All'interno di un Universo tumultuoso
di
Jan Zarik
genere
prime esperienze
«Ti ho detto di lasciare stare. Ci penso io qui, vai pure!»
«Sei sicuro?» chiese Miriam, mentre staccava un fusto di birra ormai esausto dalla spina del bancone.
«Si, non ti preoccupare. Oggi ci eravamo detti che fosse la tua serata libera, non voglio approfittarmene.» replicò Davide, con sguardo tranquillizzante.
«Ok, grazie.» rispose la ragazza, riconoscente. Slacciò il grembiule verde e lo appese alla parete alle sue spalle. Salutò l’altra barista con un bacio sulla guancia. Miriam aveva comunque lavorato dalle 18.00 circa per predisporre all’apertura.
Davide si strofinò una guancia con il dorso dell’avambraccio, prima di concentrarsi nuovamente ad asciugare i boccali di birra. Incrociò lo sguardo di alcuni clienti che con bramosia cercavano di attirare la sua attenzione.
Si trattava di un turno come molti altri. Solita clientela, soliti volti, poca calca. Da inizio serata avvertiva una specie di prurito al viso, come se fosse un principio di allergia. Spesso, sentiva il bisogno di grattarsi ma aveva timore di far arrossare ancora di più la faccia.
Adesso erano rimasti solo lui e Camilla, che comunque avrebbe saputo gestire la situazione senza troppi problemi. Per buona parte della sera, tutto filò liscio coi soliti brindisi e qualche bicchiere rotto.
Mancava poco alla chiusura, quando un uomo, vestito con un abito color carta da zucchero, i capelli neri e folti portati un po’ lunghetti e piegati all’indietro come un’onda, domandò un Talisker. Aveva un viso olivastro e la barba curata, suggerendo origini mediterranee; tuttavia, l’accento era tipicamente di quelle parti.
«Si, attendi un attimo.»
Finito di pulire il bancone, procedette a servire il whiskey. «Ci vuoi dell’acqua a parte?»
«No, va bene così.» rispose l’uomo.
Davide squadrò meglio il cliente. Era un uomo solo, ben vestito e dal volto assente. Probabilmente, sarebbe rimasto lì per un po’. Era quasi certo che avrebbe fatto tre-quattro giri di whiskey. Fu tuttavia silenzioso per buona parte del tempo. Non sembrava il tipo da scenate, non guardava il vuoto come un ebete, non dava l’aria di chi fosse pronto a piantare una rissa. Sembrava soltanto avesse voglia di bere da solo. Appariva pensieroso, forse sconsolato.
Camilla ogni tanto lanciava occhiate a Davide, come a sottolineare quella strana presenza. Quest’ultimo annuiva, consapevole che entrambi stessero monitorando la situazione e dovevano decidere il da farsi.
Dopo un’ora circa, Davide fece un calcolo dei drink che aveva ordinato l’uomo in abito carta da zucchero. Realizzò presto che era soltanto a metà del secondo giro. Ogni tanto, l’uomo controllava il cellulare per poi rimetterlo da parte.
«Ehi, tra poco noi andremo in chiusura. Scusami.» disse Davide, guardandolo fisso negli occhi con una calma apparente, mentre asciugava un bicchiere a cono.
«Grazie. Tu ti ricordi di me?» fece l’uomo, improvvisamente destato dal suo immobilismo.
«Mi dispiace, ne vedo tanti qui, ogni sera.»
«Sono Pietro. Giocavamo insieme nei Giaguari. Facevo il fullback di riserva. Tu sei Davide, giusto? Giocavi in linea d’attacco.»
Davide posò il bicchiere e si avvicinò all’uomo. «Cristo santo. Pietro! Non ti avevo riconosciuto! Quanto tempo è passato?»
«Troppo, amico. Credo vent’anni.» disse Pietro.
«Si, cazzo! Una vita fa. Merda, perché non me lo hai detto subito?» chiese Davide, dopo aver teso una mano in segno di amicizia.
«Ero distratto dai pensieri. Non sapevo che questo posto fosse tuo!»
«Sono quattro anni che lo tengo in gestione.» disse Davide, rimuginando su quanto appena detto.
«Mai stato qui, prima d’ora. Mi piace.»
«Grazie.»
Finiti i convenevoli, tra i due ripiombò l’imbarazzo. Era quasi ora di chiusura e quella che doveva essere una rapida comunicazione di servizio si stava tramutando nell’inizio di una conversazione potenzialmente impegnativa. Cosa hai fatto in questi anni, cosa ne è stato degli altri compagni di squadra. Di cosa ti occupi. Robe così.
Il cliente dal volto olivastro che prima sembrava avesse poca voglia di parlare, si riscoprì piuttosto desideroso della chiacchera. Davide, dal canto suo, era un po’ indietro con la tabella di marcia per rimettere a posto il locale.
