Portraits - Gocce Sulla Moquette | 2/4
di
Jan Zarik
genere
tradimenti
Ho il cuore pesante. Non è chiaro se prevalga la sensazione di imbarazzo o di vergogna.
Probabilmente, si tratta soltanto di disagio. Un disagio che urla una verità incontrovertibile, la verità più glaciale di tutte, la sincera e impietosa attrazione sublimata nell’atto compiuto di una sega.
Deduco che sia frequentissimo masturbarsi immaginando qualcun altro.
Alcuni fantasticano su donne celebri o uomini affascinanti. Altri, si avventurano nell’impossibile, nell’incestuoso, nel deplorevole o nell’orrido.
Io, forse, non sono peggio di molti altri.
Eppure, perché mi sento così di merda?
Forse perché l’oggetto di questo insolito piacere si trova nel mio ufficio ancora adesso, in preda alle proprie angosce e ai traumi?
Forse perché la mia libido diabolica ha creato una chimera metà moglie e metà collega?
Forse perché io non so più cosa voglio, dilaniato in due parti che contrastano in modo vigoroso?
Tutto è dominato da una tensione che non riesco più a contenere. Ogni singolo movimento che fai assume per me un nuovo significato.
Il modo con cui hai riordinato la chioma e l’hai fatta cascare sulle spalle, il modo con cui fissi svogliatamente lo schermo del PC. La maniera con cui le tue dita titillano il mouse e lo muovono da destra a sinistra.
Il rumore che fanno le tue labbra quando succhi il caffè dalla mug.
I tuoi occhi stanchi, segno che hai dormito poco e pianto tanto.
Il tuo collo in parte coperto da un elegante foulard di seta.
La curva della tua mandibola, talmente affilata che potrei quasi tagliarmi i polsi se la carezzassi.
La sinuosità dei tuoi fianchi tracciata dalla gonna tailleur.
Il tuo cinismo dirompente ogni qual volta se ne presenta l’occasione, adesso ancora più spietato, dato che il tuo giudizio sugli esseri umani si è fatto più severo. L’odore di tabacco che sprigioni ogni qual volta mi rivolgi la parola, mentre siamo sul retro del palazzo, nonostante io abbia smesso di fumare da un pezzo.
“Quindi, ti sei segato il cazzo, ieri sera?”
«Cosa?» chiedo io, sicuro di aver capito male.
«Ho detto, quindi ti sei rotto il cazzo, ieri sera?» ripeti tu.
«Ah, parecchio, devo dire.»
«Avevo intuito. Io non riuscirei più a fare certe serate a quattro. Alla fine, sono uscita con le colleghe della contabilità.»
«Molto bene. Ti sei divertita?»
«Mi sono distratta.»
«Eh, serve distrarsi in questo periodo.»
«Servirebbe chiudere i bilanci, in realtà. Ieri sono tornata alle tre e mi sento ancora ciucca. Devo darmi una regolata.»
«Beh, in qualche modo hai chiuso un bilancio, no?» provo a dissimulare io.
«Beh, non direi. È ancora tutto nel caos. Stamattina “quello lì” sarebbe tornato a casa in mia assenza per recuperare alcuni oggetti.»
«Meglio. Avrai meno cose intorno che te lo ricordano.» dico io.
«Mmh.» sospiri tu, mordendoti le labbra. Sono sicuro che la mia bocca si è appena schiusa. Non avevo mai realizzato quanto fossero carnose.
Più le settimane passano, più mi rendo conto che ci cerchiamo a vicenda molto più spesso del solito. Io, sicuramente, perdo molto tempo a individuarti tra i corridoi. Mi rendo conto che è diventata una specie di abitudine. La pausa caffè e sigaretta si svolge quasi sempre in comune. Ci andiamo conoscendo più nel modo di porci che nel modo di confidarci.
