Portraits - Gocce Sulla Moquette | 1/4

di
genere
tradimenti

[N.d.A: Questo racconto fa parte della serie antologica "Portraits". Le storie raccontate secondo lo stile "portraits" non sono collegate tra di loro, ma serve soltanto per catalogare in modo diverso alcuni dei miei racconti. Ogni racconto è suddiviso in capitoli; per questa storia dal titolo "Gocce sulla Moquette", i capitoli sono quattro e i prossimi usciranno, al netto di imprevisti vari, a cadenza bi-giornaliera, quindi martedì, giovedi e sabato.

Potete trovare un'altra storia "portraits" e tutti gli altri racconti su questo profilo di Autore, che vanta adesso un punteggio medio di 3.1 di gradimento, segno che qualcuno è stato così gentile da livellarli tutti in questi mesi di assenza e soddisfare così il mio OCD. Grazie e buona lettura. JZ]

[PS: Il mio cazzo in ASCII invece mantiene un buon livello di 3.6, segno che è ancora molto apprezzato.]



«L’ho lasciato.»
Rimango impassibile mentre pronunci questa frase. Le tue labbra strette si serrano in una tenaglia lacerante. Esprimi un dolore rabbioso che poche altre cose fatte di carne e di sangue riescono a suscitare.
«Mi dispiace.»
Sono le uniche parole che mi escono dalla bocca. Le altre, opportunatamente censurate e ricacciate dentro la gola con violenza, si sarebbero combinate tra loro in un lapidario quanto sincero “E mò so cazzi.”
I tuoi occhi appaiono stanchi e gonfi, pronti a esplodere in un getto di lacrime senza senso.
Perché vieni a dirmelo proprio ora? Orario d’ufficio, pochi minuti dopo la riunione col team leader, appena un paio d’ore prima dell’ultimo pomeriggio che sancisce l’inizio delle pause natalizie.
Forse ti aspetti qualche parola di conforto in più. Tuttavia, non credo che la riceverai, non stavolta.
Il tuo problema, adesso, rischia di diventare anche il mio. Hai passato sette anni a vivere una storia in apparenza perfetta, contornata da viaggi romantici, regali costosi, progetti di case in campagna e un matrimonio alle porte, ma adesso ti ritrovi con un pugno di mosche in mano. Hai scoperto che esiste qualcosa chiamato indifferenza e che nei suoi confronti sei totalmente impreparata. La delusione è stata graduale ma cocente e l’ultimo anno ti ha sfibrata così tanto da inaridirti. Ti ha reso fredda. Ti ha trasformato in rabbia e cinismo.
Lo stesso cinismo aggressivo con cui hai iniziato a relazionarti col mondo, me compreso. Principessa del “non dovete rompermi i coglioni”. Fatalista operaia disillusa che fa battute sulla prossima bomba nucleare che arriverà giusto in tempo prima della firma del nuovo contratto. Freddure riguardanti la lentezza burocratica che ci condannerà a una vecchiaia fatta di incontinenze, poiché – parole tue – “ingoiamo così tanta merda ogni giorno che arriverà il momento in cui non la tratterremo più dal culo.”
Era la prima volta che mi capitava di ridere per una frase così sboccata. Eppure, pochi mesi fa tu la pronunciasti proprio mentre eravamo tutti in piedi, vestiti eleganti, a sorseggiare un aperitivo all’arancia analcolico per la festa di pensionamento del vecchio dirigente arteriosclerotico. Una dissonanza di un certo rilievo. Le colleghe della segreteria lanciavano gli occhi al cielo pregando di non trovarsi lì, mentre altri ridevano con vago senso di scherno.
Ricordo di essere riuscito a scorgere un infinitesimo spasmo di gratificazione nelle tue labbra arricciate, segno che la mia risata era per te un feedback insperato. Pensavi di offendere o semplicemente colpire con l’ennesima puntura fuori luogo. Invece, trovasti in me un improbabile alleato, dato che avevo evidentemente le palle piene di stare lì. Provavamo la stessa rabbia.
Da quel giorno, seguirono molti altri sguardi d’intesa. Era diventata quasi una abitudine, la nostra: Ci scambiavamo continuamente battute sul lavoro, sull’inutilità della vita da dipendenti, sulla bruttezza delle nostre attività quotidiane e sulla irrilevanza dell’esistenza.