«Perdonami, ti sto facendo perdere tempo.»
«Tranquillo. La prossima volta magari vieni un po’ prima. Il drink naturalmente è offerto.»
«Non so se ci sarà una prossima volta.»
Davide raggelò nel sentire quella frase. Di solito, non è una frase carina da dire al gestore di un locale.
Tuttavia, quand’anche si trattasse effettivamente di un motivo sincero – ad esempio il trasferimento in altra città – è abbastanza insolito esprimersi in modo così assolutista.
No, certamente la frase non era stata buttata lì per caso. Il tipo stava lanciando un grido d’aiuto. Davide aveva ricevuto tante volte messaggi come questo. La gente cerca spesso un supporto nel proprio dispensatore di veleni. La capacità di Davide nell’ascolto era una grande dote ma spesso anche una terribile maledizione.
In ogni caso, non se la sentì di lasciar perdere quel vecchio compagno di football proprio nel momento del bisogno. “Tra compagni ci si aiuta sempre” era uno dei mantra del coach fin dai tempi del primo campionato regionale.
«Se vuoi, chiacchieriamo un po’ non appena finisco di sistemare qui.»
Davide incrociò lo sguardo di Camilla una seconda volta, facendo spallucce. Anche questa volta, sarebbe rientrato tardi a casa.
«Ho appena passato la serata più assurda della mia vita.» disse Pietro, che sembrava non aver ascoltato una sola parola di quanto avesse detto Davide.
«Ok. Ne parliamo tra poco.»
«Sicuro di rimanere solo con lui? Sembra un po’ strano.»
«Ma sì, tranquilla. Lo conosco piuttosto bene. Vuole solo parlare.»
«Ma se non lo avevi neanche riconosciuto!»
«Eh, grazie alla minchia! Adesso porta quel ciuffo indecente da Elvis Presley; quando era in squadra con me aveva sempre i capelli rasati. Inoltre, è più magro di quando l’ho conosciuto.»
«Beh, in ogni caso, fammi sapere se ti da problemi.»
Una volta salutata la dipendente, Davide abbassò la saracinesca e si avvicinò a Pietro.
«Vuoi una?» disse, mentre allungava un pacchetto di Marlboro gold verso il suo interlocutore.
«Mah, sì. Grazie.» rispose Pietro, sfilandone una.
«Dicevi della serata più assurda della tua vita…»
Pietro si coprì la bocca con una mano e accese la punta della sua sigaretta con un piccolo bic nero.
Aspirò e tossì. Non dava l’idea di essere un fumatore abituale. D’un tratto, cercò tra le tasche del vestito qualcosa, fino a che non estrasse un oggetto rosa, piuttosto bizzarro.
«Tu sai cosa è questo?»
Davide strabuzzò gli occhi. D’un tratto, non fu più tanto sicuro di riuscire a governare la conversazione come aveva sperato.
«Ma che cazzo…? Perché lo tieni in tasca?»
«Non è mio.»
«Lo spero bene. Che cazzo ti è successo?» chiese Davide, francamente incuriosito.
«Tu conosci la teoria dell’Uovo?» chiese Pietro, ruotando quell’oggetto tra le dita.
«Non so di cosa parli.» rispose Davide, confuso, mentre tirava nervosamente una boccata di fumo.
«Me l’ha raccontata una volta mia zia Esther. Lei è svizzera, un po’ strana! Comunque sia, una volta mi disse “Pietro, io e te siamo la stessa persona.”»
Davide si toccò gli occhi stanchi, realizzando l’errore che aveva appena commesso nel dare ascolto a quello squinternato.
«”Cosa intendi, zia?” le chiesi io.
“Noi tutti siamo null’altro che versioni di un unico essere. Quando moriamo, rinasciamo e ci reincarniamo in un altro essere. Può capitare di reincarnarsi in qualcuno vissuto molto tempo dopo di noi. Oppure, può capitare di ritrovarsi nel corpo di qualcuno vissuto molto prima.
Spesso, intorno a noi ci sono versioni reincarnate del nostro essere. Ci passano accanto, ci salutano, con alcune ci frequentiamo assiduamente, con altre siamo stretti da legami di parentela, come nel nostro caso.”
Io le provai a spiegare che tutto ciò non avesse senso. Perché dovremmo pensare di essere tutti reincarnazioni di uno stesso uomo?
“No, Pietro. Non siamo tutti reincarnazioni di un uomo qualsiasi. Siamo tutti reincarnazioni di te. Di me. Di noi. Lo capisci?”
A quel punto, forse, realizzai che mia zia non ci stava affatto con la testa. Qualche anno dopo so che fu ricoverata in una clinica di Zurigo. Ma non è questo il punto…»
Davide aveva finito la sua sigaretta e cercava di trovare le parole per rispondere a quelle assurdità. Soprattutto, cercava di trovare un modo per allontanarsi alla svelta da quella difficile situazione. Pietro, nel frattempo, ricominciò col suo sproloquio, incurante di risultare inopportuno o delirante.
