Portraits - Una lunga esposizione | 1/5

di
genere
voyeur

[Nota dell’Autore: Ricevo il manoscritto di Paola, che qui riporto nella sua interezza, diviso in cinque parti. La volontà dell’autrice è chiaramente quella di rimanere anonima. I nomi dei personaggi sono di fantasia, per assicurare riservatezza. Di lei posso dirvi che non vive più nella città in cui si svolgono i fatti. Ha un altro lavoro e frequenta qualcuno con cui si trova bene, per il momento. Prima di sottopormi il manoscritto, ella volle inviarmi in busta chiusa una trentina di foto da lei scattate e sviluppate. Mi disse che l’unica condizione imprescindibile per poter pubblicare la sua storia era scegliere, in mezzo alle decine di foto che mi aveva inviato, i tre scatti che fossero per me rispettivamente il più erotico, il più triste e il più rasserenante. Solo in quel caso, diceva, avrebbe deciso se mandarmi gli scritti o meno. Dopo aver guardato attentamente tutte e trenta le istantanee, scelsi ciò che secondo me meglio poteva rappresentare i tre sentimenti e quindi le notificai tale scelta.
Tre giorni dopo, verosimilmente soddisfatta della risposta, mi inviò il manoscritto.]


La mia autentica passione era la fotografia. Fotografavo biciclette in movimento. Onde del mare. Bambini che giocavano con la palla. Adoravo il dinamismo. Adoravo l'idea di poter congelare una azione e fare sì che diventasse eterna. Ero attratta dall'idea che ogni scatto potesse comunicare qualcosa di nuovo, ogni volta che la si guardava. Un dettaglio. Un colore. Una ombreggiatura. Passai, quindi, i primi anni di professione quasi sempre in giro per la città. Ah, sì. Una città italiana, ovviamente. Un borgo medioevale suggestivo, discretamente grande. Un fiume, direi quasi più un torrente, a dividere a metà il centro di quel borgo, la cui popolazione era piuttosto numerosa. Amici e conoscenti commentavano più o meno sempre allo stesso modo: “Ma dove sei qui? Sul tetto del municipio?”, “Che bello! È la Germania?”, “Ma qui siamo nei pressi della mia campagna!” Cercavano di spararla ogni volta sempre più grossa. Più loro confondevano i luoghi che io ritraevo, più io mi domandavo se a essere sbagliate fossero le foto stesse. La loro sensazione di spaesamento mi eccitava. Avevo la capacità di catturare dei luoghi, privarli del loro contesto e fargli acquisire una luce nuova. Li rendevo puri, funzionali unicamente al soggetto che sceglievo di immortalare. I primi lavori li ho fatti presso uno studio fotografico relativamente piccolo ma ben conosciuto della città. Ci commissionavano lavori di ogni tipo, per lo più cerimonie e matrimoni. La mia valvola di sfogo consisteva nell’andare nei parchi, poco su in collina, o nei pressi del torrente, nei campi coltivati, quando mi rimaneva tempo libero fuori dalla bottega.
Un pomeriggio, erano circa le quattro, Il sole primaverile filtrava attraverso le foglie del boschetto in cui mi ero persa. Era un giorno di esplorazione libera, ovvero le classiche passeggiate con la fotocamera a caccia di ciò che capitava. Ricordo che stavo facendo alcuni esercizi con la luce. Mi allenavo con la messa a fuoco e la saturazione dei colori. Cercavo soprattutto di familiarizzare con un teleobbiettivo usato, comprato da poco su internet, che tuttavia in quel contesto sembrava avesse poca o nulla utilità. A un certo punto, avvertii il suono di un motore di automobile farsi sempre più vicino, finché non si arrestò del tutto a poche decine di metri lontano da me. La mia postazione era privilegiata. Mi trovavo al di sopra di un monticello di rocce, nascosto dalla vegetazione. La macchina aveva appena oltrepassato il sentiero. Qualche centinaio di metri più a valle c'erano alcuni campi coltivati. Credevo fosse una vettura che avesse sbagliato la strada del ritorno. Vidi un giovane uomo e una donna uscire dall'auto, presi per mano, adagiare una tovaglia per terra, per poi distendersi. Ero cosciente del fatto che sarebbe stato opportuno andare via, lasciare loro la privacy necessaria, allontanarmi quel minimo per smettere di ascoltare i loro discorsi. Tuttavia, mi fu impossibile. Ero rimasta rapita dalla bellezza di quei due amanti. La donna sembrava sulla trentina, l’uomo invece era probabilmente un ventenne. Lei portava un delicato vestito floreale rosa salmone, i capelli bruni, lunghi fino ai fianchi, leggiadra come una musa, la pelle dal candore quasi iridescente e un sorriso magnifico. Lui, invece, era molto probabilmente un giovane di buona famiglia, dai capelli chiari, tendenti al marrone e boccolosi. Portava una camicia di lino bianca e dei pantaloni beige, coi mocassini. La sua magrezza nodosa, quasi eccessiva, era controbilanciata dal sorriso sincero, pervaso dal fuoco di passione nei confronti della persona al suo fianco, che lo carezzava e lo baciava, giocando coi suoi ricci morbidi e lucenti. Potevano sembrare quasi degli elfi, se non fosse che erano palesemente dei borghesi di centro città. Era raro vedere quel tipo di candore in certi contesti bucolici, così armoniosi da sembrare eterei. Dopo qualche chiacchera, iniziarono a baciarsi con passione, la mano di lui sfiorava la pelle della ragazza, partendo dal suo orecchio sinistro fino a discendere lungo il collo, disteso e allungato, farsi strada attraverso la spalla e