Splendi per sempre
di
lewarcher
genere
pulp
Entrare nel mio ufficio ormai mi nausea. Negli anni ho dedicato troppa cura a elaborare questo spazio, che adesso mi assomiglia in modo atroce. Con un’indulgenza indecifrabile il Capo mi dà carta bianca e io ne approfitto per fare ciò che faccio ogni giorno da quando ho coscienza, cioè imprimermi (con determinazione disinvolta) nella materia dei luoghi e di coloro che ci vivono. Abito in un mondo che è una casa labirintica di specchi: mi rifletto e replico dovunque, con ridicola e straziante crudeltà… Mi abbandono nella mia poltrona, guardo il piano della scrivania ingombro di lettere, blocchi d’appunti, verbali… Non butto via niente, accumulo la messe informativa in un ordine caotico che dialoga con la tortuosità del mio cervello. Recupero il mio promemoria di ieri, mi adagio sullo schienale e inizio a ripassare il triste elenco…
“Posso disturbarti?”. Ruoto gli occhi all’insù di mezzo grado per posarli, oltre il bordo del foglio, su Liliana nel riquadro della porta, precisamente il tempo che mi basta a realizzare che conviene che la esamini un po’ meglio.
“Tu puoi farmi quello che vuoi, ragazzina”, borbotto issandomi e piegandomi in avanti con i gomiti piantati nelle cosce, come faccio se decido di devolvere a qualcuno tutta quanta la mia considerazione. Ma quanti anni avrai? Ventuno? Ventidue? E quindi cosa cristo ci fai in un posto così?, rimugino (insieme ad altre cose) intanto che le iridi di lei, assolutamente nere, scompaiono e riappaiono sotto le pennellate delle ciglia. Una pubblicità di quando ero bambino mostrava una cascata di succo di liquirizia identica ai capelli che le spiovono sulle clavicole sottili. Già che ci sono strofino i miei occhi maleducati sul suo tubino ardesia senza spalle, fasciato intorno a due tettine lievi ma non prive di carattere, a un addome rifinito dallo sport, alle cosce interminabili create per confondere un vizioso come me. E infine, diosanto, li depongo ai suoi piedi nei sandali neri di pelle intrecciata, tacco medio a base larga, quelli che mi uccidono a colpo sicuro. Deglutisco, ma con la faccia seria di un cagnaccio. Intanto, da molto lontano, fuori dall’orizzonte dei miei sogni, la sua voce fresca e intelligente mi riscuote per dirmi: “Ti scrive una certa Maddalena”. Liliana mi porge una stampa divaricandosi a X tra lo stipite e la mia scrivania, in equilibrio prodigioso su una gamba. La guardo, guardo il foglio a malincuore e leggo.
“Voglio che tu uccida mio marito. Liberami da lui, ti scongiuro! E sbarazzami dal dottor Onofrio. Ti amo. Vivo ancora a Candice, come allora. Maddalena”.
Però, pensavo peggio… Venticinque fottute parole. Le rileggo sette volte prima di girare il foglio e trovarci sul retro (a colori) la merdosa faccia del marito. Non sono mai stato un lombrosiano praticante, ma cazzo se Madre Idiozia si è masturbata sulla faccia di costui! Non per questo merita la morte, beninteso. Quella glie la darò perché lo vuole Maddalena. Ma diciamo che la mia benevolenza se n’è andata con la prima impressione. E magari era precisamente questo che volevi, Maddalena. Liliana, che scorrendoci con l’indice accarezza le coste dei miei libri, ne prende uno e legge sulla copertina: “Le dimensioni del cazzo degli Angeli. Rassegna illustrata”. Sorride dolcemente fra le labbra nere. Ho una libreria ben assortita, in effetti. Io penso a Maddalena, che si è ricordata di me. Una vita, l’immemore sequenza di una vita. Eravamo all’università, e adesso si ricorda di me…
Il mio corpo è disegnato da fottute cicatrici. Ne ho una che mi spunta dal polsino e poi scompare sotto la camicia, solo io e qualcun’altra sappiamo che mi arriva sul torace e lì disegna un albero frondoso, molto bello addirittura. Guardo il culo di Liliana fare la spola da un montante all’altro degli scaffali. “Non è che mi daresti quello lì?”. Me lo porta. Si avvicina, è gentile con me e sa di buono.