Ironizzavamo spesso su quanto io fossi poco sessista, motivo per il quale la mia carriera non sarebbe mai decollata, e quanto tu fossi poco zoccola, motivo per il quale stessi sul cazzo a tutti.
Se io avessi dato qualche pacca sul culo in più a mano aperta e tu, inginocchiata dietro le scrivanie, ad abbassare un paio di cerniere di un paio di pantaloni in velluto in più, avremmo ottenuto entrambi probabilmente le stanze adiacenti vista lungofiume, con il ruolo di dirigenti. Ci saremmo potuti mandare a quel paese dalle nostre pareti in vetro, una accanto all’altra. Ci saremmo rivolti a distanza il dito medio mentre tenevamo la cornetta all’orecchio impegnati con qualche cliente prezioso e sillabando in silenzio improperi volgari e peccaminosi.
E invece no. Siamo ancora dei dipendenti svogliati e nervosi e adesso tu ti sei appena lasciata e stai inzuppando la moquette della mia stanza con le tue lagne mentre io ti osservo e ti ascolto cercando disperatamente di mostrarmi distaccato.
«Mi dispiace.»
«Sto una merda.»
«Eh, ci credo che stai una merda! Quanti anni erano?»
«Sette anni, porco giuda. Sette anni del cazzo buttati nel cesso.»
Ti ascolto mentre mi racconti dettagli che non voglio assolutamente sentire. Mi descrivi il momento in cui sei scoppiata a piangere davanti la stagista intenta a fare le fotocopie. Mi informi del fatto che sei rimasta nella tua casa mentre lui è andato via, facendo la valigia.
Mi racconti di come hai scaraventato per terra alcuni quadretti appesi alla parete e di come ti sia tagliata per sbaglio un mignolo coi cocci prima di fermarti per la paura di fare volutamente qualcosa di peggio.
Io ascolto tutta quella mazzata di frasi e rimango con lo sguardo di pietra, immobile. Non riesco a farmi raggiungere dalle tue parole poiché le mie rimuginazioni fanno da schermo e annebbiano tutto.
Il mio occhio è fisso sulle tue cosce. Non le sto davvero guardando, non sto fissando nulla in questo momento. Tuttavia, non appena riprendo possesso della mia coscienza, mi rendo conto che le tue calze a rete sono ormai impresse in copia carbone sulle mie retine e devo quindi scuotere la testa per allontanare lo sguardo.
«Scusami, ti sto rompendo le palle.»
«No, affatto. Figurati!»
Invece ho davvero le palle rotte. Mi spiace, sul serio non è colpa tua. Tu non sei causa del mio disagio. Anzi, vorrei poter provare una maggiore empatia nei tuoi confronti ma mi sento vuoto come un melograno sgranato.
Sono mesi che tento di salvare una relazione dal fallimento più totale, ovvero la mia relazione - quella con mia moglie da cinque anni – nonostante provi a dimenticare che esista quando vengo al lavoro. Mesi interi di sedute di coppia, cercando di fare economia emotiva per poter vivere una vita tranquilla, a discutere di eventuali figli e di nuove prospettive di lavoro. Anni interi a discutere e litigare su quanto siano rompicoglioni le nostre famiglie di origine.
In questo momento, tu rappresenti la mia proiezione nel futuro. Perdonami se quindi mi stai effettivamente rompendo un po’ le palle, poiché sei la verità a cui non voglio giungere.
Sei l’elefante in una cristalleria. Sei la bomba nucleare e io sono il fottuto rinnovo del contratto.
«Devi concentrarti sulle tue priorità, adesso.» farfuglio io.
«Lo so. Non ho alternative.» rispondi tu.
«Già, non ne hai. Troverai la tua strada e più in là riuscirai a vedere le cose in prospettiva. In questo momento fa male più di ogni altra cosa, ma col tempo andrà meglio.»
«Già, se non saremo morti prima sotto le macerie di questo posto di merda!»
«Beh, se vuoi un consiglio, licenziati adesso! Così potrai smettere di pensare al tuo ex e concentrarti su altro.»
Ti strappo una risata. Meglio così. Ho riso anche io e nel frattempo sono cascato nuovamente con lo sguardo sulle tue cosce.
Cristo santo. Sarebbe davvero controproducente farsi venire una erezione proprio adesso, mentre tu mi stai confidando i tuoi drammi più profondi.

