Fino a equilibrare il Caos

di
genere
voyeur

[Prima parte del finale: Questo racconto si ricollega ad altri precedenti dal titolo "Solcato da sentieri che si intrecciano", "All'interno di un universo tumultuoso", "Sospesa su un filo tra due rocce scoscese" e "l'importanza del vuoto".]

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Lo vedo entrare, puntuale come sempre. I suoi capelli lunghi e mossi sono ogni volta un tuffo al cuore. Mi è sempre piaciuto perdermi ad ammirare quel suo mento appuntito e quegli occhi di ghiaccio. Mi sorride e si avvicina al mio viso. Mi stampa un bacio sulla bocca che accolgo come un amuse-bouche di un ristorante stellato. D’istinto, apro le mie fauci per accogliere la sua lingua che sento entrare con nonchalance, toccandomi il palato e sfiorando il profilo dei miei denti. Vorrei quasi staccargliela a morsi per ingoiarla. Sono già eccitata.
«Ciao, “Alice”...» dice, sghignazzando.
«Fottiti, idiota.» rispondo io, leccandomi le labbra per non perdere neanche un goccio di quel sapore.
«Sono già arrivati?»
«Non ancora.»
«Sai che sei splendida, oggi?»
«Non dire cazzate. Sono appena uscita dal locale.»
«Ah, ecco perché odori di luppolo…»
«Figurati. Ho dovuto armeggiare coi fusti anche questa sera.»
«Quando la pianterai di stare in quella topaia?»
«Ehi, quella topaia un tempo era il tuo regno. C’è ancora la tua poesia sulla porta, ricordi?»
«Si lo so. La gente ormai entra solo per quella insegna lì. Fa bene Davide a sfruttarla ancora. Comunque, dovresti lasciare quel posto e venire a vivere con me.»
«A me il lavoro serve, non sono come te che si fa mantenere dai genitori miliardari.»
«I miei non sono miliardari. Sono semplici imprenditori, come me!» ride. Non ci crede neanche lui.
«Ma vatla pijé ant ël cul.» rispondo io.
«Cosa beviamo, oggi?» dice lui, odorando il mio calice.
«Gutturnio fermo.»
«Che merda! Come hai potuto?»
«Lo ha consigliato la Camilla. Ne abbiamo comprato una partita intera la scorsa settimana ed è già quasi finita. Provalo!»
«Io non sopporto questi blend. Sono dei cazzo di ibridi riusciti male.» replica lui, mentre si siede al mio fianco, toccandomi una coscia.
«Tu di vino non ne capisci una sega.» lo insulto io, scostando la sua mano in malo modo. Lui allora me la ripoggia con maggior convinzione. Gliela lascio quindi tenere.
«Che hai fatto ai capelli?» dice lui, fingendo di non avermi sentito.
«Li ho tagliati. Ti piacciono?»
«Stavi meglio prima.»
«Stronzo.»
«Scherzo! Stai molto bene.»
«Davvero?»
«Si.» il suo sguardo mi fulmina. Istintivamente, mi mordo un labbro. La sua mano esegue una delicata manovra sulla pelle nuda dell’interno coscia.
«Forse è arrivato il nostro Tom.»
Lo vediamo prendere posto. Indossa una giacca color carta da zucchero. Sembra un bell’uomo anche se assume un atteggiamento un po’ timido e impacciato. In chat dava l’impressione di essere più intraprendente.
«Sarà lui?» chiedo io.
«E’ lui quasi sicuramente.»
Se la memoria non mi inganna, quello è il nostro quarto “Tom”.

