Domenico Cap.: I° Cap.: XVI Sevizie

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prime esperienze

Domenico
Cap.: I°

“Dove vai, Domenico?”
“A stendermi fra il canneto della sorgiva. Fa tanto caldo, mamma!”
“Stai attento, ragazzo mio; non inoltrarti troppo! Ahh, pescami degli scazzoni per una frittata, ma non cucinarli al sole!”
“Non preoccuparti. Te li prenderò, mamma!” La sorgiva distava ad un tiro di schioppo dalla sua abitazione e lui desiderava il refrigerio del verde e la musica dello stormire del canneto provocata dalla leggera brezza che attutiva l’afa pomeridiana. Conosceva l’area e le sue specie viventi, compresi i piccoli , richiestigli dalla madre. Il loro habitat era tra le graminacee e il trifoglio d’acqua dolce al di là del canneto. Glieli avrebbe catturati sul tardino per non farli soffrire troppo, assieme a qualche ranocchia. Prima, però, si sarebbe steso per stare al fresco sul fitto reticolo di graminacee costellanti la sorgiva e per farsi cullare dai calori del sole e da quello del terreno, come gli era stato raccomandato dalla nutrice all’inizio dell’estate; a volte andava con la compagnia materna, quando la madre, approfittando del momento desiderava parlargli per conoscere quei turbamenti che sempre più frequentemente lo prendevano. Per sentirsi meglio bagnò il giaciglio verde. Varie volte aveva goduto di quell’angolo rigoglioso con i suoi pantaloncini sotto il volto, che gli facevano da guanciale per non trovarselo successivamente segnato da impronte di foglie o di steli. In quel luogo appartato, lontano da occhi indiscreti, discinto si godeva con piacere le carezze solari e gli stimoli che dal suo fisico germogliavano sempre più frequentemente, abbellendolo di roridi, luminosi guazzi. Lo incantava quell’angolo anche per i turbamenti che nel sonno gli erano instillati. Dormiva, riposava, sognava: sovente era una libellula azzurra che, dopo aver sfiorato il manto acquatico, andava a posarsi su uno stelo dondolante per accogliere sul dorso un suo simile offrendogli la sua cloaca, vogliosa di sentirsi otturata; altre volte si scorgeva in compagnia di tante ranocchie verdi che, alla loro cattura, gli rispondevano irrorandolo della loro pipì; in altre visioni si trovava accarezzato, sfiorato, lambito da sinuosità viscide, umide, colanti fluidi scivolosi, caldi, sensuali che avevano la proprietà di illanguidirlo, spossarlo, svigorirlo sino a fargli abbandonare qualsiasi resistenza a farsi conoscere, anche nei suoi più reconditi anfratti; ultimamente quel muschio su cui riposava si trasformava in crema melmosa, viva, dinamica, calda, sensuale, terribilmente eccitante, che gli saliva sopra fasciandolo, cingendolo lentamente con le sue creme sino a ricoprirlo totalmente e poi con calma, senza fretta si muoveva avanti e indietro, zizzagando o serpeggiando sino a fargli sgorgare qualcosa di trasparente e poi nel proseguo dell’estasi raggiunta a spingerlo a svuotare la vescica
Sonnecchiava. Sognava. Incedeva piroettando e saltellando, scalzo e discinto, fra liane serpeggianti e dinamiche, steli verdi e umidi di viscosità, fra muschi e gramigne che si spostavano al suo passaggio per ammirarne la sensualità che principiava ad erompere da tutti i suoi pori. Ambrato, sfavillante di vitalità, leggero, snello, flessuoso, disinvolto, ma naturale nel muoversi, come gli era stato insegnato dalla madre, intrepido, ma premuroso, attento e rispettoso della vita che lo circondava, attirava attenzioni di esseri che bramavano farlo suo.