«Hai mai dovuto lasciare qualcuno?»
«No.» mento spudoratamente e lo faccio col timore che la conversazione possa travolgermi più del dovuto.
«E’ come strapparsi un arto ormai in cancrena. Sai che se non lo fai morirai soffrendo, ma fa comunque un male boia quando accade e ti senti in colpa per non essere riuscito a trovare una soluzione alternativa.»
«Più o meno come quando ho licenziato lo stagista dello scorso anno.»
«Sei un coglione.» Sorridi. Il mio sarcasmo camuffa con efficacia il mio meccanismo evitante.
Mentre osservo il tuo sguardo umido e le tue labbra dischiuse, il tuo taglio deciso della mandibola e le orecchie arrossate, giungo alla conclusione che l’uomo che hai lasciato non ti meritava.
Ok l’ho detto. Ma, in fondo, cosa posso saperne io? Magari tu eri una colossale mazza nel culo nella vita di relazione e lentamente lui si è allontanato, senza trovare il coraggio di lasciarti per primo. O forse ti ha banalmente tradita. In fondo, era palese che non stessi più bene con lui, per cui in molti sapevamo che fosse solo questione di tempo.
Ma quindi è così? È solo questione di tempo? Arriverò dunque anche io a compiere questo grande passo?
Ti alzi dalla sedia. «Oggi beviamo?»
Cazzo. «No, spetta n’attimo. Oggi non posso.» dico io, mentre in realtà vorrei solo urlare bestemmie.
«Perché?»
«Ho ospiti a cena.» rispondo senza tanti fronzoli.
«Ah, capisco. Scusa.»
Mi sento una merda e riconosco quanto ti senta in imbarazzo anche tu. Hai la camicetta senza un bottone e riesco a scorgere il rossore agitato del tuo petto ornato da una collana sottile con ciondolo a forma di moneta.
Preferirei mille volte uscire con te stasera, a bere e mandare improperi contro il tuo ex.
Sarei quasi tentato di annullare tutto per andare per locali e ubriacarmi con te. Cristo santissimo, sei di una bellezza sconvolgente.
Ok, l’ho pensato un’altra volta. E allora?
Quanti punti mi tolgono dalla patente di maschio alfa etero basic? Ho appena dovuto consolare una collega di lavoro che ha appena rotto con il fidanzato e l’unico pensiero che la mia mente intrusiva mi porta a fare è un giudizio su quanto siano belle quelle gote rosse e solcate dalle lacrime. Si può essere più cazzoni? La risposta è no. Ho già provato a giustificare il mio disagio e non ci sono riuscito; quindi, terminerò qui la mia arringa difensiva e attenderò il verdetto di condanna.