Quando arriva l’ora di pensare il mio sigaro diventa un’appendice necessaria del cervello. Ho il posacenere pieno, come le coronarie e i coglioni. Fumo cercando nel libro che ho chiesto a Liliana quello che in pochi (credo) conoscono riguardo al minuscolo paese di Candice. Liliana canticchia in sottofondo mentre sfoglio l’”Almanacco delle orge contadine”. Candice ne ha una il 27 aprile e una seconda, più importante e rinomata, il 22 settembre. Domani! Come ci è finita, Maddalena, a Candice? D’altronde solo lei mi può conoscere in quel modo…
È ipnotico il fluttuare del culetto di Liliana sulle note che si sente nella testa. Mi stringe una voglia bastarda di prenderla e inchiodarla qui sul tavolo, guardarla dritto in fondo agli occhi di gazza ladra e poi strapparle via quel cazzo di straccetto dalle tette, che deve avere candide e fumanti come due tazze di latte profumato. Ma evito, perché le voglio bene. “Vieni con me?”, le domando. “Dove?”. “A Candice”. Mi fissa solo un attimo, fa rapide spallucce e torna a girovagare con lo sguardo sui dorsi dei libri. Il mio cazzo feroce di mastino mi ringhia di andare a fanculo. Lei protende un braccio e le ditine fino all’ultimo scaffale, si solleva sulle punte canticchiando ignara e assorta…
Candice è a tre ore da qui. Avviso il Capo che prendo la macchina e gli riferisco del piano. Ammetto che mi scuote sempre un brivido, quando sono dal Capo, perché è un omone gigantesco con una pancia tale che impedisce di abbracciarlo, ma a nessuno verrebbe mai l’idea di piazzare un pugno in quella montagna di carne. Deve essere dura come ogni cosa visibile in lui, ma neanche lontanamente granitica come l’espressione del suo viso. Tace ascoltando con l’aria di un vecchio randagio che ne ha viste tante, ma tante… “Quindi tu pensi che questo merdoso di Onofrio stia architettando qualcosa di serio, è così?”. “Sì, e lo farà questa sera, prima dell’orgia paesana di domani”. Gli porgo il messaggio di Maddalena. Il Capo lo affronta col cipiglio che avrei io se dovessi decifrare lo swahili. “Non combinare un casino dei tuoi. Nel bagagliaio dovrebbero esserci ancora due o tre bottiglie, è chiaro?”. Mi restituisce il foglio ammonendomi con gli occhi che aveva mio padre, quando mi copriva con la mamma dopo un guaio.
Liliana va a casa a cambiarsi e ritorna in anfibi, jeans skinny e un pull morbido beige molto largo. Io invece assomiglio (o mi illudo) al James Woods di Vampires. “Mettiamo un po’ di Impaled Nazarene?”, la stuzzico adocchiando le cinture che si tendono fasciandole l’addome e separandole i seni. “Io in macchina ascolto Sinatra”. Santa ragazza! Metto in moto. Non mi dispiace affatto che il viaggio incominci accompagnato da Last Night When We Were Young...
Mi modero alla guida per avere l’impressione che la nostra sia soltanto una lieta vacanza clandestina. La statale 406 sfila via con le rade abitazioni, i capannoni, i pioppeti, i campi sterminati e lavorati… Liliana guarda fuori, si toglie e si rimette gli occhiali da sole, potrei dire che è contenta. Ha portato con sé il libro in una borsa di tela che trattiene con le mani sul grembo. Non fa tante domande, però parliamo molto. Le racconto di varie pallottole vere o inventate (ho la pelle di un rinoceronte e un cuore di ferro)… le parlo di Ezechia Malone detto il Porco che quasi mi ammazzava, però io l’ho inseguito su per i tornanti della Giogaia, quasi a secco di benzina, finché non sono rotolato giù con tutta la mia macchina per cinquanta metri di scarpata, e lui quindi mi è sfuggito un’altra volta, le dico toccandomi l’albero che ho sotto la camicia. “Ma è stato tanti anni fa”. Lei guarda fuori, prende il libro, lo sfoglia fino alla pagina di Candice. “Onofrio è Malone, non è vero?”. “Sì”.
Arriviamo dalle parti di Candice che è già sera. Da qui saprei raggiungere la casa persino bendato (la scala inerpicata priva di pianerottolo, la porta della camera accostata, il sussurro a precipizio di una giovane che supplica di essere spogliata, nel palpito del suo batticuore… io comincio, a diciannove anni, a denudarla, spalancando la camicia sul suo seno, sull’atavica ostensione delle tette tatuate, tabernacoli di carne e di piacere… sulla concavità del ventre teso… sul tondo ombelico incavato che lecco e strofino col viso bagnato dalla mia saliva… le mie dita sul bottone di metallo, le mani aggrappate ai suoi jeans per tirarglieli giù, lo straccetto immacolato e senza scampo fra le cosce, sull’inguine gonfio di ricci, baluardo stupefatto della figa accennata in un tenue e fragrante rilievo…)… “Ho fame!”. Mia povera Liliana, hai ragione! Mi faccio attento a ogni insegna che ci viene incontro.