«Per qualche tempo smisi di pensarci. Poi, lentamente, capii che forse aveva ragione lei. In fondo, se è vero che questo nostro universo è vasto, allora è possibile che il nostro tempo sia altrettanto vasto. Noi moriamo e ci reincarniamo in qualcun altro perché in verità esistiamo solo noi, nella nostra solitudine. Ci facciamo compagnia e apprendiamo dalle versioni precedenti di noi stessi, per poter insegnare a quelle successive. Di fatto, in questo modo saremmo alunni che ascoltano una lezione e allo stesso tempo il professore che la spiega. La madre amorevole che accudisce e al tempo stesso il figlio che viene accudito. Siamo Hitler, ma siamo anche i sei milioni di donne e uomini che ha ammazzato. Siamo la donna con cui abbiamo fatto all’amore ma siamo anche l’uomo che l’ha delusa e offesa molti anni prima. Siamo le migliaia di clienti che affollano il tuo bar ma siamo anche le stesse persone che dietro quel bancone si fanno il culo per servirle. Forse il nostro scopo è acquisire esperienza all’infinito, fino a diventare qualcos’altro; non appena avremo fatto esperienza di tutte le versioni di umanità possibili, allora potremo uscire dall’Uovo.»
«Pietro! Arriva al punto.» implorò Davide, sfinito da quella liturgia insensata.
«Ok, amico. Ho conosciuto una tipa. Le circostanze con cui l’ho conosciuta sono strane. Diciamo che è stata una corrispondenza virtuale. Non ci conoscevamo. Non ci eravamo mai visti in faccia. Era dolce. Spigliata, intelligente. L’unica cosa che sapevo del suo corpo era che avesse un tatuaggio con una chiave di violino sull’interno dell’avambraccio. Mi infatuai di lì a poco e dunque un giorno le scrissi per dirle che mi andava di vederla. Lei ha accettato. Organizzammo la serata e il luogo. Oggi speravo di conoscerla.»
Davide si accese un’altra sigaretta, sempre stranito ma più disposto al sentire la storia.
«E quindi? Continua, su!»
Pietro, a quel punto, incredulo delle sue stesse parole, proseguì la cronaca.
«Ero arrivato in largo anticipo, avvertivo un po’ di tensione. Mi resi conto che non ero bravo in certe cose; tuttavia, mi feci forza e aspettai che giungesse l’orario stabilito, facendomi trovare seduto al tavolo. Davo le spalle all’ingresso, perché altrimenti avrei sobbalzato ad ogni figura femminile che entrava nel locale. D’un tratto, da lontano sentivo uno dei camerieri invitare una cliente ad accomodarsi. Mi resi conto che potesse essere lei! Intuivo un certo tentennamento, per cui mi alzai per incrociare il suo sguardo. Era bella. Una bellezza sconvolgente. Una donna mora, curata, con un abito nero che le stava divinamente. Era meglio di quanto potessi immaginare.»
«La donna allora si sistemò i capelli e indicò al cameriere la direzione del mio tavolo. Io la accolsi con il più grande sorriso che potessi mostrare e le strinsi la mano. Lei osservava accuratamente le mie mani come se fossero un oggetto prezioso.
“Finalmente.”
“Eh sì.”
“Siediti, prego.”
“Potresti per favore spegnere l’aggeggino? Giusto il momento dei convenevoli.”
“Come, scusa?”
“Ah-ha. Già. Prima regola. Non posso avanzare queste richieste. Hai ragione. Me lo scordo sempre.”
Io ero imbarazzato, tanto quanto lei. Non sapevamo cosa dire, sembrava recitassimo un copione.»
«”Così dunque tu sei Alice, giusto?”
“Si. Sono io. Tu sei Tom, quindi.”
“In carne e ossa.”
Lei mi guardava con sguardo inquisitorio. Sembrava come in attesa di qualche parolina magica…
”Ti immaginavo diverso.”
Mentre lei pronunciava questa frase la vedevo piegarsi in due, con il volto sofferente. “Ehi, tutto a posto?” le chiedevo, ma lei continuava a ridere.
“Sei proprio un bastardo. Dove lo tieni?”
“Tengo cosa, scusami?”
“Il telecomando…!”
A quel punto, capii che qualcosa non andava. Guardai le sue braccia. Nessun tatuaggio.»
«Aspetta, mi sto perdendo: Lei, quindi, stava indossando l’ovetto in quel momento?» chiese Davide.
«Già.»
«Ok. Interessante. Continua.»
«Le ho chiesto di spiegarsi ma lei continuava a pretendere che io fingessi di non sapere! Era come se quel gioco avesse delle regole stabilite che tuttavia mi era impossibile da comprendere. Una volta che lei si ricompose, la guardai dritta negli occhi e il suo volto cambiò subito espressione, notando la mia faccia preoccupata.
