Portraits - Gocce Sulla Moquette | 4/4

di
genere
tradimenti

Arrivo al terzo piano. La porta tagliafuoco è lasciata aperta, senza blocco. Entro e un silenzio confortevole mi avvolge. Sono lontano da qualsiasi fonte elettrica, con le ventole dei PC o i trasformatori delle lampade al neon non ancora installati. Passeggio cercando di scacciare via i pensieri. Tocco la tasca e incontro lo spigolo del pacco di sigarette. Mi guardo intorno. Nessuno potrà notare che qualcuno ha fumato in queste stanze. Per cui, prendo una paglia e la porto alla bocca. Mi domando se abbiano già installato i rilevatori di fumo. Mi tocco nel resto delle tasche e impreco: non ho l’accendino.
Decido quasi di tornare giù quando qualcosa attira la mia attenzione. Non appena ti vedo, trasalisco. La sigaretta mi casca dalle labbra. Sei seduta con le gambe incrociate su una delle scrivanie nuove. Ti vedo attraverso il vetro delle stanze da dirigente, in fondo al corridoio. Fissi anche tu il vuoto. Hai una sigaretta accesa tra le dita e ogni tanto tiri qualche boccata. Mi avvicino.
«Sei tu?» domandi ad alta voce.
«Si.» rispondo io.
Entro nella stanza e ti osservo. Tu non ti muovi di mezzo centimetro. Mi guardi con fermezza.
«Devo dire che sono davvero delle belle scrivanie.» mi fai notare, mentre posi la cenere in un bicchiere con dell’acqua e carezzi la superficie del tavolo.
«È vero. Molto spaziose e moderne.» rispondo io, senza staccarti gli occhi di dosso.
«Anche tu qui per dare uno sguardo?»
«Si. Volevo dare uno sguardo.»
Mi porgi l’accendino, come se intuissi la mia richiesta. In un attimo, sono di fronte a te.
«Quindi mi assicuri che non è attivo alcun rilevatore di fumo…» commento io.
«Per quanto ne so, siamo gli unici rimasti in tutto il palazzo. Se anche scattassero, nessuno se ne accorgerebbe.» rispondi tu.

Nessuno se ne accorgerebbe.
Rimango in silenzio ad assimilare i molteplici significati impliciti di questa frase. Nel farlo, mi accorgo che anche tu mi stai fissando con l’espressione più magnetica che io abbia mai ricevuto nella vita.
Uno sguardo tagliente, provocante e seducente. I tuoi occhi sono ancorati alle mie labbra e migrano rapidamente verso il mio collo, come se fossi pronta ad aggredirmi. La tua bocca è socchiusa, in attesa, come i vampiri. Sei ancora più eccitante perché adesso il tuo corpo parla per te, con un linguaggio che mi è quasi inedito ma che è stato nelle mie fantasie più recondite degli ultimi mesi.
Sei poggiata coi palmi delle mani sulla scrivania, le tue gambe accavallate si aprono e si riaccavallano al contrario. Il tuo petto è proteso in avanti. La tua camicetta a collo aperto rivela un decolletè candido e accogliente.
La tua mandibola è come lama di damasco pronta a tranciarmi di netto.
Io sento il cuore in gola e il cazzo ormai pronto a esplodere.
Sei bona. Sei porca. Sei davanti a me e ti desidero.
Ho ancora una chance di salvare la pelle, ovvero spegnere la sigaretta, girare i tacchi e correre verso l’uscita, ma non mi va di farlo.
Ti voglio guardare ancora. Da più vicino. A quel punto, la tua boccata di fumo investe in pieno la mia faccia.
È il segnale.
Senza che tu muova un muscolo, protendo una mano verso le tue cosce e le sposto delicatamente, separandole.
Mi lasci fare.

Rimaniamo in silenzio, a guardarci a vicenda, mentre espiro l’ultima boccata di fumo in direzione del tuo petto, un po’ per rispondere a tono, un po’ per vedere soffiare il vento eretico sopra il tuo decolletè svolazzante. Dopodiché, spengo la sigaretta nel posacenere improvvisato e mi avvicino per annusarti il collo.
Mi lasci fare.

Ti bacio sulla pelle nuda. Intuisco il tuo ansimare. Avverto la pelle d’oca farsi strada dietro la nuca. Bacio ancora, poco più su, vicino l’angolo della tua mandibola acuminata come uno stiletto.
Mi lasci fare e ansimi ancora.