È buio, ma c’è uno Stregatto di luna in mezzo alle stelle. Lei mi mette una mano sulla coscia, non verso il ginocchio, ma molto più su… “Fermati qui”, mi dice senza togliere la mano. Fanculo, fanculo!, mi ringhia il mio cazzo screanzato… La Locanda del Bandito, ma bene, un bel nome rassicurante! Le afferro la mano e me la metto sul cazzo, lei stringe le dita per conoscere il mio uccello e le piace, se lo palpa come il muso affusolato di un cane. Do un’accelerata come un pazzo di traverso nel parcheggio, finisco a fari spenti sotto una tettoia, mi tiro su Liliana a cavalcioni, le sfilo via il maglione dalla testa e dalle braccia e stringendole forte la schiena mi metto a mangiarle le tette. Diocristo! morirei sopra le tette di Liliana…
Via via che attorciglio la lingua roteando sulle areole raggrumate, la mia foga si trasforma in desiderio di sentirla godere. Mi sbottona i pantaloni liberandomi un cazzo da spavento, me lo sega con due mani mentre inizio ad ansimarle con la bocca semiaperta su una tetta, ma conservo un minimo controllo che mi basta per scacciarle via l’anfibio da un suo piede… e poi dall’altro. Mi tiro su in inginocchio sul sedile di guida rovesciando lei di schiena su quello del passeggero e a gambe all’aria la sbarazzo dai jeans e le mutande tutto insieme. La figa scartocciata si distende in un invito, spalancata nel richiamo più antico della lussuria. La mia cappella tremola oltre il pugno stretto a morsa, la conduco dentro il soffice bollore del vestibolo, obbligando le mucose vaginali a dilatarsi… Balugina negli occhi della giovane la sfida o la minaccia della femmina che elegge il suo compagno. Affondo tutto il cazzo nel suo corpo, la mia cappella gode ogni piacere, le palle mi si ingorgano in fermento, Liliana emette un rapido sospiro…
L’abitacolo è angusto, ma noi siamo bravi. L’infinito struggimento della sera, silenzioso e buio, là fuori, è abitato da nessuno (crediamo). Liliana è appena più che una ragazza esattamente come allora Maddalena. La mia carne viva la percuote nelle fradice interiora con furore assurdo e senza senso. Lei grida, mi pianta un suo piede nudo nel petto, sull’albero delle mie cicatrici. Chino la testa, succhio il suo alluce, vengo.
CONTINUA (forse...)
“Posso disturbarti?”. Ruoto gli occhi all’insù di mezzo grado per posarli, oltre il bordo del foglio, su Liliana nel riquadro della porta, precisamente il tempo che mi basta a realizzare che conviene che la esamini un po’ meglio.
“Tu puoi farmi quello che vuoi, ragazzina”, borbotto issandomi e piegandomi in avanti con i gomiti piantati nelle cosce, come faccio se decido di devolvere a qualcuno tutta quanta la mia considerazione. Ma quanti anni avrai? Ventuno? Ventidue? E quindi cosa cristo ci fai in un posto così?, rimugino (insieme ad altre cose) intanto che le iridi di lei, assolutamente nere, scompaiono e riappaiono sotto le pennellate delle ciglia. Una pubblicità di quando ero bambino mostrava una cascata di succo di liquirizia identica ai capelli che le spiovono sulle clavicole sottili. Già che ci sono strofino i miei occhi maleducati sul suo tubino ardesia senza spalle, fasciato intorno a due tettine lievi ma non prive di carattere, a un addome rifinito dallo sport, alle cosce interminabili create per confondere un vizioso come me. E infine, diosanto, li depongo ai suoi piedi nei sandali neri di pelle intrecciata, tacco medio a base larga, quelli che mi uccidono a colpo sicuro. Deglutisco, ma con la faccia seria di un cagnaccio. Intanto, da molto lontano, fuori dall’orizzonte dei miei sogni, la sua voce fresca e intelligente mi riscuote per dirmi: “Ti scrive una certa Maddalena”. Liliana mi porge una stampa divaricandosi a X tra lo stipite e la mia scrivania, in equilibrio prodigioso su una gamba. La guardo, guardo il foglio a malincuore e leggo.