“Alice. Ascoltami bene. Io non ho idea di cosa tu stia parlando. Non ho nessun telecomando e non sto fingendo proprio nulla. Per favore, spiegami che storia è questa.”
Lei si guardò intorno, stranita.
“Come? Me lo hai fatto acquistare tu...”
“Non sono stato io.”
“E allora chi cazzo è questo?” mi chiese lei adirata, facendomi vedere una carrellata di foto di cazzi e piante ornamentali che non avevo mai visto. Lessi che il nickname era uguale al mio ma certamente non ero io. A quel punto, guardai rapidamente la mia presunta chat con lei e gliela mostrai. Lei sgranò gli occhi inorridita.
“Questi non siamo noi!” disse, con un filo di voce.
Ci volle qualche minuto prima di riportare il controllo della situazione. Entrambi ci sentivamo spaesati e traditi. Quella situazione non piaceva a nessuno dei due.
La mia chat, in confronto alla sua, era estremamente sobria e pudica. L’Alice che conoscevo io abitava a Torino, studiava ingegneria gestionale, aveva un lavoro part-time e amava la musica indie. Ci salutavamo la notte e ci davamo il buongiorno la mattina. Avevo proposto io quel locale, perché si mangia molto bene e si spende relativamente poco. La sua chat, invece, era molto più audace. Sembravano appassionati di giardinaggio. Lei proveniva dalla bassa padana. Da quel che intuivo avevano iniziato una specie di gioco piccante che consisteva in diritti e doveri. Lei aveva preso un treno nel pomeriggio per venire qua. Preso atto dell’equivoco, lei si alzò nuovamente dalla sedia.
“Beh, direi che è meglio che vada.” Disse a un certo punto.
“Aspetta! Non credi sia un po’ strano? Quante probabilità ci sono che succedesse?” insistetti io.
“Guarda, è tutto estremamente strano. Non mi piace affatto. Ho sbagliato a venire qui.”
A quel punto, andò un attimo in bagno, lasciandomi stordito. Istintivamente, controllai di nuovo la chat. Inviai d’istinto un messaggio “Ci sei? Sei reale?” ma non ricevetti nessuna risposta. Non appena la vidi tornare, notai che i suoi occhi erano gonfi e umidi. La delusione era stata troppa per entrambi.
“Tieni. Di questo, non so che farmene.” Disse lei, sconsolata. “Non posso sapere se tu sei uno stronzo psicopatico che mi sta prendendo per il culo o se semplicemente il destino ha voluto che finisse così. In ogni caso, non voglio più averci niente a che fare.” Quindi poggiò l’ovetto sul tavolo.
Rimasi immobile qualche secondo, vedendola andare via senza salutare. Dopodiché, raccolsi l’oggetto, mi scusai per il disturbo e andai via anche io. Iniziai a vagare per la strada, ancora frastornato, fino a quando non sono approdato al tuo locale.»
Una volta terminato il racconto, il volto di Pietro si rabbuiò.
«E’ tutto?» chiese Davide, alla sua terza o quarta sigaretta.
«Già.»
«E’ una storia assurda.»
«Te lo dicevo, io.»
«Come te lo spieghi? Uno scambio di persona?»
«Chi lo sa. Quante possibilità c’erano che accadesse un malinteso così grosso?»
«Non saprei. Una su dieci milioni?»
«Ricordi che ti dicevo, riguardo mia zia?»
Davide offrì un’altra sigaretta a Pietro. «La storia delle reincarnazioni? Si, ricordo.»
«Ecco. Io forse ci credo. Forse io e Alice, ma anche te e il resto degli esseri viventi, siamo tutte versioni di un unico essere. Accumuliamo esperienze, ci incontriamo in anonimo su telegram, ci amiamo e ci confondiamo a vicenda. Scambiamo le persone per qualcun altro. Ecco, quindi, la teoria dell’Uovo: Siamo tutti all’interno di un Universo tumultuoso, una sorta di grande incubatrice, come un uovo pronto a schiudersi per generare qualcos’altro. Siamo ancora così piccoli e così ignoranti...»
Pietro continuò a tenere quell’ovetto tra le mani, facendolo roteare in modo quasi compulsivo. Era visibilmente stanco e ormai al limite di sopportazione.
Davide a quel punto gli posò una mano sulla spalla e lo accompagnò a un taxi.
Realizzò che non avrebbe mai più mangiato uova in vita sua. La faccia riprese a prudere terribilmente.
Un unico pensiero continuava a rimbalzare nella sua testa: Dove aveva già visto un tatuaggio a forma di chiave di violino?
[questo racconto si collega ad altri due racconti, rispettivamente "L'importanza del vuoto" e "Sospesa su un filo tra due rocce scoscese". Li trovate in lista tra i precedenti.]