trascinando con sé la spallina del vestito, che quindi cadde con compostezza fin giù, ancorandosi al gomito. Quella parte di tessuto, dunque, disvelò il morbido seno, del cui capezzolo si poteva intuire sia il rossore che la ruvidezza, dovuta ai brividi dati dalla brezza e dalla eccitazione. La donna accennò un breve sospiro. Con entrambe le mani, cercò di slacciare la cinta in cuoio del ragazzo, finché non la sfilò del tutto, permettendole di tirare giù i calzoni e lasciando quel giovane con le sole mutande. Il particolare che mi fece arrossare le guance fu proprio quel tipo di indumento, tanto inusuale per un ragazzo di quell’età. Era un paio di mutande vecchia maniera, con la vestibilità larga, un taglio classico, con due bottoncini a chiusura di una tasca centrale. Sembrava fosse uscito da un romanzo anni ’50. Eppure, quel leggiadro strato di cotone bianco a righe rosse si rivelò un castigo divino per i miei propositi di discrezione. Decisi che avrei dovuto fotografare quell’attimo. Era diventato necessario, per me. Inforcai dunque la mia Pentax K1000, intenta a effettuare qualche scatto in analogico. La donna, nel frattempo, aveva appena sbottonato il taschino dei boxer, introdotto tre dita al suo interno, arpionato la verga dell’amante e infine tirato fuori parte del suo pene ancora mezzo flaccido, soddisfatta per quanto avesse pescato. Quindi, dandomi le spalle, abbassò il capo fino ad oscurare completamente la vista sul pube dell’uomo, in quello che appariva molto platealmente come un sontuoso esercizio orale. Il partner chiudeva gli occhi, allietato dal calore umido che avvolgeva la sottile pelle elastica del suo membro, del cui inturgidimento stavo già diventando avida. Riuscii a immortalare quell’istante con relativa facilità. Nel frattempo, iniziai ad avvertire una certa sete, unita a un vago prurito dell’interno coscia. Il gioco di bocca continuò ancora qualche minuto. Non si parlavano, i due amanti: Bensì, comunicavano tutto con gli sguardi e con i blandi gemiti di piacere. Ogni tanto lei tirava in sù i begli occhi verdi e lasciava oscillare la folta chioma bruna, scoprendo in modo alternato prima una e poi l’altra spalla. Era quasi diafana, al punto che un lievissimo raggio di sole avrebbe potuto scottarla. Dopo un po’, l’uomo fece accostare la donna, le poggiò le labbra sulla guancia e iniziò a scendere di bacio in bacio lungo lo sterno, lambendo con la lingua le due protuberanze gentili, mordendone le rotondità. Il resto del vestito scivolò via nelle manovre successive, spogliando del tutto la giovane ragazza che, a quel punto, timidamente apriva le gambe, esibendo la sua intimità al partner, con un velo di finto imbarazzo. L’uomo, quindi, poggiò le mani sulle ginocchia della donna e ne distese le cosce, baciandone i contorni sempre più verso il basso, puntando alla meta. I gemiti della ragazza iniziavano a farsi sempre più distinti. Era eccitata, tanto quanto lo ero io stessa. L’uomo annusava gli umori della donna, strofinando il muso sul suo pube lievemente irto da una accennata peluria. Immerse quindi la lingua rossa e carnosa tra le grandi labbra, in corrispondenza della clitoride. Distinguevo con nitidezza (e l’aiuto dello zoom) il movimento rotatorio della punta della lingua. Era una visione pazzesca. Sentivo che avrei potuto lasciarmi coinvolgere da quei movimenti anche a distanza. Poi, i baci andavano raccogliendo gli umori e via via si facevano sempre più intensi e produttivi. Il canto della donna era diventato ormai costante. Vedevo il ragazzo masturbarsi mentre si esibiva in quel cunnilingus d’autore, quasi come se non potesse perdersi nemmeno un attimo di eccitazione, o forse per prepararsi all’atto successivo, o forse per paura di non reggere la performance successiva. «Sto venendo, amore.» disse lei, improvvisamente. Le gambe iniziarono a tremarle, mentre lui imperterrito leccava e succhiava. Nel frattempo, continuava a tirare in giù la punta del suo uccello, quasi fosse capace di dispiegarlo per metri e metri lungo tutta la campagna. Avrebbe potuto frustare persino me, che guardavo come una ladra guarda la collana esposta in vetrina. Quando egli fu pronto, ed ella ormai giunta al culmine dell’orgasmo, si defilò da quella fica grondante e con gran destrezza puntò dritto con l’asta, inserendovi la punta, umida e pulsante. Mi resi conto che la donna, a quel punto e solo in quell’istante, venne in modo glorioso annunciando tale traguardo con un grido sospirato. La strategia fu sapiente, poiché adesso quell’orgasmo stava per essere cavalcato dalle scosse telluriche di mezza libbra di carne che andava sfregando le pareti di velluto rosa con foga, producendo ulteriori umori e calore. Rumoreggiava e arrossava in un crescendo continuo. «È bellissimo.» accennò lui, mentre la fotteva sull’erba, con la tovaglia ormai scostata del tutto e loro due nudi e sudati, avvinghiati in tutta la loro gioventù vigorosa. Lei quindi si ancorò al suo busto, serrando le gambe per permettere alla verga di quel maschio di giungere fino in cima (o fino in fondo, dipende dai punti di vista), affinché potesse goderne di ogni millimetro, di tutta la lunghezza carnosa e succulenta, al punto da sentire persino il rumore degli schiaffi dello scroto battente sull’ ano contratto a ogni pompata.