Ogni Tom è diverso. Ogni Tom ha il suo carattere, la sua storia e il suo portamento. I Tom, allo stesso tempo, sono tutti uguali. Tutti gentiluomini, colti, mansueti, dolci con le femmine. Almeno, questo è quello che tutti i Tom vogliono che si dica sul loro conto, prima di rivelarsi nella loro vera essenza. Tutti i “Tom” hanno una storia particolare, tuttavia, il primo di tutti ha una storia più particolare degli altri.
Entrai in contatto con il primo “Tom” in una chat di gruppo di compra-vendita di oggetti d’arredamento. Si definiva un vero esperto di violini. Fin da subito acquistò il mio interesse, poiché sapevo effettivamente suonare il violino da più di dieci anni. Dieci lunghissimi anni al conservatorio prima di appendere lo strumento al muro come le proverbiali scarpe da danza, a seguito di una delusione dietro l’altra, difficoltà a reperire incarichi e un mondo artistico che ho scoperto essere davvero tossico. Mi rimaneva solo il sapore amaro di chi rinnega le proprie passioni perché in fondo non è in grado di sopportarne il peso.
Tuttavia, quel Tom appariva quasi come una specie di enciclopedia vivente. Conosceva dettagli dei violini che io non pensavo neanche. D’altronde, io li suonavo soltanto. Lui, invece, li costruiva. Per cui, io decisi di non rivelare mai la mia passione per i violini. Cercai di capire se un liutaio potesse essere capace di riconoscere non soltanto i legni adatti per un violino, ma anche le persone adatte a suonarlo.
Tuttavia, il mio animo era irrequieto. Iniziai quindi a punzecchiarlo. Cercai di elicitare i suoi punti deboli.
Preferivo fare la stronza e forse lo ero davvero. Iniziammo a scambiarci messaggi sempre più intimi e personali. Inizialmente, il buon Tom era timido ma sembrava anche pronto a ricevere le mie provocazioni in modo adeguato. Io, d’altra parte, ero sempre stata una grande stronza tentatrice. Avevo voglia di giocare, di rivalermi su chi mi potesse garantire un certo controllo. Lui era lo strumento (il liutaio), io la suonatrice.
Fu così che le nostre sinfonie virtuali proseguirono, sfida dopo sfida. Mi convinse a incontrarlo una sera, per cui acconsentii soltanto alla condizione di poter giocare in casa: Proposi quindi di incontrarci in una vecchia piola a cui ero molto affezionata, frequentata e gestita da amici di amici.
I fatti risalgono ormai a quasi quattro anni fa. Mi recai all’appuntamento in preda a una specie di strana elettricità. In uno dei nostri eccessi, escogitammo uno stratagemma perverso: Nel riproporre l’analogia della musica, eccitante sia per me che per lui, mi venne in mente una piccola idea, forse un po’ banale e dozzinale ma certamente arrapante. Un gioco basato sul controllo e allo stesso tempo sulla perdita del controllo. Decisi che avrei permesso a lui di suonarmi “a distanza”, sfruttando un sex toy vibrante e telecomandato.
Lui sarebbe quindi diventato il suonatore e io lo strumento.
Dal possedere all’essere posseduti. Dal controllo alla perdita di controllo.
Beh, il primo Tom, quella sera, tardava ad arrivare. Io, nel frattempo, avevo già iniziato a bere. La mia vescica era piena e il mio ovetto ancora silente. Avrei tanto voluto che la serata decollasse ma quello stronzo ancora non si faceva vivo! Dove cazzo era finito? Iniziavo a sentire la rabbia montarmi dentro. Mi sentivo delusa e amareggiata. L’unico messaggio che a un certo punto ricevetti da lui fu davvero penoso: “Perdonami. Ho fatto un casino.”
Capirai. Sapessi i casini nella mia vita. Una volta che si prova a fare qualcosa di diverso, ecco qui che lo stronzo si tira indietro.
Vatti a fidare.
Stavo per andarmene, quando a un certo punto il mio “coso” iniziò sul serio a farsi sentire.
Per un attimo, avevo dimenticato la sua presenza. Fui presa alla sprovvista, è vero; Tuttavia, quello era anche il segnale per entrare in scena.
Non erano le circostanze inizialmente sperate, ma almeno qualcosa iniziava a muoversi.
Ero eccitata quasi esclusivamente a livello mentale. Tutto, in quel momento, sembrava girare attorno a una semplice domanda: Dove si nascondeva quel bastardo?