“Voglio che tu uccida mio marito. Liberami da lui, ti scongiuro! E sbarazzami dal dottor Onofrio. Ti amo. Vivo ancora a Candice, come allora. Maddalena”.
Però, pensavo peggio… Venticinque fottute parole. Le rileggo sette volte prima di girare il foglio e trovarci sul retro (a colori) la merdosa faccia del marito. Non sono mai stato un lombrosiano praticante, ma cazzo se Madre Idiozia si è masturbata sulla faccia di costui! Non per questo merita la morte, beninteso. Quella glie la darò perché lo vuole Maddalena. Ma diciamo che la mia benevolenza se n’è andata con la prima impressione. E magari era precisamente questo che volevi, Maddalena. Liliana, che scorrendoci con l’indice accarezza le coste dei miei libri, ne prende uno e legge sulla copertina: “Le dimensioni del cazzo degli Angeli. Rassegna illustrata”. Sorride dolcemente fra le labbra nere. Ho una libreria ben assortita, in effetti. Io penso a Maddalena, che si è ricordata di me. Una vita, l’immemore sequenza di una vita. Eravamo all’università, e adesso si ricorda di me…
Il mio corpo è disegnato da fottute cicatrici. Ne ho una che mi spunta dal polsino e poi scompare sotto la camicia, solo io e qualcun’altra sappiamo che mi arriva sul torace e lì disegna un albero frondoso, molto bello addirittura. Guardo il culo di Liliana fare la spola da un montante all’altro degli scaffali. “Non è che mi daresti quello lì?”. Me lo porta. Si avvicina, è gentile con me e sa di buono.
Quando arriva l’ora di pensare il mio sigaro diventa un’appendice necessaria del cervello. Ho il posacenere pieno, come le coronarie e i coglioni. Fumo cercando nel libro che ho chiesto a Liliana quello che in pochi (credo) conoscono riguardo al minuscolo paese di Candice. Liliana canticchia in sottofondo mentre sfoglio l’”Almanacco delle orge contadine”. Candice ne ha una il 27 aprile e una seconda, più importante e rinomata, il 22 settembre. Domani! Come ci è finita, Maddalena, a Candice? D’altronde solo lei mi può conoscere in quel modo…
È ipnotico il fluttuare del culetto di Liliana sulle note che si sente nella testa. Mi stringe una voglia bastarda di prenderla e inchiodarla qui sul tavolo, guardarla dritto in fondo agli occhi di gazza ladra e poi strapparle via quel cazzo di straccetto dalle tette, che deve avere candide e fumanti come due tazze di latte profumato. Ma evito, perché le voglio bene. “Vieni con me?”, le domando. “Dove?”. “A Candice”. Mi fissa solo un attimo, fa rapide spallucce e torna a girovagare con lo sguardo sui dorsi dei libri. Il mio cazzo feroce di mastino mi ringhia di andare a fanculo. Lei protende un braccio e le ditine fino all’ultimo scaffale, si solleva sulle punte canticchiando ignara e assorta…
Candice è a tre ore da qui. Avviso il Capo che prendo la macchina e gli riferisco del piano. Ammetto che mi scuote sempre un brivido, quando sono dal Capo, perché è un omone gigantesco con una pancia tale che impedisce di abbracciarlo, ma a nessuno verrebbe mai l’idea di piazzare un pugno in quella montagna di carne. Deve essere dura come ogni cosa visibile in lui, ma neanche lontanamente granitica come l’espressione del suo viso. Tace ascoltando con l’aria di un vecchio randagio che ne ha viste tante, ma tante… “Quindi tu pensi che questo merdoso di Onofrio stia architettando qualcosa di serio, è così?”. “Sì, e lo farà questa sera, prima dell’orgia paesana di domani”. Gli porgo il messaggio di Maddalena. Il Capo lo affronta col cipiglio che avrei io se dovessi decifrare lo swahili. “Non combinare un casino dei tuoi. Nel bagagliaio dovrebbero esserci ancora due o tre bottiglie, è chiaro?”. Mi restituisce il foglio ammonendomi con gli occhi che aveva mio padre, quando mi copriva con la mamma dopo un guaio.
Liliana va a casa a cambiarsi e ritorna in anfibi, jeans skinny e un pull morbido beige molto largo. Io invece assomiglio (o mi illudo) al James Woods di Vampires. “Mettiamo un po’ di Impaled Nazarene?”, la stuzzico adocchiando le cinture che si tendono fasciandole l’addome e separandole i seni. “Io in macchina ascolto Sinatra”. Santa ragazza! Metto in moto. Non mi dispiace affatto che il viaggio incominci accompagnato da Last Night When We Were Young...