Io, nel frattempo, fotografavo e lasciavo scorrere due dita attorno al mio basso ventre, fin dentro la fica, fin sotto di essa. Non Avevo ancora abbassato i jeans del tutto perché avrei trovato sconveniente denudarmi integralmente, ma avrei desiderato con tutto il cuore farlo in quel momento, per potermi godere quell' esperienza in massima libertà, in compagnia dei miei nuovi feticci, di quei miei stupendi amanti incogniti. Il mio voyeurismo era ormai plateale, tuttavia mi sorpresi della lucidità con cui riuscivo a mantenere il focus adatto per concludere i miei scatti. Ero davvero intenzionata a conservare quei preziosi ritratti per me.
Ad un tratto, un boato ruppe l’idillio. Un colpo di pistola, o probabilmente una scacciacani, fece volare via tutti gli uccelli, incluso quello del giovane uomo che, quindi, si divincolò il più rapidamente possibile. La donna, che fino a un attimo prima era pervasa da sensazioni magnifiche, adesso era sopraffatta dal terrore. Cercò d’istinto qualcosa con cui coprirsi. L’uomo, dunque, la prese per mano e la ricondusse lestamente alla macchina. Io, d’altro canto, mi resi conto che non ero esente dal pericolo, per cui estrassi la mano ancora umida da dentro i pantaloni, conservai la fotocamera e scappai, nascondendomi tra gli alberi più alti e fitti poco più in basso.
Lo spavento mi aveva fatto sobbalzare talmente tanto il cuore da sentirlo fino su in gola. Le gambe tremavano e il fiato si fece cortissimo. Ero ancora umida e profondamente eccitata, mi guardavo intorno come se fossi circondata da centinaia di lupi famelici. Tuttavia, ero sola. Non si vedeva nessuno nelle vicinanze. Possibile che il padrone di quei terreni avesse voluto far fuggire via i due amanti clandestini dalla sua proprietà? Può darsi che nelle vicinanze qualcuno stesse cacciando fagiani o lepri? Cercai di sorreggermi con entrambe le mani sui fianchi, dopodiché sentii il bisogno di accasciarmi per terra, annientata dall’adrenalina. L’eccitazione e la paura fecero da miccia per una deflagrazione inaspettata. Bastò che mi sfiorassi il pube per far sorgere un calore mai provato in vita mia, talmente intenso che fui sicura di essermi sdraiata su di una brace. La sensazione fu talmente sconquassante che dovetti tapparmi la bocca da sola per non urlare. Portai gli occhi all’indietro, fin quasi dentro le orbite. L’orgasmo fu così potente da farmi quasi perdere i sensi. Durò circa quindici secondi ma li sentii passare come se fossero stati quindici anni. Il mio pantalone era fradicio di umori e la mia mano, ormai appiccicosa, rimase ancora lì, poggiata, per qualche minuto. Se qualcuno mi avesse trovata in quello stato e avesse deciso di approfittarsi di me in quel momento, io non solo sarei stata totalmente incapace di difendermi, ma sarei pure stata così accondiscendente da lasciarmi manipolare in qualsiasi forma e maniera. Ero alla mercè del mondo intero, a suo uso e consumo, per qualche attimo, completamente sollevata da ogni elemento di controllo del mio corpo e della mia mente.
Riaprii gli occhi dopo qualche tempo, sembrava che il sole stesse calando. Mi rialzai in piedi scomposta e cercai la via di casa. Guardinga, uscii dal boschetto in cui mi ero rintanata, timorosa che qualche cacciatore spuntasse dal nulla e mi desse il colpo di grazia. La testa mi pulsava da morire. Dovevo riflettere su cosa era appena successo.
scritto il
2024-06-21
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