«Sei sicuro?» chiese Miriam, mentre staccava un fusto di birra ormai esausto dalla spina del bancone.
«Si, non ti preoccupare. Oggi ci eravamo detti che fosse la tua serata libera, non voglio approfittarmene.» replicò Davide, con sguardo tranquillizzante.
«Ok, grazie.» rispose la ragazza, riconoscente. Slacciò il grembiule verde e lo appese alla parete alle sue spalle. Salutò l’altra barista con un bacio sulla guancia. Miriam aveva comunque lavorato dalle 18.00 circa per predisporre all’apertura.
Davide si strofinò una guancia con il dorso dell’avambraccio, prima di concentrarsi nuovamente ad asciugare i boccali di birra. Incrociò lo sguardo di alcuni clienti che con bramosia cercavano di attirare la sua attenzione.
Si trattava di un turno come molti altri. Solita clientela, soliti volti, poca calca. Da inizio serata avvertiva una specie di prurito al viso, come se fosse un principio di allergia. Spesso, sentiva il bisogno di grattarsi ma aveva timore di far arrossare ancora di più la faccia.
Adesso erano rimasti solo lui e Camilla, che comunque avrebbe saputo gestire la situazione senza troppi problemi. Per buona parte della sera, tutto filò liscio coi soliti brindisi e qualche bicchiere rotto.
Mancava poco alla chiusura, quando un uomo, vestito con un abito color carta da zucchero, i capelli neri e folti portati un po’ lunghetti e piegati all’indietro come un’onda, domandò un Talisker. Aveva un viso olivastro e la barba curata, suggerendo origini mediterranee; tuttavia, l’accento era tipicamente di quelle parti.
«Si, attendi un attimo.»
Finito di pulire il bancone, procedette a servire il whiskey. «Ci vuoi dell’acqua a parte?»
«No, va bene così.» rispose l’uomo.
Davide squadrò meglio il cliente. Era un uomo solo, ben vestito e dal volto assente. Probabilmente, sarebbe rimasto lì per un po’. Era quasi certo che avrebbe fatto tre-quattro giri di whiskey. Fu tuttavia silenzioso per buona parte del tempo. Non sembrava il tipo da scenate, non guardava il vuoto come un ebete, non dava l’aria di chi fosse pronto a piantare una rissa. Sembrava soltanto avesse voglia di bere da solo. Appariva pensieroso, forse sconsolato.
Camilla ogni tanto lanciava occhiate a Davide, come a sottolineare quella strana presenza. Quest’ultimo annuiva, consapevole che entrambi stessero monitorando la situazione e dovevano decidere il da farsi.
Dopo un’ora circa, Davide fece un calcolo dei drink che aveva ordinato l’uomo in abito carta da zucchero. Realizzò presto che era soltanto a metà del secondo giro. Ogni tanto, l’uomo controllava il cellulare per poi rimetterlo da parte.
«Ehi, tra poco noi andremo in chiusura. Scusami.» disse Davide, guardandolo fisso negli occhi con una calma apparente, mentre asciugava un bicchiere a cono.
«Grazie. Tu ti ricordi di me?» fece l’uomo, improvvisamente destato dal suo immobilismo.
«Mi dispiace, ne vedo tanti qui, ogni sera.»
«Sono Pietro. Giocavamo insieme nei Giaguari. Facevo il fullback di riserva. Tu sei Davide, giusto? Giocavi in linea d’attacco.»
Davide posò il bicchiere e si avvicinò all’uomo. «Cristo santo. Pietro! Non ti avevo riconosciuto! Quanto tempo è passato?»
«Troppo, amico. Credo vent’anni.» disse Pietro.
«Si, cazzo! Una vita fa. Merda, perché non me lo hai detto subito?» chiese Davide, dopo aver teso una mano in segno di amicizia.
«Ero distratto dai pensieri. Non sapevo che questo posto fosse tuo!»
«Sono quattro anni che lo tengo in gestione.» disse Davide, rimuginando su quanto appena detto.
«Mai stato qui, prima d’ora. Mi piace.»
«Grazie.»
Finiti i convenevoli, tra i due ripiombò l’imbarazzo. Era quasi ora di chiusura e quella che doveva essere una rapida comunicazione di servizio si stava tramutando nell’inizio di una conversazione potenzialmente impegnativa. Cosa hai fatto in questi anni, cosa ne è stato degli altri compagni di squadra. Di cosa ti occupi. Robe così.
Il cliente dal volto olivastro che prima sembrava avesse poca voglia di parlare, si riscoprì piuttosto desideroso della chiacchera. Davide, dal canto suo, era un po’ indietro con la tabella di marcia per rimettere a posto il locale.
«Perdonami, ti sto facendo perdere tempo.»
«Tranquillo. La prossima volta magari vieni un po’ prima. Il drink naturalmente è offerto.»
«Non so se ci sarà una prossima volta.»
