La spiaggia della Vichinga

di
genere
esibizionismo

La chiamavano La Vichinga, con la L e la V che immaginavi maiuscole quando la gente del paese pronunciava – chi con un pizzico di invidia, chi con un tono sognante, chi con disprezzo, perché la gente sa anche essere cattiva e, in questo, anche quel paese era un piccolo spaccato del mondo – quel soprannome. Del resto, in quell’isola dove la maggior parte degli abitanti erano famosi per un’altezza non certo da corazziere e per i tratti somatici scuri, scura la pelle baciata da secoli dal sole rovente e dalla salsedine che le aderiva come un vestito per molti mesi dell’anno, scuri gli occhi per aiutare a resistere all’intensità della luce intensa e ai riflessi del mare, neri i capelli, la sua apparizione passava tutt’altro che inosservata. Perché era alta, quasi 180 centimetri, perché era biondissima, con una chioma lunga e sinuosa che le arrivava a metà schiena, perché aveva un viso attraente, molto attraente, e decisamente simpatico (cosa che, per dirla alla De André, le attirava addosso ancor più l’ira funesta delle cagnette timorose che le venisse sottratto l’osso) in cui risaltavano due occhi scuri – quelli sì copyright dell’isola – che irradiavano una luminosità felice e intelligente, ma anche sensualmente maliziosa e che, una volta che si inchiodavano ai tuoi, faticavi a ignorare.
E poi, last but not least, perché aveva un corpo che per un attimo ti faceva dimenticare persino il tuo nome e che cosa stessi facendo in quel momento. Gambe lunghe e toniche evidenziate dalle gonne o dai pantaloncini che spesso indossava, e che portavano a un sedere i cui glutei sembravano essere stati disegnati da un compasso, tanto erano perfetti. Non poteva camminarti davanti senza che pensieri impuri iniziassero a deflagrare nella mente, con mille fantasie ad accavallarsi l’una sull’altra nell’immaginare che cosa uno ci avrebbe fatto con un culo così. Fantasie sulle quali era facile perdere ogni tipo di controllo nel momento in cui la Vichinga si girava, mettendoti di fronte a un seno prosperoso e assolutamente proporzionato a quel corpo da modella su cui, letteralmente ciliegine di una torta dolcissima e succulenta, nei giorni in cui si ‘dimenticava’ di indossare il reggiseno potevi intuire la presenza di due capezzoli sui quali avresti chiuso con voluttà labbra e denti.
In lei convivevano due anime, quelle della donna timida che nel suo quotidiano faceva di tutto per ‘limitare’ la propria bellezza e cercare di non apparire troppo. “Io penso di passare inosservata, invece mi dicono il contrario. Pensa che l’altro giorno uscivo dalla palestra e, sai quel nuovo istruttore cubano arrivato da poco? Beh, mi ha guardato fisso negli occhi e mi ha detto spudorato ‘Quanto sei bona’, poi senza fermarsi è andato via” aveva raccontato un giorno a una sua amica. E non era servito aggiungere che quelle tre parole le avevano regalato qualche brivido tra le gambe. Una donna sempre molto attenta a non dare spunti a chicchessia nello scatenare chiacchiere velenose – che in quel paese in breve sarebbero deflagrate incontrollabili –, ma che, segretamente, amava le attenzioni che il suo corpo scatenava, fantasticava sugli sguardi che spesso intercettava, protetta dagli occhiali da sole, si eccitava nell’immaginare situazioni nelle quali, libera di essere se stessa, avrebbe potuto dare libero sfogo a tutte le sue fantasie erotiche.
Solo in pochissimi – li poteva contare sulle dita di una mano – tra quelli che la conoscevano anche in maniera abbastanza intima, erano a conoscenza della tempesta ormonale e passionale che la scuoteva, perché in quel contesto sociale, un luogo dove tutti conoscevano tutti, riuscire a essere se stessi avrebbe potuto diventare una macchia indelebile. Oh, come le sarebbe piaciuto potere evadere ogni tanto, allontanarsi anche solo per pochi giorni, di quando in quando, da quel luogo che amava tantissimo e al quale apparteneva in modo profondo, ma che a volte sentiva essere troppo soffocante e angusto. Come avrebbe voluto prendersi una tregua momentanea da quell’uomo con la quale era felice ma che a tratti, retaggio della filosofia di vita dell’isola, era troppo asfissiante e controllore, sempre troppo geloso della sua bellezza, che però, nel chiuso della camera da letto, utilizzava per eccitarsi ed eccitarla.