Non so per quale motivo tu pensi che io sia un buon ascoltatore, che comprenda i tuoi bisogni e accolga le tue istanze più di quanto non facciano gli altri. Sono diventato il tuo consulente emotivo. Conosco a menadito tutti i moti ondosi della tua burrasca amorosa, tutti i movimenti tellurici del tuo terremoto relazionale, tutte le frane della tua faglia sentimentale. Questo tipo di indagine quasi geologica, speleologica, non può passare indolore. Mi sento costretto a cedere un pezzo di me, come quando si lasciano i nodi alle corde nei punti più profondi della grotta che hai appena esplorato: I nodi servono a me per ricordare dove ho messo ai piedi e servono a te per entrare in risonanza ancora di più. Per cui, inizio ad accennarti anche io dei miei problemi di coppia.
Lo faccio con molta più parsimonia rispetto a quanto fai tu. Tu sei cauta nel domandare. Se io divento speleologo di una grotta gigantesca che si offre all’esplorazione, tu sei piuttosto una ornitologa. Studi i movimenti da lontano, col binocolo, senza invadere troppo il campo.
C’è un fatto, tuttavia: mi chiedo continuamente quando sospetterai, se non l’hai già fatto, dell’eccitazione che mi procuri ogni qual volta apri la bocca.
Mi chiedo se tu ti renda conto di come io vada in tilt col cervello a ogni boccata di fumo che inali.
Mi son chiesto se la mia presenza sia per te una fonte di tranquillità o se anche tu sei spinta da qualche strana attrazione.
Mi rendo conto che la nostra fisicità sia cambiata.
Prima non ci scambiavamo neanche le strette di mano. Adesso, ci baciamo su entrambe le guance.
Una volta, mi hai stampato le tue labbra sullo zigomo. Non si tratta del centro della guancia, ma proprio dello spigolo zigomatico, quasi più vicino al naso che all’orecchio.
Appena più in basso avresti incontrato la rima della bocca.
Ricordo un giorno in cui ti sfiorai la schiena con il dorso della mano. Non è stato un agire malizioso, intenzionale. Forse è stato un errore di valutazione. Pensavo di incontrare il tessuto del tuo vestito anziché la nuda pelle della schiena. Era soave, setosa, maledettamente arrapante. Un tocco leggerissimo, retratto quasi all’istante. Eppure, proprio perché non era mia intenzione, ti ho formalmente chiesto scusa. In altre circostanze non te ne saresti neanche accorta, invece, in quel momento ce ne accorgemmo entrambi. Tu ti sei girata e mi hai attraversato con lo sguardo profondo quanto un abisso. Non ricordo le esatte parole che usasti, credo fossero cordiali e concise. Ciononostante, si sentiva nell’aria che quel tipo di contatto sarebbe stato il primo di tanti altri. Era un pensiero quasi pre-coscienzioso, eppure inesorabile.
Durante una delle nostre solite riunioni col resto del team, alcuni dirigenti hanno voluto mostrarci gli uffici del terzo piano, attualmente in corso di ristrutturazione. I nuovi spazi serviranno ad ampliare il nostro organico e sarà quindi possibile lavorare in stanze più grandi, usufruire di una cartoleria dedicata e di zone relax appropriate. Saranno pronte per settembre.
Due stanze, in particolare, sembrano attirare la nostra attenzione. Si tratta di due locali adiacenti, rivestiti da moquette grigia, separati da una lastra di vetro spessa trasparente. Una grande finestra domina su entrambe, rendendole più luminose e dando la sensazione che siano ancora più spaziose.
Era proprio la stessa tipologia di ufficio che nella nostra fantasia avevamo immaginato di ottenere qualora fossimo diventati cinici stronzi arrivisti e sessisti.
«Qui ci potresti stare tu, mentre lì potrei andare io!» ripeti tu, indicando delle ipotetiche disposizioni delle scrivanie.
«Ma così ci daremmo le spalle!» faccio notare io.
«Hai ragione. Dobbiamo guardarci in faccia cosicché possiamo anche evitare di fare riunioni. Ci chiamiamo al telefono e ci guardiamo attraverso il vetro.» ribadisci tu.
«Ci ho ripensato. Potresti distrarmi.» ti provoco.
«Ah, sì? Come potrei mai distrarti?» chiedi tu con finta innocenza, mentre fai il verso di spostare i capelli con la mano. Ultimamente stai usando uno strano vezzo, quasi ammaliante: ti passi il dito indice all’angolo della bocca, lasciata aperta, storcendo lievemente il labbro inferiore, come se ti asciugassi una goccia di liquido.