La sera rimango fatuo, amorfo, anestetizzato, mentre la coppia di ospiti venuta a cena ci racconta le loro ferie natalizie a Budapest e ci annuncia che cambieranno casa. Mia moglie sorride con cortesia e mi invita a essere più partecipe. Io rispondo bevendo più vino del dovuto.
Chissà se stai bevendo anche tu nel buio solitario del tuo appartamento ormai diventato troppo spazioso.
Il dopocena prosegue con i soliti convenevoli. “Dovreste venire a casa nuova, quando avrete modo.” “Eh sì, il tempo che ci sistemiamo con il trasloco.” “magari giochiamo a dixit!” “oppure potremmo vedere insieme la finale di masterchef.”
Al termine della sera, salutiamo la coppia entrambi sulla soglia della porta di casa. Dopodiché, in silenzio, indossiamo il pigiama e ci prepariamo per la notte.
Riesco a scorgere le natiche di mia moglie mentre in modo scomposto entrano nel morbido pigiama di flanella fucsia. È sempre stato un bel culo, non c’è che dire. Basterà per farmelo venire duro? Basterà per superare il blocco emotivo che ci attanaglia da mesi? Basterà per appacificare una relazione ormai sul tramonto?
No.
Non basta neanche per il cazzo. Ma adesso devo comunque masturbarmi perché altrimenti non riesco a dormire.
Per cui mi rialzo dal letto e vado in bagno in silenzio a spararmi una sega. Faccio pure lo sforzo di fare tutto senza cellulare, provando a concentrarmi sui glutei appena scrutati, per provare a suscitare qualcosa.
Ho una immagine fissa in testa: Il perizoma rosso di un Capodanno di tre anni fa. Lei era splendida. Stavamo davvero bene insieme, ai tempi. Voleva a tutti i costi che la ammirassi e che facessi a brandelli quel pezzo di stoffa. Ricordo ancora il suono dello strappo netto del filo di cotone che, ormai devastato, liberava il nocciolo brunastro e grinzoso al centro della luna.
Mi sono sempre immaginato che potesse stringerlo e rilasciarlo come se dovesse farmi un occhiolino. Un caldo invito a entrare.
Il mio cazzo, a quel pensiero così specifico, adesso si inturgida in modo vistoso, segno che forse ho imbroccato il sentiero giusto. La mia mano scorre lungo l’asta per cavalcare l’onda.
Con la mente immagino di aprire dolcemente quelle felle, cercando anche di fantasticare sui possibili odori di fica e di pelle nuda, provando a riprodurre le sensazioni ora per allora. Tutto ciò è senza senso, poiché lo stesso luogo del desiderio si trova a pochi metri da me, in carne e ossa. Eppure, mi arrocco nella sua idealizzazione anziché cercare di riconquistare l’oggetto reale.
“Riempimi, ti prego.” Mi implora lei, nel buio delle mie fantasie vergognose.
La sento distintamente. La mia mano accelera i colpi mentre le dispercezioni visive e uditive si fanno largo lasciandomi immergere nella oscenità a occhi chiusi.
È una voce che inizialmente non riconosco, non sembra quella di mia moglie. Sono quindi costretto a guardare (o per meglio dire, a costruire con la fantasia) il volto della donna che fino a pochi istanti prima indossava un perizoma rosso e che io ho creduto potesse trattarsi della mia compagna.
Con mia somma sorpresa scopro che si tratta di te.
I capelli sono diventati d’un tratto biondi e mossi. Le spalle assumono una conformazione più slanciata, il collo è liscio e la tua mandibola tagliente fa capolino dietro le spalle, mentre il guizzo dei tuoi occhi maliziosi e vogliosi, indirizzato alla mia persona, sembra parlare una lingua tutta sua.
“Fammi tua.” Pronunci, incessantemente, condita di varie blasfemie con una voce lievemente graffiante e asciutta.
Non resisto, mi lascio trasportare da quell’inaspettato plot twist e inizio a carezzarmi i coglioni. La voglia è tanta. La minchia pulsa come un metronomo e segue con religioso rituale le oscillazioni del tuo bacino, che osservo mentre si dondola come un paziente sotto ipnosi. Ti guardo il culo come se lo avessi davvero di fronte a me, a pochi centimetri. Penso che potrei palpeggiarlo e saggiarne la consistenza, se solo l’ipnosi riuscisse a riprodurre pure il tatto. Il tuo volto è rigido, bramoso, pervaso da una perversa eccitazione. Mi stai letteralmente offrendo il tuo corpo preso in prestito dal mio inconscio. Nel giro di pochi istanti, alcuni fiotti violenti e scottanti spruzzano dalla punta ormai asfittica del mio membro. Arrivo a sporcare pure il pigiama per l’impeto di certi schizzi.
Stringo nel pugno il pene ormai esausto e cerco di ricomporre i pezzi della mia coscienza. Neanche so descriverti come mi sento in questo momento.
scritto il
2025-01-26
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