Davide raggelò nel sentire quella frase. Di solito, non è una frase carina da dire al gestore di un locale.
Tuttavia, quand’anche si trattasse effettivamente di un motivo sincero – ad esempio il trasferimento in altra città – è abbastanza insolito esprimersi in modo così assolutista.
No, certamente la frase non era stata buttata lì per caso. Il tipo stava lanciando un grido d’aiuto. Davide aveva ricevuto tante volte messaggi come questo. La gente cerca spesso un supporto nel proprio dispensatore di veleni. La capacità di Davide nell’ascolto era una grande dote ma spesso anche una terribile maledizione.
In ogni caso, non se la sentì di lasciar perdere quel vecchio compagno di football proprio nel momento del bisogno. “Tra compagni ci si aiuta sempre” era uno dei mantra del coach fin dai tempi del primo campionato regionale.
«Se vuoi, chiacchieriamo un po’ non appena finisco di sistemare qui.»
Davide incrociò lo sguardo di Camilla una seconda volta, facendo spallucce. Anche questa volta, sarebbe rientrato tardi a casa.
«Ho appena passato la serata più assurda della mia vita.» disse Pietro, che sembrava non aver ascoltato una sola parola di quanto avesse detto Davide.
«Ok. Ne parliamo tra poco.»
«Sicuro di rimanere solo con lui? Sembra un po’ strano.»
«Ma sì, tranquilla. Lo conosco piuttosto bene. Vuole solo parlare.»
«Ma se non lo avevi neanche riconosciuto!»
«Eh, grazie alla minchia! Adesso porta quel ciuffo indecente da Elvis Presley; quando era in squadra con me aveva sempre i capelli rasati. Inoltre, è più magro di quando l’ho conosciuto.»
«Beh, in ogni caso, fammi sapere se ti da problemi.»
Una volta salutata la dipendente, Davide abbassò la saracinesca e si avvicinò a Pietro.
«Vuoi una?» disse, mentre allungava un pacchetto di Marlboro gold verso il suo interlocutore.
«Mah, sì. Grazie.» rispose Pietro, sfilandone una.
«Dicevi della serata più assurda della tua vita…»
Pietro si coprì la bocca con una mano e accese la punta della sua sigaretta con un piccolo bic nero.
Aspirò e tossì. Non dava l’idea di essere un fumatore abituale. D’un tratto, cercò tra le tasche del vestito qualcosa, fino a che non estrasse un oggetto rosa, piuttosto bizzarro.
«Tu sai cosa è questo?»
Davide strabuzzò gli occhi. D’un tratto, non fu più tanto sicuro di riuscire a governare la conversazione come aveva sperato.
«Ma che cazzo…? Perché lo tieni in tasca?»
«Non è mio.»
«Lo spero bene. Che cazzo ti è successo?» chiese Davide, francamente incuriosito.
«Tu conosci la teoria dell’Uovo?» chiese Pietro, ruotando quell’oggetto tra le dita.
«Non so di cosa parli.» rispose Davide, confuso, mentre tirava nervosamente una boccata di fumo.
«Me l’ha raccontata una volta mia zia Esther. Lei è svizzera, un po’ strana! Comunque sia, una volta mi disse “Pietro, io e te siamo la stessa persona.”»
Davide si toccò gli occhi stanchi, realizzando l’errore che aveva appena commesso nel dare ascolto a quello squinternato.
«”Cosa intendi, zia?” le chiesi io.
“Noi tutti siamo null’altro che versioni di un unico essere. Quando moriamo, rinasciamo e ci reincarniamo in un altro essere. Può capitare di reincarnarsi in qualcuno vissuto molto tempo dopo di noi. Oppure, può capitare di ritrovarsi nel corpo di qualcuno vissuto molto prima.
Spesso, intorno a noi ci sono versioni reincarnate del nostro essere. Ci passano accanto, ci salutano, con alcune ci frequentiamo assiduamente, con altre siamo stretti da legami di parentela, come nel nostro caso.”
Io le provai a spiegare che tutto ciò non avesse senso. Perché dovremmo pensare di essere tutti reincarnazioni di uno stesso uomo?
“No, Pietro. Non siamo tutti reincarnazioni di un uomo qualsiasi. Siamo tutti reincarnazioni di te. Di me. Di noi. Lo capisci?”
A quel punto, forse, realizzai che mia zia non ci stava affatto con la testa. Qualche anno dopo so che fu ricoverata in una clinica di Zurigo. Ma non è questo il punto…»
Davide aveva finito la sua sigaretta e cercava di trovare le parole per rispondere a quelle assurdità. Soprattutto, cercava di trovare un modo per allontanarsi alla svelta da quella difficile situazione. Pietro, nel frattempo, ricominciò col suo sproloquio, incurante di risultare inopportuno o delirante.