Questa cosa sembra accompagnarsi a ogni battuta allusiva che fai. È il nuovo messaggio in codice per sottolineare la scomodità dell’argomento?
È un atto totalmente implicito, deliberatamente nascosto. Eppure, dato che sono ormai mesi che ti osservo sotto una luce diversa, non riesco a lasciarmi sfuggire neppure un atomo di quei gesti.
In questo momento, vorrei che ti distendessi proprio qui, sulla moquette, vorrei che alzassi la gonna e mi lasciassi annusare il tuo interno coscia. A quel punto, potrei scostare di lato il cotone dei tuoi slip in modo da svelare le tue grandi labbra e baciarle con intensità. Non smetterei di assaporarti fino a che il raggio della chiazza di umori di cui la moquette viene intrisa non arrivi a circondarci interamente.
«Immagina le possibilità...» dici tu ad alta voce, quasi come se interpretassi i miei pensieri in modo sconcertante.
Ti guardo e rido. Rido per non lasciarmi sfuggire altre porcate che potrebbero mettermi in difficoltà.
Tu riconosci nella mia risata un elemento di nervoso e mi dai una pacca sulla spalla.
«Non quello che pensi tu, cretino! Per quello, aspetta che arrivino almeno le scrivanie…» commenti tu, sagacemente e quasi – mi viene da dire, con complice colpevolezza.
Per cui, di fronte a me adesso ci sono due strade: smetterla con le puttanate e chiuderla qui. Abortire qualsiasi intenzione malevola. Imporre e imporsi una distanza etica e materiale.
Oppure, proseguire fino a svelare la profondità della tana del bianconiglio.
«Dio, sono mesi che non scopo.» dichiari tu, alcune settimane dopo la visita al terzo piano, in risposta alla mia considerazione innocua “Sono mesi che non vedo una partita di basket.”
Stavolta ho sentito fin troppo bene.
«Non era la risposta che mi aspettavo.» commento io, con sincerità e un certo divertimento.
Tu sorridi e ti giustifichi. «Ah-ha! Si. Scusami, ogni tanto esco al naturale, con te. Eppure, tu hai detto basket, io ho pensato al palleggiare e… niente. Va così!»
Ancora quel cinismo ammiccante, ancora quella confidenzialità che ho paura di male-interpretare.
«Esistono le app di incontri, hai mai provato?» accenno io.
«Eh! Infatti! Porca miseria, ci ho provato ed è stato tremendo.»
«Troppi cazzi in chat?» replico io, cercando di fare il simpatico. In realtà sembro un coglione galattico. Me ne rendo conto da solo e quasi vorrei scomparire. Tu invece, sembri imperturbabile, come se l’intero discorso sia già pre-configurato nella tua testa.
«Ma magari, cristo santo! Magari! Non mi caga nessuno.»
«Ma come è possibile?»
Me lo chiedo davvero, come è possibile? Ti osservo buttare fuori il fumo della sigaretta.
«Eh, non so! Sembrano tutti dei deficienti! Non reggono neanche tre minuti di dialogo. Sarà che forse risulto troppo aggressiva.»
«Siamo fondamentalmente degli incapaci.» commento io, un po’ per camuffarmi tra la folla.
«Porca miseria, quanto è vero. Siete inutili!» ribadisci tu, mentre aspiri ancora. Mi viene duro come se fossi un post-adolescente sotto effetto di sostanze. Non fumo da quasi otto anni.
«Senti, te ne posso chiedere una?»
Mi guardi con quell’occhio inquisitore e maligno, non dici una parola, stringi il filtro della tua sigaretta tra le labbra e aspiri con forza.
Apri con l’altra mano il pacchetto e me lo punti in faccia. Sfilo una sigaretta e la poggio sul labbro. Ti guardo, in attesa di ricevere l’accendino. Tu sbuffi fumo a due centimetri dal mio viso.
«Quindi hai ripreso?»
«Sarà l’influenza tua, che te posso dire?» mi arrampico sugli specchi.