Era con questi pensieri di libertà in testa che quel giorno, con la scusa di un impegno improvviso, senza informare nessuno di dove sarebbe andata, la Vichinga si era presa un pomeriggio di libertà dal lavoro. Erano tempi un po’ fiacchi e per qualche ora la sua dipendente non avrebbe avuto problemi a gestire lo studio di massaggi che lei aveva aperto da qualche anno, il sogno di adolescente che si era tramutato in realtà. Il fatto, poi, che, oltre che bella, fosse davvero brava nel suo lavoro, le aveva in poco tempo procurato una clientela affezionata, in gran parte femminile ma anche maschile, clientela che nei mesi estivi, quando la sua cittadina si riempiva di turisti, si arricchiva di arrivi occasionali. Ma quel pomeriggio, dopo una settimana stressante nella quale oltre al lavoro si era aggiunta anche una discussione di troppo a casa (“Non ti sembra che quella maglietta sia un po’ troppo aderente?” aveva bofonchiato lui al mattino mentre lei si apprestava a uscire di casa per andare allo studio), la Vichinga voleva semplicemente starsene un po’ da sola, scapparsene lontano da tutto e da tutti, andare per conto proprio nel suo luogo del cuore, una spiaggetta lontana dalle rotte abituali dei turisti che, se non avevi una barca o un gommone, potevi raggiungere solo attraverso un sentiero scosceso che si snodava prima tra la vegetazione e poi attraverso un sentiero tra le rocce.
Lo conoscevano in pochi, quel luogo selvaggio, una striscia di sabbia così fine e così bianca da fare quasi male agli occhi, che piano piano andava a degradare in un mare trasparente dove, a seconda della luce del giorno e della profondità dei fondali, i colori si mischiavano l’uno sull’altro: e così, qui l’azzurro diventava verde, il blu elettrico all’improvviso si trasformava in turchese, tonalità di zaffiro si trasformavano in un’acqua color smeraldo. Insomma, se un Dio avesse voluto scegliere un tratto di costa per il suo personale paradiso terrestre, quell’angolo remoto di isola avrebbe risposto a ogni aspettativa.
Infilata nello zainetto che portava sulle spalle, oltre a un telo da mare e al costume, ecco poi l’inseparabile macchina fotografica. Sì, perché alla Vichinga la fotografia piaceva parecchio, ed era davvero brava, come dimostravano le sue foto di spiagge, tramonti, albe, ma anche animali, uccelli soprattutto (e no, non pensate male, non ancora, almeno), che arricchivano il suo profilo di Instagram. Dove, però, i pochi fortunati che avevano accesso alla sua galleria privata, potevano anche ammirare tutta la sua bellezza. In quei panorami da sogno, il suo corpo da modella diventava un’esplosione di sensualità e, perché negarlo, anche di sessualità. Le curve lambite dalle acque o semi sprofondate nella sabbia, le pose accattivanti in cui l’eleganza che la contraddistingueva sempre si mischiava a un inevitabile gioco di seduzione, quei bikini striminziti che, anziché nascondere, enfatizzavano ancor di più quel corpo che sembrava essere uscito dallo studio di uno scultore greco, inevitabilmente provocavano un inciampo dei respiri di chi le poteva guardare. E, inutile, nasconderlo, anche qualche più che comprensibile erezione a quei maschi che, non di rado, inserivano il suo volto nelle loro fantasie.
Quel giorno, però, la Vichinga non aveva voglia di fotografare la spiaggia, né le rocce, o il mare che, quando il sentiero uscì dagli alberi, le apparve di un celeste quasi irreale. La sabbia, i promontori e le acque cristalline che lambivano quel tratto di costa sarebbero entrati nelle foto, certo, ma il soggetto principale questa volta sarebbe stata lei. La discussione del mattino le aveva acceso dentro quella voglia di trasgredire e di mostrare il proprio vero volto, e pazienza se a vederlo sarebbe stata solo la lente della sua Canon, ma in quel momento non aveva bisogno di nessun altro.
Giorni prima, passando davanti alla spiaggia con il gommone, aveva visto una piccola costruzione di rami che, chissà chi, aveva eretto a mini-capanna per proteggersi dai raggi del sole. Senza teli a coprirlo, quello scheletro composti di rami bianchi incastrati l’uno con l’altro, si adattava perfettamente alle foto che aveva in mente di scattare, immaginandosi come una sorta di naufraga su un’isola deserta che, disperata, poteva contare solo quel minuscolo rifugio come casa.