Ti mordo alla base del collo, stavolta il vampiro sono diventato io.
Tu sei sempre lì, immobile, ad accogliere la mia intraprendenza come se non aspettassi altro da sempre. Io, allo stesso modo, mi nutro di quella pelle morbida e di quel sapore. Mi allontano dalla giugulare per approdare alle guance. Poi l’orecchio destro. Nel frattempo, ti carezzo i capelli.
Mi lasci fare, stavolta esclamando “Oh Dio…”

L’altra mano si poggia sul tuo petto, fino a insinuarsi sotto la camicetta per raggiungere uno dei tuoi seni.
Raggiungo le tue labbra e ti bacio, appassionatamente, con la lingua a incontrare la tua.
È una sensazione strana. Non ti avevo mai baciata prima eppure è come se ti baciassi da una vita.
Come se quel bacio, quell’esplorazione, fosse qualcosa di già esperito. Tutto è nuovo, eppure niente lo è. L’immaginazione a volte diventa profetica.
«Fammi tua.» ripeti, con convinzione.
Già, lo ripeti perché lo hai già detto una volta quando ti sognavo. Adesso che lo hai detto a voce alta, nella realtà, assume tutto un altro valore.

Improvvisamente, ho un attimo di incertezza. Mi allontano guardandoti in volto alla ricerca di un qualsiasi segnale che mi confermi che stiamo sbagliando tutto, che ora è il tempo di fermarsi.
Nella tua espressione, tuttavia, si stampa l’incontrovertibile certezza che nulla può più fermarci. Per cui ti bacio di nuovo, abbandonato all’istinto. Tu mi stringi, tirandomi i capelli. Slacci la mia camicia con frenesia, lanciandola a terra. Io faccio lo stesso con le tue vesti. Accenni qualcosa. Farfugli sul volerlo dentro. Io rispondo con eloquio impastato e con la bocca ancora piena che ti voglio più di ogni cosa.
E così ti spingo con la schiena giù, distesa. Mi protendo sopra di te. Alzo il reggiseno e svelo i tuoi seni, contemplo i capezzoli rosei, me ne approprio e inizio a succhiarli. Ti sento gemere, nel mentre faccio cascare i pantaloni per terra. Le mie mutande tengono a malapena ciò che ormai più che gonfio è diventato di marmo.
Succhio con gusto, stringendo tra i denti la morbida carne e sentendoti reagire a ogni morso. Il mio basso ventre sfrega contro il tuo, che percepisco caldo come il fuoco. In quella posizione, potrei già penetrarti, mi basta davvero poco. Potrei sollevare la gonna e lasciare che la natura faccia il resto.
Invece mi godo la lentezza del momento e mi costringo ad aspettare. Devo poterti gustare a fondo e non posso sprecare neanche un centimetro del tuo corpo. Devo platinarti come si fa con un videogame.

Da qui in poi, l’esperienza si fa confusa. Perdonami se non arrivo più a scrivere in modo lucido e coerente, ma saprai meglio di me cosa è accaduto dopo. Mi consentirai un certo cambio di stile, ma la diga si è appena rotta.
La tua fica mi chiama. Le tue gambe sono ormai un libro aperto e io intendo leggerti fino in fondo. Annuso la tua intimità e lascio cadere la lingua sopra il clitoride. Lo massaggio con la punta umida. Inizi a gemere ancora più forte.
È una bella fica, la tua. Si mostra ancora più impreziosita da un piccolo cespuglietto chiaro ben curato. La dolcezza contrasta con l’asprezza dei tuoi umori, che bevo fino a sazietà.
Ti lecco, perché di questo ora mi nutro. Ti mangio, perché non ho altro desiderio se non la fame.
Tiro fuori il cazzo, perché è giusto che entrambi i sessi sappiano cosa li aspetta. Le tue cosce vibrano.
Stai venendo? Dimmi di sì.
«Sto godendo…»
Ma non te l’ho davvero chiesto! Come fai a leggermi nella testa?

Esiste forse una strana connessione tra me che ti lecco la fica e te che leggi i miei pensieri?
Riuscirei a fare lo stesso, a parti invertite?
La curiosità mi assale ma persevero, inserendo due dita e cercando di sincronizzare i movimenti. Ammiro questa bella vagina umida. Godo nel vederti fare le smorfie in risposta a certi movimenti. Dopo qualche minuto in crescendo, ripeti altre due parole oscene prima di portare gli occhi all’indietro. Sento le contrazioni del tuo perineo. Un getto di qualcosa mi solletica la mano già fradicia. Stai pisciando? No, forse sono soltanto umori. Sei venuta e non hai avuto bisogno di dirlo. Lo capisco dal sapore e dal tatto.