Mi cedi il tuo accendino e inizio a fumare. Cazzo, che sapore di merda. Una sensazione di soffocamento mi invade. Non ero più abituato. Devo tossire.
Tu sorridi e fai la stronza. «Sbrigati che tra poco dobbiamo rientrare. Il team leader rompe le palle, ultimamente.»
Ho ripreso a fumare di nascosto da mia moglie. Fumo in balcone. Osservo la gente passare sotto per strada. Ogni boccata mi ricorda le tue labbra. Le immagino posarsi sulle mie. Vorrei insinuarmi dentro la tua bocca con due dita, solleticare la tua morbida lingua, sentire come essa faccia i ghirigori e mi bagni le punte, roteando attorno a esse. Avverto quasi la pressione del risucchio alla base del dito medio. Sono arrivato a ritualizzare pure questo: Ogni sera, prima di andare a letto, mi faccio una bella sega con dedica.
Ultimamente, neanche riesco ad arrivare al bagno. Se l’eccitazione sale, lo faccio direttamente lì sul balcone.
È una situazione scomoda. Mi sento incapace di controllarmi. Credo che tu abbia capito qualcosa, perché ultimamente le nostre pause sigaretta sono diventate una scusa per parlare di sesso e scopate.
Scopate che, a quanto pare, mancano da tempo a entrambi.
Mi piace pensare che anche tu ogni sera ti masturbi nel tuo balcone mentre aspiri fumo di tabacco.
Ti immagino lì, gambe divaricate, seduta su una sedia fredda di alluminio per esterni, dietro al tavolinetto, incurante della possibilità che qualcuno ti osservi, mentre infili tre dita in vagina e ti strofini il clitoride facendo colare su di esso una goccia di saliva.
Io, d’altra parte, me lo meno in semi-oscurità a notte fonda guardando le stelle al pensiero che tu possa davvero fare tutto questo. Mentre mi masturbo, aspiro fumo e me lo sparo sul cazzo, immaginando che sia il tuo fumo.
Questa è la mia vita, adesso.
Probabilmente, si tratta soltanto di disagio. Un disagio che urla una verità incontrovertibile, la verità più glaciale di tutte, la sincera e impietosa attrazione sublimata nell’atto compiuto di una sega.
Deduco che sia frequentissimo masturbarsi immaginando qualcun altro.
Alcuni fantasticano su donne celebri o uomini affascinanti. Altri, si avventurano nell’impossibile, nell’incestuoso, nel deplorevole o nell’orrido.
Io, forse, non sono peggio di molti altri.
Eppure, perché mi sento così di merda?
Forse perché l’oggetto di questo insolito piacere si trova nel mio ufficio ancora adesso, in preda alle proprie angosce e ai traumi?
Forse perché la mia libido diabolica ha creato una chimera metà moglie e metà collega?
Forse perché io non so più cosa voglio, dilaniato in due parti che contrastano in modo vigoroso?
Tutto è dominato da una tensione che non riesco più a contenere. Ogni singolo movimento che fai assume per me un nuovo significato.
Il modo con cui hai riordinato la chioma e l’hai fatta cascare sulle spalle, il modo con cui fissi svogliatamente lo schermo del PC. La maniera con cui le tue dita titillano il mouse e lo muovono da destra a sinistra.
Il rumore che fanno le tue labbra quando succhi il caffè dalla mug.
I tuoi occhi stanchi, segno che hai dormito poco e pianto tanto.
Il tuo collo in parte coperto da un elegante foulard di seta.
La curva della tua mandibola, talmente affilata che potrei quasi tagliarmi i polsi se la carezzassi.
La sinuosità dei tuoi fianchi tracciata dalla gonna tailleur.
Il tuo cinismo dirompente ogni qual volta se ne presenta l’occasione, adesso ancora più spietato, dato che il tuo giudizio sugli esseri umani si è fatto più severo. L’odore di tabacco che sprigioni ogni qual volta mi rivolgi la parola, mentre siamo sul retro del palazzo, nonostante io abbia smesso di fumare da un pezzo.
“Quindi, ti sei segato il cazzo, ieri sera?”