Mi modero alla guida per avere l’impressione che la nostra sia soltanto una lieta vacanza clandestina. La statale 406 sfila via con le rade abitazioni, i capannoni, i pioppeti, i campi sterminati e lavorati… Liliana guarda fuori, si toglie e si rimette gli occhiali da sole, potrei dire che è contenta. Ha portato con sé il libro in una borsa di tela che trattiene con le mani sul grembo. Non fa tante domande, però parliamo molto. Le racconto di varie pallottole vere o inventate (ho la pelle di un rinoceronte e un cuore di ferro)… le parlo di Ezechia Malone detto il Porco che quasi mi ammazzava, però io l’ho inseguito su per i tornanti della Giogaia, quasi a secco di benzina, finché non sono rotolato giù con tutta la mia macchina per cinquanta metri di scarpata, e lui quindi mi è sfuggito un’altra volta, le dico toccandomi l’albero che ho sotto la camicia. “Ma è stato tanti anni fa”. Lei guarda fuori, prende il libro, lo sfoglia fino alla pagina di Candice. “Onofrio è Malone, non è vero?”. “Sì”.
Arriviamo dalle parti di Candice che è già sera. Da qui saprei raggiungere la casa persino bendato (la scala inerpicata priva di pianerottolo, la porta della camera accostata, il sussurro a precipizio di una giovane che supplica di essere spogliata, nel palpito del suo batticuore… io comincio, a diciannove anni, a denudarla, spalancando la camicia sul suo seno, sull’atavica ostensione delle tette tatuate, tabernacoli di carne e di piacere… sulla concavità del ventre teso… sul tondo ombelico incavato che lecco e strofino col viso bagnato dalla mia saliva… le mie dita sul bottone di metallo, le mani aggrappate ai suoi jeans per tirarglieli giù, lo straccetto immacolato e senza scampo fra le cosce, sull’inguine gonfio di ricci, baluardo stupefatto della figa accennata in un tenue e fragrante rilievo…)… “Ho fame!”. Mia povera Liliana, hai ragione! Mi faccio attento a ogni insegna che ci viene incontro.
È buio, ma c’è uno Stregatto di luna in mezzo alle stelle. Lei mi mette una mano sulla coscia, non verso il ginocchio, ma molto più su… “Fermati qui”, mi dice senza togliere la mano. Fanculo, fanculo!, mi ringhia il mio cazzo screanzato… La Locanda del Bandito, ma bene, un bel nome rassicurante! Le afferro la mano e me la metto sul cazzo, lei stringe le dita per conoscere il mio uccello e le piace, se lo palpa come il muso affusolato di un cane. Do un’accelerata come un pazzo di traverso nel parcheggio, finisco a fari spenti sotto una tettoia, mi tiro su Liliana a cavalcioni, le sfilo via il maglione dalla testa e dalle braccia e stringendole forte la schiena mi metto a mangiarle le tette. Diocristo! morirei sopra le tette di Liliana…
Via via che attorciglio la lingua roteando sulle areole raggrumate, la mia foga si trasforma in desiderio di sentirla godere. Mi sbottona i pantaloni liberandomi un cazzo da spavento, me lo sega con due mani mentre inizio ad ansimarle con la bocca semiaperta su una tetta, ma conservo un minimo controllo che mi basta per scacciarle via l’anfibio da un suo piede… e poi dall’altro. Mi tiro su in inginocchio sul sedile di guida rovesciando lei di schiena su quello del passeggero e a gambe all’aria la sbarazzo dai jeans e le mutande tutto insieme. La figa scartocciata si distende in un invito, spalancata nel richiamo più antico della lussuria. La mia cappella tremola oltre il pugno stretto a morsa, la conduco dentro il soffice bollore del vestibolo, obbligando le mucose vaginali a dilatarsi… Balugina negli occhi della giovane la sfida o la minaccia della femmina che elegge il suo compagno. Affondo tutto il cazzo nel suo corpo, la mia cappella gode ogni piacere, le palle mi si ingorgano in fermento, Liliana emette un rapido sospiro…
L’abitacolo è angusto, ma noi siamo bravi. L’infinito struggimento della sera, silenzioso e buio, là fuori, è abitato da nessuno (crediamo). Liliana è appena più che una ragazza esattamente come allora Maddalena. La mia carne viva la percuote nelle fradice interiora con furore assurdo e senza senso. Lei grida, mi pianta un suo piede nudo nel petto, sull’albero delle mie cicatrici. Chino la testa, succhio il suo alluce, vengo.
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