Portraits - Gocce Sulla Moquette | 3/4

di
genere
tradimenti

È ormai estate, gli uffici sono semi-vuoti. Molti colleghi e datori di lavoro sono in ferie e gli orari di accesso al pubblico sono limitati. Fanno 40° all’ombra e i condizionatori dentro i locali sparano aria fredda come se fossimo in una cella frigorifera.
Indosso solo camicie chiare e jeans. Tu sfoggi vestitini leggeri che ti lasciano scoperti collo e clavicole.
Quando porti i capelli all’insù con l’elastico mi ecciti da morire; adoro quella vista come se fossi un vampiro alla ricerca di una fonte da cui abbeverarsi.
Oggi ci incontriamo insieme ad altri colleghi fuori a cena per salutare una collega delle risorse umane che partirà per il Canada a raggiungere suo marito, che ha trovato lavoro lì. Partirà insieme ai figli, già mezzi francofoni da parte di padre. Un bel salto nel buio, ma forse meglio per lei.
Questo, quantomeno, è il pensiero che balena nella tua testa, spinto da questo rapporto di insolente insofferenza nei confronti del luogo di lavoro.
«Partiresti per il Canada?» chiedo io, mentre sorseggio la mia birra lager media, in mezzo alla calca da osteria in cui ci ritroviamo.
«Non so. Fa troppo freddo.»
«E dove andresti a vivere, allora?»
«A Napoli, forse.»
Ti guardo con perplessità. Una risposta che da te non mi aspettavo.
«Lo sai che mia moglie è napoletana, vero?» chiedo io.
«Ma dai!» rispondi tu, nel frattempo bevi il tuo vino, con nonchalance. Ho il dubbio tremendo che tu stia fingendo di non sapere, ma sono troppo pavido per indagare oltre, per cui rimarrò col dubbio.
«Perché proprio lì?» insisto, maledicendomi per la mancata coerenza tra verbo e pensiero.
«Forse perché tutti quelli che disprezzo si trovano da tutt’altra parte. Forse, per riallinearmi col mondo, forse per il clima e per la vitalità. A te non piace Napoli?»
«Molto. Tuttavia, è una città che purtroppo vedo con gli occhi di qualcun’altra e dunque non riesco a farla mia.» ammetto, forse con più sincerità di quanto intendessi.
«E dove ti piacerebbe vivere, invece?»
«Berlino. Oppure, Copenhagen.»
«Sei proprio un eurocrate del cazzo.» rispondi tu, beffarda.
«Lì, però, le birre sono più buone.» cerco di difendermi, indicando il mio boccale.
«Anche lì è pieno di napoletani, ti avviso.» commenti tu.
Colpito e affondato.

Questo strano rapporto, costruito sul non detto, enfatizzato da alcune mie fantasie, ha portato un certo tipo di scossoni nella mia routine: Ho ripreso a scopare. Mia moglie ogni tanto mi chiede cosa mi prenda, come mai sia ritornata la voglia di intimità. Io lascio intendere che non ho una risposta chiara.
Sicuramente starai pensando che io mi scopi mia moglie pensando a te, che continui a immaginarmi te al posto suo. Invece, devo dirti che su questo sono diventato abbastanza virtuoso, se possiamo accettare una dote del genere come virtù.
Ho scoperto infatti che, dopo il sesso, riesco ad affrontare meglio alcuni discorsi spinosi. Lei ogni tanto mi domanda cosa mi frulla in testa, per cui le rispondo che sono sfibrato dalla vita, che spesso mi verrebbe voglia di lasciare il lavoro, cose così. Parliamo anche del nostro rapporto, del futuro incerto, dei figli, della pensione (utopia). Della voglia di cambiare aria. Degli amici scomodi.
Io e mia moglie siamo simili, in questo: materialisti e iper-razionali. La nostra terapeuta ce lo ha sempre rinfacciato (o come direbbe lei “ce lo ha sempre restituito”): Siamo due campane che quando si toccano risuonano ma a frequenze diverse.
Dopo circa un anno, ci abbiamo rinunciato. Abbiamo preferito sublimare i soldi delle sedute in cene al ristorante. Per qualche mese, ci è andata bene. Dopo, è ripreso il mutismo.
Tuttavia, non riesco a confessare il resto. Non riesco a confessare di essere attratto da un’altra.
C’è un altro dettaglio che forse rende questa mia vigliaccheria ancora più grande. Da quando la mia attività sessuale è gradualmente ripresa, ho questo insensato desiderio di confessartelo soltanto per conoscere la tua reazione.