«Cosa?» chiedo io, sicuro di aver capito male.
«Ho detto, quindi ti sei rotto il cazzo, ieri sera?» ripeti tu.
«Ah, parecchio, devo dire.»
«Avevo intuito. Io non riuscirei più a fare certe serate a quattro. Alla fine, sono uscita con le colleghe della contabilità.»
«Molto bene. Ti sei divertita?»
«Mi sono distratta.»
«Eh, serve distrarsi in questo periodo.»
«Servirebbe chiudere i bilanci, in realtà. Ieri sono tornata alle tre e mi sento ancora ciucca. Devo darmi una regolata.»
«Beh, in qualche modo hai chiuso un bilancio, no?» provo a dissimulare io.
«Beh, non direi. È ancora tutto nel caos. Stamattina “quello lì” sarebbe tornato a casa in mia assenza per recuperare alcuni oggetti.»
«Meglio. Avrai meno cose intorno che te lo ricordano.» dico io.
«Mmh.» sospiri tu, mordendoti le labbra. Sono sicuro che la mia bocca si è appena schiusa. Non avevo mai realizzato quanto fossero carnose.
Più le settimane passano, più mi rendo conto che ci cerchiamo a vicenda molto più spesso del solito. Io, sicuramente, perdo molto tempo a individuarti tra i corridoi. Mi rendo conto che è diventata una specie di abitudine. La pausa caffè e sigaretta si svolge quasi sempre in comune. Ci andiamo conoscendo più nel modo di porci che nel modo di confidarci.
Non so per quale motivo tu pensi che io sia un buon ascoltatore, che comprenda i tuoi bisogni e accolga le tue istanze più di quanto non facciano gli altri. Sono diventato il tuo consulente emotivo. Conosco a menadito tutti i moti ondosi della tua burrasca amorosa, tutti i movimenti tellurici del tuo terremoto relazionale, tutte le frane della tua faglia sentimentale. Questo tipo di indagine quasi geologica, speleologica, non può passare indolore. Mi sento costretto a cedere un pezzo di me, come quando si lasciano i nodi alle corde nei punti più profondi della grotta che hai appena esplorato: I nodi servono a me per ricordare dove ho messo ai piedi e servono a te per entrare in risonanza ancora di più. Per cui, inizio ad accennarti anche io dei miei problemi di coppia.
Lo faccio con molta più parsimonia rispetto a quanto fai tu. Tu sei cauta nel domandare. Se io divento speleologo di una grotta gigantesca che si offre all’esplorazione, tu sei piuttosto una ornitologa. Studi i movimenti da lontano, col binocolo, senza invadere troppo il campo.
C’è un fatto, tuttavia: mi chiedo continuamente quando sospetterai, se non l’hai già fatto, dell’eccitazione che mi procuri ogni qual volta apri la bocca.
Mi chiedo se tu ti renda conto di come io vada in tilt col cervello a ogni boccata di fumo che inali.
Mi son chiesto se la mia presenza sia per te una fonte di tranquillità o se anche tu sei spinta da qualche strana attrazione.
Mi rendo conto che la nostra fisicità sia cambiata.
Prima non ci scambiavamo neanche le strette di mano. Adesso, ci baciamo su entrambe le guance.
Una volta, mi hai stampato le tue labbra sullo zigomo. Non si tratta del centro della guancia, ma proprio dello spigolo zigomatico, quasi più vicino al naso che all’orecchio.
Appena più in basso avresti incontrato la rima della bocca.
Ricordo un giorno in cui ti sfiorai la schiena con il dorso della mano. Non è stato un agire malizioso, intenzionale. Forse è stato un errore di valutazione. Pensavo di incontrare il tessuto del tuo vestito anziché la nuda pelle della schiena. Era soave, setosa, maledettamente arrapante. Un tocco leggerissimo, retratto quasi all’istante. Eppure, proprio perché non era mia intenzione, ti ho formalmente chiesto scusa. In altre circostanze non te ne saresti neanche accorta, invece, in quel momento ce ne accorgemmo entrambi. Tu ti sei girata e mi hai attraversato con lo sguardo profondo quanto un abisso. Non ricordo le esatte parole che usasti, credo fossero cordiali e concise. Ciononostante, si sentiva nell’aria che quel tipo di contatto sarebbe stato il primo di tanti altri. Era un pensiero quasi pre-coscienzioso, eppure inesorabile.
