusa nel suo guscio fra le cosce, l’origine del mondo in un mistero ribadito ad ogni uomo che abbia gli occhi per resistere a una donna. E, finalmente, ti giri...
Il boccheggiare è proprio di chi muore. Senza vergogna vedi che lo faccio coi miei occhi trasognati. Mi cammini incontro con le sole autoreggenti (le autoreggenti nere con la riga posteriore), nel passo hai l’andatura di una strega pornoerotica, negli occhi ti balugina quello che mi vuoi fare: quello che intendi fare di me. Respiro in abbandono contemplando, dal basso, le tette. Tu sollevi un piede e me lo premi sulla faccia. Ti guardo la figa e tu guardi il mio cazzo nel tormento disperato dentro il pugno.
Togli il piede e ti accosti alla guancia per sentire quale aroma ci hai lasciato; quindi, la lecchi come una puttana che si fotte di morale e di pietà. La tua lingua calda scorre morbida sul collo, scivola indugiando sui capezzoli con voluttà perversa. Ti dirigi in basso verso il cazzo montandomi sul viso a cavalcioni. Hai la figa stanca e imporporata, spalancata nel richiamo del vestibolo lucente, che lusinga sia la vista sia l’olfatto con l’offerta della tua vagina e il minuscolo buchino dell’uretra.
Ti abbraccio per i fianchi nudi, ti attiro sulla bocca pervertendomi nell’atto più volgare e sconsacrante, ti divoro nella figa con perduta devozione, la tua anima sessuale che mi cola nella gola mi appartiene in un tutt’uno con l’essenza di una donna che soltanto un’ora fa stava in un letto sconosciuto. Pareggi assaporando il gusto di Cristiana. Sento la tua lingua circondare la cappella, le mucose morbide e sugose la ricevono e io spingo per cacciartela più in fondo nella gola. Un sussulto m’invoglia a violarti nell'ano. Ti lecco nel buco del culo, tu vieni gridando. Mi pisci nella bocca e io ti sborro nella gola.
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