«Domani mi vedo con qualcuno.» mi dici, in una delle solite pause.
«Wella!!!» dico io, con pollice e mignolo alzati in segno di SWAG (fuori moda da trentacinque anni ma ironizziamo anche su questo).
«Vedremo! Non ho molte aspettative.» rispondi tu, mostrandoti vaga.
Mi costringo a interpretarla come una buona notizia. Stai trovando dei passatempi e io posso così disaffezionarmi e ritornare a un regime di normalità. Potrei ricucire alcuni strappi della mia relazione. Potrebbe essere una soluzione. Oppure, semplicemente dovrei essere contento per te.
«Magari, se non è del tutto da buttare, me lo scopo e sticazzi.» prosegui tu.
Bene! Molto bene! Eppure, perché sono pervaso da questa sensazione di irrequietezza? Perché le emozioni e il pensiero non coincidono quasi mai?
«Eh! Sarebbe una gran cosa.» accenno io, come il più bieco dei mentitori manipolatori.
«Te sei riuscito poi?» chiedi tu, con una calma così surreale da annichilirmi. «O sei ancora in freddo con la tua lei?» non pronunci mai il suo nome. Non so se per mantenere le distanze o per il timore che nominarla rompa l’atmosfera delle nostre pause-sigaretta.
«Ti dirò. Ogni tanto riesco…» rispondo io, con una espressione da chi raggiunge la sufficienza con il compito in classe.
«Bene, sono contenta.» commenti tu, con lo stesso tono di voce dolce-amaro che avevo io pochi istanti fa. Ci raccontiamo minchiate e siamo consapevoli di farlo.

L’indomani, sega funesta.
Lo ammetto. Non è stata quella di cui vado più orgoglioso. L’ho fatta sotto una doccia durata oltre venti minuti. Ho perseverato pure nel momento in cui mia moglie entrava in bagno per pisciare, tanto non poteva vedermi attraverso le vetrate opache.
«Serve aiuto?» chiede lei.
«No, tranquilla. Ho quasi finito.» E invece giù duro, con l’unico pensiero in testa: te che esci a bere con il tipo conosciuto su tinder o chissà-dove, per poi magari allungarvi da lui o da te a scopare come maiali.
Ti vedo mentre sei avviluppata al tipo, che ora per me ha le sembianze di Matthew McConaughey in True Detective. Spigoloso come te, alto, sbarbato, magro, ossuto e melanconico. Te lo fotti senza risparmiare un solo centimetro del tuo corpo. Lui ti appaga e ti svuota, da bravo attore di teatro. Ti sento mentre raccogli tutte le frustrazioni e le cacci via con un urlo rivolto al soffitto della stanza, smadonnando. Riesco a vederti mentre ti proietti sul suo cazzo fortunato, dilaniandolo con voracità.
Le seghe in piedi durano di più, per cui per me questa è diventata una lenta agonia autoimposta. Eppure, ce la faccio. Vengo con una certa intensità. Il cuore batte a mille. Sento di essermi sfogato ma di aver anche esagerato.
La notte dormo pacifico, meno male. Spero che tu stia riposando altrettanto bene.

«Quindi, come è andata ieri?» la prima cosa che mi viene da chiederti.
«Beh, da dimenticare.» osservi tu.
«Come mai? Mi dispiace.» sono la persona più felice del mondo.
«All’inizio era carino, mi ha portato in un locale che non conoscevo. Era un po’ intellettualoide. Voleva fare discorsi impegnati, da letterario.»
«Un laureato in lettere?»
«Peggio. Filosofia.»
«Ahia.» Io adoravo studiare filosofia al liceo, ma sarei disposto a dare l’anima al diavolo anziché confessarti il mio amore segreto per Nietzsche.
«Ha cominciato a rompermi il cazzo dopo dieci minuti. Ho bevuto un paio di drink, poi sono andata. Il posto, invece, era molto carino! Si chiama “Le Basquiat Contraire.”»
«Mai stato.»
«Dovremmo andarci, qualche volta! Si bevono dei gran cocktails.» osservi tu.
La tua proposta innocente (indecente?) cade dal cielo come un grosso asteroide figlio di puttana.
«Non esco fuori a bere da anni. Li fanno ancora gli americani?»
«Dai, idiota! Non fare il coglione vecchio decrepito.» commenti tu, lapidaria, dandomi un pugnetto sulla spalla. Ti avverto vicina col corpo. Ormai siamo a stretto contatto, fianco a fianco, nonostante la balconata sia larga almeno dieci metri. La mia trepidazione si concretizza. Sento che questa conversazione si sta rivestendo di vibes nuove. Qualcosa sta accadendo.
«Ah beh, io ero così anche vent’anni fa.»
«Si certo. Le birre belga, l’oktoberfest, La ragazza danese con le treccine conosciuta durante l’inter-rail. Vuoi prendermi per il culo? Mi hai raccontate cose di vent’anni fa che ancora mi tolgono il sonno. Tu non eri certo così. Tu non sei così! Inoltre, ti vorrei ricordare che quando mi sono lasciata, tu avevi quei cazzo di invitati a cena, altrimenti saresti venuto con me a bere!»
Nel pronunciare queste parole, mi batti ancora una volta la mano sul petto. Stavolta, centri in pieno il pettorale. Avverto un fremito in tutta la schiena. Siamo consapevoli entrambi che quella percossa è spinta da qualcosa di diverso dai soliti sfottò. Un sussulto emotivo ci destabilizza entrambi. Sai benissimo che questa volta non ti direi mai di no.
«Ok! Se oggi non ricevo visite inaspettate di amici con diapositive delle vacanze, vengo con te senza problemi.»
”Quindi vorresti già scoparmi?”