Artigliato, serrato fra dita uncinate, levato in alto per essere esaminato da altra visuale e contemplato, mentre si dimenava per fuggire e sottrarsi ad una rossa, lunga lingua irriverente, dalla forma di verme, che in punta presentava due uncini, aventi modo proprio di muoversi. Era stato individuato e scoperto grazie alle escrezioni espulse piano piano dal suo organo genitale, percepite e annusate da grande distanza dal mostro che l’avrebbe catturato, per farne la chioccia delle sue uova. Creatura bicefala, orribile, deforme, demoniaca, alata, con artigli prensili e fauci da ranocchia; con un pungiglione ad inizio lombi che usò per immobilizzarlo, tranquillizzarlo e renderlo mansueto ed innocuo, simile a quello di un calabrone; dagli occhi grandi, verdi, profondi, ammaliatori; odorante di urine di anfibio; ambosessuale con una vagina da cui pendeva un cannello, simile ad un ovidotto e un fallo che lentamente emergeva da un fodero, utilizzato per irrorarlo di liquidi densi e oleaginosi, adatti a prepararlo prima ad una lenta, progressiva sodomizzazione e poi a ricevere il contenuto della borsa scrotale, su cui la bestia aveva fatto adagiare il giovinetto, per trasformarlo in incubatrice della loro figliolanza. Frustato, sculacciato, spianato da quella lingua che dalle spalle sdrucciolava, guizzava verso i lombi, lasciando scie untuose, melmose, cremose. Batteva, ungeva, divaricava per dirigersi impudente e sfrontata verso lo scroto e poi … per frullargli, agitargli o meglio per vellicarglielo, titillarglielo, stimolarglielo sino ad aspirarlo nella sua lingua, tramutatasi in fistula, adatta a praticargli un massaggio tutt’attorno, dall’apice alla sacca durale sino, allo stremo del piacere, a farlo pisciare e poi … pregna di umori e di sali, accorciatasi, trovata l’apertura crespata, assottigliatasi come una cannula di clistere, prese possesso del suo passaggio all’intestino, senza causarli dolore se non un leggero fastidio. Quella, identificato il luogo, già testato in altre giovanissime prede, principiò ad ingrossarsi, a gonfiarsi, a crescere allargando apertura ed interno e a dare colpi a destra e a manca, in avanti e indietro, di dorso o di palmo, con gli uncini distanziati. Anche se sfinito, semincosciente per l’intensità dell’orgasmo precedente, l’adolescente strabuzzava, torcendosi tra spasmi e respiri affannosi. Impotente, indifeso, sfinito lasciava a quell’organo del gusto l’igiene delle sue viscere. Il suo addome assomigliava al terreno sdruccioloso, smosso e rimosso da una grossa talpa. Le sue natiche vellutate erano avvolte e coperte da melme ambrate sino alla congiunzione con il dorso. Spazzolato e mondato l’interno, quella ramazza si concentrò con slinguate in lungo e in largo, con spazzolate e strofinate energiche e rigorose, leggere, ma irriguardose ed impertinenti sino a trasformarlo in uno straccio bagnato, senza colonna, senza vigore. L’ovidotto uscì dalla specie di vagina per inoltrarsi nel canale aperto, nel quale a piccoli grumi, simili a gnocchi di patate, il mostro depositava le sue uova e poi la bestia, sollevato il vergineo fisico con quel suo membro rosso e, ormai, marmoreo per le oscillazioni del giovane corpo su di esso, lo penetrò. Avanzava agevolmente nel cavo sfibrato e dilatato, precedentemente, dalla lingua serpentiforme; eccitato e bramoso di fecondare gli ovuli gelatinosi, in precedenza deposti in esso. Mentre l’organo maschile fertilizzava e riempiva l’intestino di calda sborra, la lingua frugava nell’alveo orale, provocandone conati e spasmi per svuotarlo di sostanze e di cibi non idonei alla futura prole. Dopo averlo stuprato e seviziato con il suo scazzone, l’abbandonò sul manto erboso calpestato e infangato, contrassegnato da tracce di coiti e di sodomizzazioni, di sperma e di urine, pieno, gonfio, ancora assente per l’effetto di allucinogeni iniettategli. Attorno a lui il gracidare delle rane era quanto mai intenso, vivo e assordante, promessa di pioggia in arrivo.



scritto il
2022-11-30
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