Mentre si spogliava dei pantaloncini di jeans e, subito dopo, della maglietta incriminata, la Vichinga guardava quel mare nel quale, a qualche centinaio di metri di distanza, un paio di barche erano all’ancora, placidamente cullate da onde quasi impercettibili. Rivolta all’orizzonte, si tolse il reggiseno, chiedendosi per un momento se qualcuno dalle barche fosse lì a guardarla, quindi, ancheggiando quasi fosse davanti a un pubblico invisibile, si tolse anche lo slip, se così si poteva chiamare quel filo quasi interdentale che spariva tra le natiche del suo culo per poi riapparire con un accenno di stoffa sul davanti, a coprire una figa le cui labbra non sarebbero comunque sfuggite a un osservatore attento. Senza fretta, dallo zainetto tolse quindi il costume, un bikini nero che una volta indossato non riuscì a nascondere la maestosità di quei seni grandi e sodi, una quarta abbondante su cui svettavano due capezzoli impertinenti, ed esaltando quel culo oggetto di mille pensieri impuri da parte di chi si era ritrovato ad ammirarlo. Faceva caldo e, senza pensarci due volte, la Vichinga corse fino alla riva e intraprendendo il percorso contrario di Venere, si immerse in quelle acque cristalline.
Quell’andata e ritorno dalla capanna di rami e il mare la Vichinga la ripeté più volte nella mezz’ora successiva, sia per liberarsi dei granelli di sabbia che, ogni volta che si sdraiava o accucciava, le si attaccavano addosso come una seconda pelle, sia per cercare un po’ di refrigerio in quella giornata caldissima. La ‘villetta sulla spiaggia’ – la Vichinga si sorprese a sorridere mentre dava quel nome alla costruzione di legname – divenne il suo set fotografico. La reflex ben posizionata su un piccolo treppiede, il telecomando nella mano, cominciò a scattare foto su foto, a volte volgendo il volto, e le tette maestose, verso l’obiettivo, altre girandosi verso il mare, con il culo in primo piano mentre, a quattro zampe come una cagnetta in calore, cambiava in continuazione posa.
‘Click click click’, un ritratto in primo piano, quindi più lontana, ora girata di mezzo busto, ora sdraiata, gli occhi fissi nell’obiettivo o nascosti dalla chioma bionda, il suono dell’otturatore era l’unico rumore che si sentiva, assieme al canto di qualche gabbiano e allo sciabordare delicato di piccole onde sulla riva. Ogni tot di foto, la Vichinga si rialzava e tornava a bagnarsi in quello specchio di mare dove, nel frattempo, altre due piccole imbarcazioni si erano unite alle altre.
Il pensare di avere un pubblico tutto per sé accese ulteriormente la voglia esibizionista della Vichinga, che a un certo punto si tolse il reggiseno e ricominciò a scattare. Quel seno magnifico se lo sarebbe poi riguardato al momento di scaricare le foto e, con la memoria che sarebbe tornata a quel pomeriggio, avrebbe dato il via a una masturbazione intensa che, con l’aiuto del suo vibratore preferito, l’avrebbe portata a un orgasmo potente. Ma questo appartiene al dopo, l’adesso era ancora tutto da scrivere.
Un luccichio proveniente da una barca, mentre con il seno al vento e il corpo coperto di sabbia si recava per l’ennesima volta in acqua, fecero intuire alla Vichinga che qualcuno la stava osservando con un binocolo. Anziché vergognarsi, il sapere di essere guardata le fece accelerare il respiro, sentì che i capezzoli si indurivano e che tra le gambe iniziava a succedere qualcosa, piccoli crampetti alla figa che, come se azionata dal telecomando della macchina fotografica, sentì diventare sempre più umida. La decisione arrivò quasi senza pensarci, inginocchiata nell’acqua trasparente, con nonchalance si tolse lo slip, lo chiuse nel pugno (non che l’impresa fosse di quelle difficoltose visto la quantità di stoffa), lentamente, molto lentamente, si alzò in piedi e, un passo dopo l’altro, uscì dall’acqua incamminandosi verso la ‘villetta’.