«Come scusa?» chiedo io, che sono sicuro di aver capito male ma non posso far altro che avere nuovamente un sussulto.
«Ho detto: Quindi vorresti già stasera?» chiedi tu. Sei terribilmente vicina. Se decidessi di cingerti per i fianchi, solo il fulmine di qualche Dio greco potrebbe impedirmi di baciarti.
«Vorrei…. cosa?»
«Aò, ma sei coglione!? Andare a bere stasera!» mi redarguisci. Io mostro evidenti segni di cedimento.
«Ah… si. Era quello che intendevo!»
«Ok.» rispondi tu. Dopo un po’ mi guardi e fai una espressione che non colgo, quasi ambivalente.
«Che c’è?» chiedo io.
«Sicuro che non preferisci un altro giorno? Non so, magari tua moglie si offende…»

Allarme. Falla nel settore 2B. Chiudere boccaporti 1, 3 e 5.
«In che senso… perché dovrebbe offendersi?» chiedo io, cercando di negare spudoratamente l’evidenza.
«No ecco… pensavo. Magari stasera avevi già qualche impegno. Potrei anche capire, con così poco preavviso.» la tua voce diventa improvvisamente ermetica.
«Mah, non che io ricordi.»
«E cosa faresti? Le diresti semplicemente che esci a bere con una collega?»
«Beh, dato che non facciamo nulla di male, penso di non dover nascondere proprio niente.»
Dopo questa mia risposta, mi guardi con una espressione del viso mutevole e carica di perplessità.
«Beh, dai. Ci pensi un po’ e poi mi fai sapere, ok?»

Rimango freddo di fronte a quella strana mossa del cavallo. Sono stordito, perché la rapidità con cui l’entusiasmo ha lasciato il posto all’imbarazzo è stata fin troppo evidente.
Forse è giunto il tempo di fare i conti. Oppure, forse è meglio lasciar perdere e basta.

A fine turno, ci dirigiamo entrambi verso l’uscita. Io ti cerco con lo sguardo per provare a captare qualche feedback. Tu invece, rimani con lo sguardo fisso davanti a te. Solo al di fuori dell’edificio, mi rivolgi la parola.
Comprendo che non sei più la mia collega. Sei qualcos’altro. Sei qualcosa d’oltre. Sei avvolta da una luce nuova. La tua voce me ne dà conferma. In questo momento io mi ritrovo nudo, davanti a te, ad ascoltarti con autentica sincerità. So perfettamente che anche per te questo scambio di battute ha la stessa valenza.
«Ascolta, forse è meglio un’altra volta.» mi spiazzi così, con brutalità. Sento strapparsi il cielo e il terreno tremare sotto i piedi. Rimango fatuo ed esito una decina di secondi prima di rispondere.
«Ho capito. Forse hai ragione. Meglio un’altra volta.» rispondo io. È una risposta che sa di rumore di vetri infranti, di cristallerie e bombe nucleari.
«Si, certo. A domani.»

Stasera niente sega. Sono troppo incazzato e deluso. Mi sento perfino in colpa per aver anche solo immaginato di fare una cosa del genere. Ho calcato troppo la mano e questo è il risultato. Probabilmente adesso seguirà un periodo di imbarazzo e tutto andrà a rotoli.
Mia moglie mi dorme accanto e io ho gli occhi sbarrati a guardare il nero soffitto.
Quando la sveglia suona è quasi una tortura. Ormai sono giorni che dormo di merda e la voglia di vestirmi per andare al lavoro è al minimo storico. Forse dovrei licenziarmi.