Durante una delle nostre solite riunioni col resto del team, alcuni dirigenti hanno voluto mostrarci gli uffici del terzo piano, attualmente in corso di ristrutturazione. I nuovi spazi serviranno ad ampliare il nostro organico e sarà quindi possibile lavorare in stanze più grandi, usufruire di una cartoleria dedicata e di zone relax appropriate. Saranno pronte per settembre.
Due stanze, in particolare, sembrano attirare la nostra attenzione. Si tratta di due locali adiacenti, rivestiti da moquette grigia, separati da una lastra di vetro spessa trasparente. Una grande finestra domina su entrambe, rendendole più luminose e dando la sensazione che siano ancora più spaziose.
Era proprio la stessa tipologia di ufficio che nella nostra fantasia avevamo immaginato di ottenere qualora fossimo diventati cinici stronzi arrivisti e sessisti.
«Qui ci potresti stare tu, mentre lì potrei andare io!» ripeti tu, indicando delle ipotetiche disposizioni delle scrivanie.
«Ma così ci daremmo le spalle!» faccio notare io.
«Hai ragione. Dobbiamo guardarci in faccia cosicché possiamo anche evitare di fare riunioni. Ci chiamiamo al telefono e ci guardiamo attraverso il vetro.» ribadisci tu.
«Ci ho ripensato. Potresti distrarmi.» ti provoco.
«Ah, sì? Come potrei mai distrarti?» chiedi tu con finta innocenza, mentre fai il verso di spostare i capelli con la mano. Ultimamente stai usando uno strano vezzo, quasi ammaliante: ti passi il dito indice all’angolo della bocca, lasciata aperta, storcendo lievemente il labbro inferiore, come se ti asciugassi una goccia di liquido.
Questa cosa sembra accompagnarsi a ogni battuta allusiva che fai. È il nuovo messaggio in codice per sottolineare la scomodità dell’argomento?
È un atto totalmente implicito, deliberatamente nascosto. Eppure, dato che sono ormai mesi che ti osservo sotto una luce diversa, non riesco a lasciarmi sfuggire neppure un atomo di quei gesti.
In questo momento, vorrei che ti distendessi proprio qui, sulla moquette, vorrei che alzassi la gonna e mi lasciassi annusare il tuo interno coscia. A quel punto, potrei scostare di lato il cotone dei tuoi slip in modo da svelare le tue grandi labbra e baciarle con intensità. Non smetterei di assaporarti fino a che il raggio della chiazza di umori di cui la moquette viene intrisa non arrivi a circondarci interamente.
«Immagina le possibilità...» dici tu ad alta voce, quasi come se interpretassi i miei pensieri in modo sconcertante.
Ti guardo e rido. Rido per non lasciarmi sfuggire altre porcate che potrebbero mettermi in difficoltà.
Tu riconosci nella mia risata un elemento di nervoso e mi dai una pacca sulla spalla.
«Non quello che pensi tu, cretino! Per quello, aspetta che arrivino almeno le scrivanie…» commenti tu, sagacemente e quasi – mi viene da dire, con complice colpevolezza.
Per cui, di fronte a me adesso ci sono due strade: smetterla con le puttanate e chiuderla qui. Abortire qualsiasi intenzione malevola. Imporre e imporsi una distanza etica e materiale.
Oppure, proseguire fino a svelare la profondità della tana del bianconiglio.
«Dio, sono mesi che non scopo.» dichiari tu, alcune settimane dopo la visita al terzo piano, in risposta alla mia considerazione innocua “Sono mesi che non vedo una partita di basket.”
Stavolta ho sentito fin troppo bene.
«Non era la risposta che mi aspettavo.» commento io, con sincerità e un certo divertimento.
Tu sorridi e ti giustifichi. «Ah-ha! Si. Scusami, ogni tanto esco al naturale, con te. Eppure, tu hai detto basket, io ho pensato al palleggiare e… niente. Va così!»