--- 3

«Ciao, Dunque sei Alice?»
«Fottiti, idiota!» dissi io.
«Che gentile da parte tua, invitarmi al tavolo.»
«Spegnilo! L’hai messo troppo forte…»
«Ah, scusa. Pensavo volessi essere “suonata”.»
«Se non la smetti giuro che mi metto a urlare e ti faccio fare pure una figura di merda.»
«Va bene… con calma, spegnerò il tuo aggeggino.»
Lo vidi armeggiare con la tasca destra dei suoi jeans elasticizzati. Era un bell’uomo, Tom. Me lo immaginavo molto diverso. Qualcosa nel suo viso mi convinceva poco. Sembrava davvero molto diverso dai modi e dalle fattezze con cui ci eravamo confrontati in chat.
«Come ti chiami?»
«Tom.»
«No, sul serio, come ti chiami?»
«Francamente, non pensavo che avremmo usato i nostri veri nomi, o sbaglio?» disse lui.
Era vero, cazzo. Non erano questi i patti. Mi chiesi dunque come potessi fare per farlo uscire allo scoperto, data l’imprevedibilità degli eventi. Provai dunque a bluffare.
«Beh, volevo fare un test per vedere se sei coerente con le cazzate che spari.» risposi io, già intenzionata a confrontarlo sulla faccenda della musica e su tutto il resto.
«È vero. Non mi chiamo Tom.»
«Questo lo so.»
«Però credo di sapere chi sia il tuo Tom.»
Ok, questo era inaspettato. Chi avevo di fronte? Colui che finge di essere Tom non dovrebbe “fingere” di conoscere Tom. Rimasi in silenzio e in attesa.
«So che il tuo “Tom”, un paio di ore fa, era ubriaco marcio al mio locale e ti ha venduta, sputtanata al primo che passava. Cioè Me.
Mi ha parlato di te, del tuo perverso giochetto e del vostro chattare. Adesso, il suo telecomando è in mano mia. Vatti a fidare dei bravi “Tom”!»
Avevo il cuore in gola. Non potevo credere a quello che avevo appena sentito. Eppure, c’era una strana forza che mi teneva legata a quel tavolo e che mi impediva di scappare.
«Mi prendi per il culo? Non è divertente…»
«Beh, almeno io sono stato onesto, no? Non come quel deficiente che ti ha intortato facendoti credere che sapeva tutto di musica. Credimi: ti ha detto solo cazzate.»
Sebbene mi stesse dicendo cose che io già sospettavo, non potevo fare finta di nulla. Ero quasi infastidita da quelle parole, ma al tempo stesso l’uomo di fronte a me emanava un fascino che difficilmente avrei ignorato. Una sorta di complicità nuova, inedita, dovuta allo strano atteggiamento schietto e cinico che possedeva, unito a una specie di passione inespressa.
«Perché cazzo sei venuto al posto suo? Perché ti ha dato il telecomando?»
«Non me lo ha dato lui. Me lo sono preso io. Lui, in questo momento, sta cioccato su un divano.»
«Ok. Credo di averne abbastanza. Adesso, addio.»
«Dimmi un po’, non ti sei un po’ rotta il cazzo?» chiese lui, improvvisamente, mentre continuava a sorseggiare con tranquillità la sua birra.
«In effetti, si!» risposi io.
«No, io intendo in generale! Non ti sei rotta il cazzo di vedere sempre la vita scorrere davanti a te, come un flusso? Hai mai pensato “cazzo, forse dovrei mandare a fanculo tutti. Dovrei fare il cazzo che mi pare, seguire gli istinti, provare le cose che mi fanno sentire vivo. Rivendicare la libertà che ho sempre negato a me stesso.”»

Quelle parole risuonarono nella mia testa come diapason. Furono per me un macigno dopo l’altro, tutti sulla mia schiena, gravosi e mastodontici. Mi risedetti.
«Quindi? Cosa cerchi di dirmi?»
«Sai, Alice? Io credo che tu sia come me. Per questo voglio conoscerti. Voglio sapere chi si cela dietro a quel tuo volto. Voglio sapere chi è la ragazza attraverso lo specchio…»
D’un tratto, mi fece vedere il suo telecomando e lo agitò in aria con fare compiaciuto. Riflettei sulla verità di quella frase. Rivendicare le libertà, dunque? Vediamo un po’…
«Azionalo, se hai il coraggio.» risposi io, con tono di sfida.
«Sul serio?»
«Oh, sì. Ti invito a farlo. Se riuscirai a farmi sussultare avremo qualcosa di cui parlare.» dissi io, con profonda sicurezza nelle mie carte, poiché quella era diventata una vera e propria partita a poker. Se lui provava a sfidare me, allora io avrei potuto sfidare lui.
«Direi fin troppo facile. Dove sta il trucco?» chiese lui.
«Cos’è… ti sembra un giochetto facile, “Tom”?» replicai io cantilenando.
Eravamo entrambi piuttosto eccitati per quel continuo gioco di scambi ed equivoci e non avremmo accennato a diminuire di intensità per nulla al mondo.