Le settimane procedono. Entro in ufficio più tardi del solito, i pochi rimasti sono già tutti immersi nelle loro attività, nessuno beve caffè o conversa nei corridoi. Mi tocca darmi da fare ed evitare i rapporti sociali per tutta la mattinata. Tu sei lì, nel tuo cubicolo.
Ti guardo intenta alla revisione di un documento. Hai i capelli sciolti e un vestito rosso e nero, uno di quelli che indossi più di frequente.
Inizio anche io a lavorare. Riesco a concentrarmi per circa tre ore. Dopodiché, ricevo il tuo messaggio. Proponi la pausa.
Rispondo che ho del lavoro da fare e che magari ti avrei raggiunta quando finisco.
Tutte cazzate. Voglio solo fare il prezioso senza palle, stronzo e farabutto.
Mi rispondi con un freddo “ok”.
Ti immagino pronta a sostituirmi con qualche nuovo collega aspirante fumatore. Sono quasi sicuro che questo sarà l’ultimo scambio di messaggi che ci inviamo, poi seguirà il nulla cosmico. L’indifferenza disumana.
Finisco il lavoro che mi ero impuntato di fare e mi dirigo verso la fotocopiatrice per raccogliere le stampe. Ti trovo intenta a rovistare negli sportelli della Kyocera.
«E’ finito il toner?»
«Così sembrerebbe.»

Non riesco a sopportare la pressione di starti vicino. Eppure, non riesco nemmeno a smettere di averti accanto. La macchina sta ancora lavorando a delle copie e ci ritroviamo dunque ad attendere che finisca di stampare. Stiamo in silenzio, poggiati entrambi con la mano sulla kyocera.
Una tensione morde il collo di entrambi e ci trattiene dal fare conversazione. Siamo cristallizzati.
Tra una pagina e l’altra sembra che sia passato un anno di tempo.
Gli sguardi si incontrano a metà strada e subito si allontanano. Poi, si reincontrano.
Alcuni colpi di tosse, alcuni schiarimenti di gola.
Il rumore della carta stampata.
Io, nel frattempo, ti guardo col tuo abito rosso e nero, coi capelli mossi e biondi a cadere sulle spalle. L’impulso di imprecare è soffocato alla base del collo.
Tu rimani a fissare una scritta in coreano sullo sportellino in plastica. Sai che ti sto guardando. Mi rivolgi anche tu un’occhiata. Questa volta sembra che tu non abbia alcuna intenzione di distoglere la vista. Rimani a fissarmi, mostrando la mandibola in tutto il suo splendore. Sembra quasi uno sguardo di sfida.
Vengo sospinto da una forza pulsionale senza precedenti. Il rumore della carta stampata che esce ancora calda dalla kyocera mi fa buttare definitivamente dal precipizio.
«Sai…» farfuglio io.
«Dimmi.»
«Sai che…» sento una potentissima eccitazione. Capisco di non riuscire più a trattenermi.
«Cosa?» chiedi tu, senza scomporti.
«Sai che al terzo piano sono arrivate le scrivanie?» dico io, con la voce più criptica che possa avere.

La mia frase ti spiazza. Sono anche io travolto dal roller-coaster emotivo di questo scambio di battute.
«Ah, non sapevo. Sono belle?» chiedi tu.
«Non le ho ancora viste.» dico io, bramoso di attendere una risposta.
Tu non rispondi, anzi, inizi a raccogliere le carte appena stampate e ti allontani.
«Ci vediamo, allora.» mi dici allontanandoti dalla stanza.
Ti guardo mentre percorri il corridoio. Il dondolare delle tue natiche sembra andare al ralenti.
Guardo l’orologio e ripenso ai lavori lasciati in sospeso. Ingoio il boccone amaro della sofferenza emotiva e cerco di concentrarmi per il tempo che mi rimane.
Più proseguo con i grafici al PC, più il cavallo dei miei pantaloni si restringe.
Il membro pulsa e io sono deconcentrato. Ripenso a quel dondolare enigmatico. Giungo alla conclusione di essere soltanto un pervertito di merda e questa cosa mi fa credere che forse dovrei tornare in terapia. Forse sono sbagliato. Forse sono esausto e vorrei scappare. Forse devo licenziarmi sul serio, cambiare vita, tornare a vivere da solo. Forse dovrei fare un lungo viaggio con la buonuscita.
Mi alzo e faccio i solchi sulla moquette della stanza.
Sento il bisogno di uscire, sento il bisogno di cambiare aria.
Esco, imbocco il solito corridoio e giungo alle scale. Non c’è praticamente più nessuno in giro. Faccio per andar giù e poi ci ripenso: vado su.
scritto il
2025-01-30
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