Pochi istanti dopo, spostata la macchina fotografica alla ricerca di un’inquadratura più ravvicinata che amplificasse l’effetto del corpo all’interno di quella costruzione di fortuna, il culo in primo piano e le ginocchia e le mani ben piantate e distanziate per terra, la Vichinga riprese a pigiare il tasto del telecomando. A ogni click sentiva la figa bagnarsi e dischiudersi sempre più, mentre con lo sguardo guardava le barche ormeggiate, sentendo su di sé lo sguardo sempre più eccitato di sconosciuti. Proprio il fatto di essere guardata e desiderata la fece osare, perché a un certo punto uscì dal groviglio di rami, si mise in ginocchio con le gambe allargate e, gli occhi chiusi come se fosse in trance, tra uno scatto e l’altro iniziò a toccarsi le tette, indugiando sempre di più con pollice e indice sui capezzoli ormai durissimi, strizzandoli, tirandoli e quasi offrendoli a una bocca immaginaria che nella fantasia del momento avrebbe dovuto morderli senza pietà.
Non ci volle molto perché una mano scendesse lungo la pancia, come una dolce carezza, per arrivare fino al monte di Venere e poi ancora un po’ più giù, fino a trovare quel clitoride seminascosto dalle labbra, voglioso e bisognoso di attenzioni. Essere desiderata da sconosciuti, bramata, diventare preda di mani senza un volto, il suo corpo cibo del desiderio di maschi affamati. Quel solo pensiero che non aveva mai potuto confessare al suo uomo, uomo che senza giri di parole l’avrebbe etichettata in modo sdegnoso come una lurida puttana, quasi la fece venire, mentre le dita indugiavano a torturare quel bottoncino che a ogni tocco le mandava delle scosse al cervello.
“Cazzoooo”, il suono che le uscì dalle labbra per un attimo ruppe il silenzio che regnava incontro a lei e, quasi fosse stato un desiderio chiesto ad Aladino, il genio della lampada, fu proprio un cazzo che la Vichinga si trovò davanti nel momento in cui riaprì gli occhi.
“Oddio”, l’urlò le uscì strozzato dalle labbra, nel vedere uno sconosciuto un paio di metri di fronte a lei che, come se nulla fosse, si era abbassato il costume iniziando a masturbarsi lentamente. D’istinto fece per rialzarsi e ricomporsi, ma non fece quasi in tempo a muoversi che l’uomo, con un tono gentile a metà tra il supplichevole e il disperato, le disse “no, ti prego, non fermarti”. E poi, dopo un attimo, “ti chiedo scusa, non volevo spaventarti, ma sono appena arrivato qui – e con un gesto della mano le indicò, pochi metri più in là il suo zaino –, ti ho visto e non ho saputo resistere all’avvicinarmi”.
Nel mentre, l’uomo – avrà avuto una cinquantina d’anni, alto, fisico atletico, capelli folti e grigi, occhi azzurri e profondi – non aveva smesso di continuare a giocare con il suo cazzo, la mano che continuava ad andare su e giù con un movimento quasi ipnotico. Fu il tono della voce, tutt’altro che minaccioso, o magari quel movimento suadente e affascinante, con la cappella che appariva e poi spariva a seconda del movimento della mano, fu forse quel cazzo che intuiva essere possente e venoso, o, alla fine, fu semplicemente quell’essersi trovata a un quasi punto di non ritorno e la voglia, per una volta, almeno per una volta, di poter vivere le proprie fantasie senza dover rendere conto a nessuno, che portò la Vichinga a riprendere la posizione di prima. Questa volta, però, con le ginocchia un po’ più larghe di prima, una mano che strizzava il capezzolo sinistro e la destra che aveva ripreso ad accarezzare la figa ormai fradicia, la Vichinga non chiuse gli occhi, ma li piantò in quegli occhi azzurri incollati ai suoi.
“Sei bellissima”. Le parole furono pronunciate a bassa voce, ma nel silenzio che c’era deflagrarono nell’aria, mentre, incoraggiato dalla situazione, l’uomo faceva due passi avanti, avvicinandosi ancor di più a quella donna che in quel momento gli appariva come una dea e che, ormai senza pudore, aveva ripreso a masturbarsi sempre più ferocemente, come testimoniava anche quello sciacquettio causato dalle dita sprofondate nella figa. ‘Click click’. Come se fosse ancora da sola sulla spiaggia, la Vichinga premette ancora il telecomando, sperando che l’obiettivo fosse riuscito a riprendere la scena, ma intanto il suo sguardo era sempre più puntato su quel cazzo che svettava prepotente nella mano dell’uomo.