--- 5

Fu quasi comico vedere il suo volto sconcertato dopo aver realizzato quanto stesse accadendo. Benvenuto nella mia recita, nella mia finzione. Tutto, del resto, era finto in quella stramba uscita al buio.
Si trattava di un piano semplice: far credere a qualcun altro di stare perdendo il controllo, al fine di poter ottenere il controllo. No. Non avrebbe mai potuto farmi provare alcun sussulto, con l’ovetto fuori uso. Se avesse banalmente provato a “suonarmi” sarebbe finita come quando si prova a suonare la tromba per la prima volta: un disastro stonato e inutile. Io avrei quindi fatto una faccia schifata e sarei andata via.
Tutto come da programma.
Invece, lui aveva deciso di ignorare la mia sfida del telecomando e fare la cosa più inaspettata di tutte: baciarmi.
Quel bacio aveva cambiato ogni regola. Le regole, infatti, parlavano chiaro: “Se godi, verrai con me.”
E io, da stronza maledetta quale sono, quel bacio me lo ero goduto. Avevo goduto da impazzire, cazzo! Dunque, avrei dovuto ammettere una plateale sconfitta.
Il mio orgoglio si rifiutava di ammettere una cosa del genere. Piuttosto, avrei tollerato molto di più una parità. Io ero arrapata ma si vedeva che lo fosse anche lui. Lui aveva provato a fottermi e anche io avevo provato a fotterlo. Entrambi ci eravamo sfidati su un terreno inedito ed entrambi ne eravamo usciti indenni solo in parte. «Che ne dici, andiamo a fare due passi?» chiesi io. Lui annuì con soddisfazione. Quindi ci alzammo, pagammo i drink e uscimmo dal locale. Fu così che ci presentammo davvero. “Piacere Miriam, piacere Renzo.”

--- 7

Ecco qui, un ultimo piccolo stacco narrativo. Sembrava assurdo, date le premesse, che la serata potesse finire in quel modo. Ci ritrovammo abbracciati, sotto le coperte. Era stato un sesso svelto, animoso, istintivo. Non abbiamo avuto tempo per sperimentare posizioni o sensazioni. Ci siamo offerti l’un l’altro con semplice ma completa ruvidità. Era da tanto che non scopavo così. Sentivo ancora i segni dei suoi graffi sulla mia schiena, obliqui, a partire dal centro per poi migrare verso i fianchi. Li sentivo pulsare in sincro coi battiti del cuore; era una sensazione rappacificante.
Venne prima lui, lo ricordo bene, ma concesse anche a me di arrivare all’orgasmo subito dopo, con un delicato gesto di mani, senza esagerare e allo stesso tempo senza esitare un solo istante. Ero dunque diventata davvero uno strumento musicale e quello era il nostro spartito. Di questo, ne fui molto grata.
Pochi minuti dopo eravamo ancora lì, io stavo spipettando una sigaretta elettronica, lui invece stava rollando la terza canna della serata. Nella mia testa, rimbombava una frase, fortissima. Una piccola frase che tuttavia portava con sé mille implicazioni. Subito dopo l’orgasmo, infatti, Renzo esclamò “Dio, che bello. Vorrei poterti reincontrare ancora e ancora per la prima volta, come questa sera…”
Io rimuginai per quasi dieci minuti, mentre la mia gola grattava a causa del fumo. Al che, feci una domanda.
«Renzo…»
«Si?»
«Cosa intendevi poco fa?
«Riguardo a?»
«Il discorso di reincontrarmi ancora una volta.»
«Ripensavo a quanto sia incredibile questo nostro incontro. Ho immaginato di voler rivivere tutto questo ancora una volta, insieme a te, come se fosse la prima volta.»
«Come puoi rivivere un momento che è finito? Adesso noi siamo qui, ci conosciamo. Abbiamo scopato. Non esiste modo per ripetere tutto questo, a meno che non perdiamo entrambi la memoria…»
Lo vidi riflettere con il pollice a strofinare il mento.
«C’è una poesia che mi ha sempre affascinato. L’ha scritta un povero ubriaco in un sotto-bicchiere, nel corso di una di quelle poche sere in cui il locale era pieno di gente. Si chiamava Jan. Me lo ricordo sempre perché io continuavo a chiamarlo “Gianni” ma lui mi correggeva sempre, ci teneva anzi a dire che si pronuncia “Ian”. Chissà se è ancora vivo quel bastardo!»
«Che poesia?» chiesi io, cercando di non perdermi nei suoi vaneggiamenti (avevo infatti notato una certa tendenza a deragliare con i discorsi da parte sua.)
«Una roba tutta astrusa, sull’universo, il vuoto e la voglia di “equilibrare il caos”… insomma: Decisi di rubargliela, perché mi piaceva molto. A questo punto penso: Se è vero che questo nostro incontro è frutto di un caos, allora potremmo provare a riequilibrare noi questo caos. Non credi?»

Ascoltai le sue parole, mi sembravano parecchio assurde. Eppure, capii che si trattava di una di quelle idee tanto malsane e scellerate da risultare follemente attraenti.
«Tu sei semplicemente fatto. O forse, sei proprio pazzo. Qualsiasi cosa tu abbia in mente, io ci sono.» dissi, mentre gli rubavo la canna dalle dita.
scritto il
2024-10-18
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