«Per qualche tempo smisi di pensarci. Poi, lentamente, capii che forse aveva ragione lei. In fondo, se è vero che questo nostro universo è vasto, allora è possibile che il nostro tempo sia altrettanto vasto. Noi moriamo e ci reincarniamo in qualcun altro perché in verità esistiamo solo noi, nella nostra solitudine. Ci facciamo compagnia e apprendiamo dalle versioni precedenti di noi stessi, per poter insegnare a quelle successive. Di fatto, in questo modo saremmo alunni che ascoltano una lezione e allo stesso tempo il professore che la spiega. La madre amorevole che accudisce e al tempo stesso il figlio che viene accudito. Siamo Hitler, ma siamo anche i sei milioni di donne e uomini che ha ammazzato. Siamo la donna con cui abbiamo fatto all’amore ma siamo anche l’uomo che l’ha delusa e offesa molti anni prima. Siamo le migliaia di clienti che affollano il tuo bar ma siamo anche le stesse persone che dietro quel bancone si fanno il culo per servirle. Forse il nostro scopo è acquisire esperienza all’infinito, fino a diventare qualcos’altro; non appena avremo fatto esperienza di tutte le versioni di umanità possibili, allora potremo uscire dall’Uovo.»
«Pietro! Arriva al punto.» implorò Davide, sfinito da quella liturgia insensata.
«Ok, amico. Ho conosciuto una tipa. Le circostanze con cui l’ho conosciuta sono strane. Diciamo che è stata una corrispondenza virtuale. Non ci conoscevamo. Non ci eravamo mai visti in faccia. Era dolce. Spigliata, intelligente. L’unica cosa che sapevo del suo corpo era che avesse un tatuaggio con una chiave di violino sull’interno dell’avambraccio. Mi infatuai di lì a poco e dunque un giorno le scrissi per dirle che mi andava di vederla. Lei ha accettato. Organizzammo la serata e il luogo. Oggi speravo di conoscerla.»
Davide si accese un’altra sigaretta, sempre stranito ma più disposto al sentire la storia.
«E quindi? Continua, su!»
Pietro, a quel punto, incredulo delle sue stesse parole, proseguì la cronaca.
«Ero arrivato in largo anticipo, avvertivo un po’ di tensione. Mi resi conto che non ero bravo in certe cose; tuttavia, mi feci forza e aspettai che giungesse l’orario stabilito, facendomi trovare seduto al tavolo. Davo le spalle all’ingresso, perché altrimenti avrei sobbalzato ad ogni figura femminile che entrava nel locale. D’un tratto, da lontano sentivo uno dei camerieri invitare una cliente ad accomodarsi. Mi resi conto che potesse essere lei! Intuivo un certo tentennamento, per cui mi alzai per incrociare il suo sguardo. Era bella. Una bellezza sconvolgente. Una donna mora, curata, con un abito nero che le stava divinamente. Era meglio di quanto potessi immaginare.»
«La donna allora si sistemò i capelli e indicò al cameriere la direzione del mio tavolo. Io la accolsi con il più grande sorriso che potessi mostrare e le strinsi la mano. Lei osservava accuratamente le mie mani come se fossero un oggetto prezioso.
“Finalmente.”
“Eh sì.”
“Siediti, prego.”
“Potresti per favore spegnere l’aggeggino? Giusto il momento dei convenevoli.”
“Come, scusa?”
“Ah-ha. Già. Prima regola. Non posso avanzare queste richieste. Hai ragione. Me lo scordo sempre.”
Io ero imbarazzato, tanto quanto lei. Non sapevamo cosa dire, sembrava recitassimo un copione.»
«”Così dunque tu sei Alice, giusto?”
“Si. Sono io. Tu sei Tom, quindi.”
“In carne e ossa.”
Lei mi guardava con sguardo inquisitorio. Sembrava come in attesa di qualche parolina magica…
”Ti immaginavo diverso.”
Mentre lei pronunciava questa frase la vedevo piegarsi in due, con il volto sofferente. “Ehi, tutto a posto?” le chiedevo, ma lei continuava a ridere.
“Sei proprio un bastardo. Dove lo tieni?”
“Tengo cosa, scusami?”
“Il telecomando…!”
A quel punto, capii che qualcosa non andava. Guardai le sue braccia. Nessun tatuaggio.»
«Aspetta, mi sto perdendo: Lei, quindi, stava indossando l’ovetto in quel momento?» chiese Davide.
«Già.»
«Ok. Interessante. Continua.»
«Le ho chiesto di spiegarsi ma lei continuava a pretendere che io fingessi di non sapere! Era come se quel gioco avesse delle regole stabilite che tuttavia mi era impossibile da comprendere. Una volta che lei si ricompose, la guardai dritta negli occhi e il suo volto cambiò subito espressione, notando la mia faccia preoccupata.
“Alice. Ascoltami bene. Io non ho idea di cosa tu stia parlando. Non ho nessun telecomando e non sto fingendo proprio nulla. Per favore, spiegami che storia è questa.”