Ti giro di scatto. Voglio per un attimo dimenticare il tuo volto. Voglio perdermi in qualcos’altro. Ho bisogno di rimuovere i sentimenti che provo per te, l’attrazione emotiva che mi rende ancora umano e che mi fa sentire in colpa. Voglio soltanto avere l’istinto di scoparti, di venirti addosso. Ho bisogno di farlo, altrimenti è finita. Se rischio ancora un attimo, potrei dirti “ti amo” e saremmo rovinati per sempre in un gioco malvagio e infelice.
Per cui, devo riportare quel contatto al significato esclusivo dei corpi. Devo spegnere la mente e il cuore. Posso soltanto accogliere la pura libido, la sola pulsione.
Ti muovo quindi a pancia in giù, a fare i conti con la tua schiena arrapante e il tuo diabolico sedere.
Poggio due mani aperte sulle natiche e le divarico. Il culo si allarga come uno scrigno dorato e lascia scorgere quel maledetto buchino succulento.
Cosa faccio? Lo guardo e mi perdo nel tuo abisso? O mi tuffo e inizio a leccarlo?
Lo premo con l’indice già umettato in precedenza e spingo. Lo penetro aspettando che tu dica qualcosa.
Non dici niente. Sento soltanto il tuo sfintere contrarsi e allentarsi attorno alla mia falange. È un buon segno. Dall’indice passo al pollice. Dal pollice passo alla lingua.
Che bel sapore, acido e salato.
Decido di scomparire così, leccandoti il culo. Spingendo la mia lingua fin dentro al tuo retto. Lo devo esplorare per bene, prima che mi possa ricordare che si tratti del tuo culo, dei tuoi umori, dei tuoi sapori.
Di te e di me. Di noi.
Del significato che tutto questo ha per entrambi.
No. Devo rifuggirlo.
Devo pensare solamente al godimento di questo bel pezzo di culo da troia che mi ritrovo in bocca.
Questo deve bastarmi.
Questo devo impormi.
Meno l’uccello, cercando di non venire proprio adesso, proprio sul più bello, mentre le mie fauci non lasciano sfuggire neanche un afflato magico di quella caverna.
Il movimento del mio leccare produce un suono umido: “clac-clac-clac”. Segno che ho già inondato abbastanza di saliva quell’anfratto tirato a lucido.
Nel frattempo, i tuoi gemiti sono sordi in lontananza. Non posso farmi distrarre dal tuo vivere il godimento, altrimenti torno sentimentale. Devo perseguire una strada.
Per cui inforco il cazzo e lo sbatto a ritmo sulle tue felle. Altro suono caratteristico. “ciaf-ciaf-ciaf”. Come il primo ma più asciutto.
Ogni tanto, una punta di pre-sperma fa capolino sulla sommità della cappella e lascia il segno dove percuoto.
Decido di fare una bozza della notte stellata di Van Gogh, cospargendo il culo di goccioline minuscole di liquido pre-seminale. Piazzo una goccia anche al centro dell’ano, che si mescola con la saliva che ho sputato qualche istante prima. Poggio la cappella lì, quasi come se fosse in posa. Il suono che fa è il più bello di tutti: “Spoc. “
Un suono secco, come di una concavità e una convessità che si uniscono alla perfezione.
Tu sei contemporaneamente la concavità e la convessità del mio mondo.
Le rotondità delle tue mammelle baldanzose, la vallata profonda delle tue cosce. Il caldo sottobosco dei tuoi peli pubici.