Ancora quel cinismo ammiccante, ancora quella confidenzialità che ho paura di male-interpretare.
«Esistono le app di incontri, hai mai provato?» accenno io.
«Eh! Infatti! Porca miseria, ci ho provato ed è stato tremendo.»
«Troppi cazzi in chat?» replico io, cercando di fare il simpatico. In realtà sembro un coglione galattico. Me ne rendo conto da solo e quasi vorrei scomparire. Tu invece, sembri imperturbabile, come se l’intero discorso sia già pre-configurato nella tua testa.
«Ma magari, cristo santo! Magari! Non mi caga nessuno.»
«Ma come è possibile?»
Me lo chiedo davvero, come è possibile? Ti osservo buttare fuori il fumo della sigaretta.
«Eh, non so! Sembrano tutti dei deficienti! Non reggono neanche tre minuti di dialogo. Sarà che forse risulto troppo aggressiva.»
«Siamo fondamentalmente degli incapaci.» commento io, un po’ per camuffarmi tra la folla.
«Porca miseria, quanto è vero. Siete inutili!» ribadisci tu, mentre aspiri ancora. Mi viene duro come se fossi un post-adolescente sotto effetto di sostanze. Non fumo da quasi otto anni.
«Senti, te ne posso chiedere una?»
Mi guardi con quell’occhio inquisitore e maligno, non dici una parola, stringi il filtro della tua sigaretta tra le labbra e aspiri con forza.
Apri con l’altra mano il pacchetto e me lo punti in faccia. Sfilo una sigaretta e la poggio sul labbro. Ti guardo, in attesa di ricevere l’accendino. Tu sbuffi fumo a due centimetri dal mio viso.
«Quindi hai ripreso?»
«Sarà l’influenza tua, che te posso dire?» mi arrampico sugli specchi.
Mi cedi il tuo accendino e inizio a fumare. Cazzo, che sapore di merda. Una sensazione di soffocamento mi invade. Non ero più abituato. Devo tossire.
Tu sorridi e fai la stronza. «Sbrigati che tra poco dobbiamo rientrare. Il team leader rompe le palle, ultimamente.»
Ho ripreso a fumare di nascosto da mia moglie. Fumo in balcone. Osservo la gente passare sotto per strada. Ogni boccata mi ricorda le tue labbra. Le immagino posarsi sulle mie. Vorrei insinuarmi dentro la tua bocca con due dita, solleticare la tua morbida lingua, sentire come essa faccia i ghirigori e mi bagni le punte, roteando attorno a esse. Avverto quasi la pressione del risucchio alla base del dito medio. Sono arrivato a ritualizzare pure questo: Ogni sera, prima di andare a letto, mi faccio una bella sega con dedica.
Ultimamente, neanche riesco ad arrivare al bagno. Se l’eccitazione sale, lo faccio direttamente lì sul balcone.
È una situazione scomoda. Mi sento incapace di controllarmi. Credo che tu abbia capito qualcosa, perché ultimamente le nostre pause sigaretta sono diventate una scusa per parlare di sesso e scopate.
Scopate che, a quanto pare, mancano da tempo a entrambi.
Mi piace pensare che anche tu ogni sera ti masturbi nel tuo balcone mentre aspiri fumo di tabacco.
Ti immagino lì, gambe divaricate, seduta su una sedia fredda di alluminio per esterni, dietro al tavolinetto, incurante della possibilità che qualcuno ti osservi, mentre infili tre dita in vagina e ti strofini il clitoride facendo colare su di esso una goccia di saliva.
Io, d’altra parte, me lo meno in semi-oscurità a notte fonda guardando le stelle al pensiero che tu possa davvero fare tutto questo. Mentre mi masturbo, aspiro fumo e me lo sparo sul cazzo, immaginando che sia il tuo fumo.
Questa è la mia vita, adesso.
1
5
voti
voti
valutazione
5.6
5.6
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Portraits - Gocce Sulla Moquette | 1/4racconto sucessivo
Portraits - Gocce Sulla Moquette | 3/4
Commenti dei lettori al racconto erotico