Lei si guardò intorno, stranita.
“Come? Me lo hai fatto acquistare tu...”
“Non sono stato io.”
“E allora chi cazzo è questo?” mi chiese lei adirata, facendomi vedere una carrellata di foto di cazzi e piante ornamentali che non avevo mai visto. Lessi che il nickname era uguale al mio ma certamente non ero io. A quel punto, guardai rapidamente la mia presunta chat con lei e gliela mostrai. Lei sgranò gli occhi inorridita.
“Questi non siamo noi!” disse, con un filo di voce.
Ci volle qualche minuto prima di riportare il controllo della situazione. Entrambi ci sentivamo spaesati e traditi. Quella situazione non piaceva a nessuno dei due.
La mia chat, in confronto alla sua, era estremamente sobria e pudica. L’Alice che conoscevo io abitava a Torino, studiava ingegneria gestionale, aveva un lavoro part-time e amava la musica indie. Ci salutavamo la notte e ci davamo il buongiorno la mattina. Avevo proposto io quel locale, perché si mangia molto bene e si spende relativamente poco. La sua chat, invece, era molto più audace. Sembravano appassionati di giardinaggio. Lei proveniva dalla bassa padana. Da quel che intuivo avevano iniziato una specie di gioco piccante che consisteva in diritti e doveri. Lei aveva preso un treno nel pomeriggio per venire qua. Preso atto dell’equivoco, lei si alzò nuovamente dalla sedia.
“Beh, direi che è meglio che vada.” Disse a un certo punto.
“Aspetta! Non credi sia un po’ strano? Quante probabilità ci sono che succedesse?” insistetti io.
“Guarda, è tutto estremamente strano. Non mi piace affatto. Ho sbagliato a venire qui.”
A quel punto, andò un attimo in bagno, lasciandomi stordito. Istintivamente, controllai di nuovo la chat. Inviai d’istinto un messaggio “Ci sei? Sei reale?” ma non ricevetti nessuna risposta. Non appena la vidi tornare, notai che i suoi occhi erano gonfi e umidi. La delusione era stata troppa per entrambi.
“Tieni. Di questo, non so che farmene.” Disse lei, sconsolata. “Non posso sapere se tu sei uno stronzo psicopatico che mi sta prendendo per il culo o se semplicemente il destino ha voluto che finisse così. In ogni caso, non voglio più averci niente a che fare.” Quindi poggiò l’ovetto sul tavolo.
Rimasi immobile qualche secondo, vedendola andare via senza salutare. Dopodiché, raccolsi l’oggetto, mi scusai per il disturbo e andai via anche io. Iniziai a vagare per la strada, ancora frastornato, fino a quando non sono approdato al tuo locale.»
Una volta terminato il racconto, il volto di Pietro si rabbuiò.
«E’ tutto?» chiese Davide, alla sua terza o quarta sigaretta.
«Già.»
«E’ una storia assurda.»
«Te lo dicevo, io.»
«Come te lo spieghi? Uno scambio di persona?»
«Chi lo sa. Quante possibilità c’erano che accadesse un malinteso così grosso?»
«Non saprei. Una su dieci milioni?»
«Ricordi che ti dicevo, riguardo mia zia?»
Davide offrì un’altra sigaretta a Pietro. «La storia delle reincarnazioni? Si, ricordo.»
«Ecco. Io forse ci credo. Forse io e Alice, ma anche te e il resto degli esseri viventi, siamo tutte versioni di un unico essere. Accumuliamo esperienze, ci incontriamo in anonimo su telegram, ci amiamo e ci confondiamo a vicenda. Scambiamo le persone per qualcun altro. Ecco, quindi, la teoria dell’Uovo: Siamo tutti all’interno di un Universo tumultuoso, una sorta di grande incubatrice, come un uovo pronto a schiudersi per generare qualcos’altro. Siamo ancora così piccoli e così ignoranti...»
Pietro continuò a tenere quell’ovetto tra le mani, facendolo roteare in modo quasi compulsivo. Era visibilmente stanco e ormai al limite di sopportazione.
Davide a quel punto gli posò una mano sulla spalla e lo accompagnò a un taxi.
Realizzò che non avrebbe mai più mangiato uova in vita sua. La faccia riprese a prudere terribilmente.
Un unico pensiero continuava a rimbalzare nella sua testa: Dove aveva già visto un tatuaggio a forma di chiave di violino?
[questo racconto si collega ad altri due racconti, rispettivamente "L'importanza del vuoto" e "Sospesa su un filo tra due rocce scoscese". Li trovate in lista tra i precedenti.]
1
7
voti
voti
valutazione
6.5
6.5
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Pornografia del quotidiano - Vol. 3racconto sucessivo
Pornografia del quotidiano - Vol. 4
Commenti dei lettori al racconto erotico