“Ti piacciono le mie tette?” gli disse guardandolo fisso negli occhi. “Lo vedi come sono grosse?”. Mentre pronunciava le parole, le dita strinsero ancor di più il capezzolo, provocandole un lamento di un dolore destinato a trasformarsi in piacere. Aveva immaginato di avere un pubblico davanti, e adesso lo aveva trovato, e quella situazione che solo poche ore prima avrebbe definito assurda e impossibile, in quel momento le aveva acceso un fuoco dentro che sapeva di poter placare solo in un modo. E mentre il suo piacere cresceva, anche le parole deflagravano senza argini. Non era mai stata un’educanda quando si trattava di parlare (o fare) di sesso, così mentre il respiro accelerava di pari passo con quelle due dita che le frugavano la figa, mentre il pollice sfregava in modo quasi violento il clitoride, anche le parole iniziarono a scivolarle fuori di bocca sempre più incontenibili.
“Non vedi che tette da vacca che ho?” disse con tono affannato all’uomo, ancora incredulo dello spettacolo che si trovava davanti.
“Sono una cagna, una cagna in calore” gli ringhiò un attimo dopo, la testa che le iniziava a girare per l’orgasmo sempre più vicino. E poi. “Dimmelo che sono una cag…”.
Non fece in tempo a finire la frase, perché un ulteriore torcimento del capezzolo e un affondo ancora più cattivo delle dita nella figa ormai completamente fradicia, le provocarono quell’orgasmo che aveva inseguito negli ultimi minuti. Fu un’esplosione violenta, per un attimo gli occhi videro solo nero, il corpo incominciò a singultare, quasi fosse preda di una scossa elettrica, mentre lamenti inconsulti, quasi guaiti animaleschi, scivolavano dalle sue labbra. Le dita ancora in profondità le facevano quasi male alla figa, eppure per qualche misterioso motivo non smettevano di muoversi, contorcendosi tra le labbra bagnate, entrando e uscendo, provocandole spasmi di piacere. Ma non era finita, perché con il respiro ancora affannato, la Vichinga fece appena in tempo ad aprire gli occhi, che un potente schizzo le colpì il viso, seguito da un secondo e poi da un terzo che si depositarono sulle sue tette.
“Porco, sborrami addosso, porco che non sei altro” si ritrovò a urlargli addosso, mentre l’uomo continuava a masturbarsi il cazzo a un ritmo violento.
“Prendila, cagna, assaggia la mia sborra” le urlò di rimando con un tono gutturale che gli sgorgava da dentro. Nella foga del momento, l’uomo si era avvicinato ulteriormente alla Vichinga, e gli schizzi successivi la centrarono ancora in volto, uno la colpì in un occhio, un altro le arrivò direttamente in gola mentre, ormai arresasi alle emozioni, un secondo, potente tsunami di piacere la travolgeva.
“Le cagne come te vanno marchiate di sborra – le disse dopo un lungo silenzio l’uomo, mentre prendendola per i capelli le infilava la cappella in bocca –. Puliscilo per bene. Puoi sciacquati pure le gambe, ma le tette e la faccia no, almeno fino a quando non tornerai a casa”. Dopodiché, così come era apparso, l’uomo si voltò, andò a recuperare lo zaino e scomparve dentro il bosco.
Per un po’ di tempo, la Vichinga rimase immobile, il sedere appoggiato sui talloni, la sabbia bagnata tra le gambe a testimoniarle gli orgasmi, il respiro affannato, lo sperma ad appiccicarle le tette e il volto. Senza pensarci, con un dito si ripulì dello sperma che le aveva colpito l’occhio e se lo portò in bocca, gustando il sapore dello sconosciuto. A farle alzare lo sguardo, fu un suono di sirena proveniente dal mare: un centinaio di metri più là, a bordo di una delle barche, tre ragazzi saltavano e si agitavano come se fossero tifosi in festa. La Vichinga si alzò, lo sguardo fisso nella loro direzione poi, con un gesto che scatenò un altro suono di sirena, accennò loro un inchino.
Tre giorni dopo, nel tardo pomeriggio era nel suo stanzino subito dopo aver finito un massaggio, quando sentì il campanello della porta che si apriva. “Ho appuntamento per le 18” sentì una voce maschile. “Sì, due minuti e la responsabile arriva” rispose la sua collega. Quando la Vichinga aprì la porta della stanza e si presentò nell’anticamera, due occhi azzurri si inchiodarono ai suoi. ‘Credo che dovrò ritardare la chiusura’ pensò con un sorriso.
scritto il
2023-09-17
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