«Quando decidi di scoparmi, brutto stronzo? Non resisto più.»
La tua sfuriata è oro per i miei bollenti spiriti. Umiliami, porco giuda. Fammi sentire la tua frustrazione, che paragonata al mio godere diventa ancora più bella. Io sono l’infido bastardo che gioca in modo autistico con i tuoi buchi e che sta dimenticando di scoparti sopra la scrivania di una stanza del terzo piano.
Decido di non risponderti, per paura di rompere l’incantesimo.
Per cui, con due dita, faccio strada tra le grandi labbra e fingo di inserire l’asta. Scivolerebbe con facilità, il calore è tale quasi al punto da ustionarmi. Mentre sto quasi per convincerti che la mia minchia sia ormai dentro di te, mi allontano con malignità dall’oggetto del desiderio e mi avvicino a un altro oggetto del desiderio: la tua bocca aperta.
Sei distesa su quella scrivania, ormai fradicia, per cui non trovo difficoltà nel fare il giro dal lato corto.
Ti guardo divertito mentre protesti come farebbe una sindacalista, alimentata da quella mossa vile. Hai perfettamente ragione, ma io non sono ancora pronto a chiavarti, devo prima proseguire con gli antipasti.
Stavolta è il tuo turno di sbrodolare saliva come una puttana.
Lo dovrai fare sul mio cazzo turgido e senza risparmiare una goccia.
«Tu sei proprio un bastardo immondo, lasciarmi a metà cosi...» mi sussurri a due centimetri dal fungo rosso che ti balla davanti la faccia. Sembra quasi il tuo microfono e tu la mia cantante.
Impugni il mic e lo accogli tra le tue fauci, chiudendo gli occhi e facendo un verso gutturale che amplifica i sensi.
La tua bocca è quasi più calda della tua fica. Sarà che la tua rabbia si converte in parole di fuoco?
Inizi a succhiarmi il cazzo e massaggiarmi le palle come se fossi una giocoliera. Sento la tua lingua, la stessa dei ghirigori di qualche mia fantasia, avvilupparsi tra le venature della mia asta.
Scompaio quasi del tutto. Ho l’impressione che tu non possegga alcun riflesso laringeo.
Provo a verificare la teoria di pochi minuti fa: E se riuscissi a leggere i tuoi pensieri mentre stai leccando il mio scroto?
No, a quanto pare non ci riesco. Sei indecifrabile. Non so dove cadrà la tua lingua tra qualche secondo, non so se ti stia piacendo o se lo fai per piacere di piacere.
Cazzo, sembrava una tesi verosimile. Peccato.
Ogni tanto, lo tiri fuori e ci sputi sopra. Non hai dimenticato il trattamento che ti ho riservato poco fa e me ne compiaccio.
Ti raccolgo la chioma a mò di chignon, forse per farti stare più comoda e impedirti di ingoiare i tuoi stessi capelli, ma in realtà è per osservarti meglio mentre suggi le mie palle, per ammirarti mentre agisci da troia, per le tue mandibole damascate, le tue clavicole sontuose e il tuo collo rinascimentale.
«Sei bellissima.» dico io. Insulto la madonna, ma solo perché sono inciampato nell’ennesimo rigurgito di sentimentalismo.
Mi ero ripromesso che non devo pensare a quanto tu sia bella, a quanto mi senta felice qui con te, dopo mesi interi di insofferenza.
Tu rallenti e assapori il mio uccello e le mie parole. Non so interpretare questa battuta d’arresto. Forse si è rotto l’incantesimo? Pensi sia meglio rivestirci adesso?
Ma no, neanche per il cazzo.
Riprendi a succhiarmi con ancora più veemenza, porca che non sei altro.

«Dillo di nuovo, stronzo farabutto.»
«Sei bellissima.»
«Vaffanculo. Ti piace così?»
Rispondi, alternando una succhiata e uno stroke a piena asta.
«Si, molto.»
«Come faremo, d’ora in poi?» chiedi tu.
«Non voglio pensarci.»
«Mi lascerai lavorare in pace, o dovrò succhiarti le palle tutti i giorni?»
«Cristo santo. Non ci pensare e ingoialo...» ripeto io, ansioso.
«Mmmh. Forse se venissi da te ogni mattina e lo prendessi in bocca magari ottengo quell’aumento di cui parlavamo?»
«Ma cosa cazzo dici? Non sono mica un tuo superiore! Verremmo licenziati entrambi.»
«No, tu no. A te darebbero il posto da manager. Questa scrivania è praticamente già tua.»
«Sei una troia.»
«E tu un coglione adultero che si sbatte la collega di lavoro.»

Chiudo gli occhi, con rabbia. Non so perché lo stai facendo. Vuoi distrarmi? Vuoi farmi del male? Vuoi litigare? Vuoi punirmi?
Forse me lo merito. Ho provato a tenerti fuori dal cuore. Ho cercato di lasciare fuori la realtà. Ho cercato di sostituire te con l’immagine erotica che ho di te.
Tutto questo tu lo hai capito, quindi stai cercando di stanarmi. Mi stai costringendo a viverti nella tua piena interezza. Non accetti il compromesso dei corpi ignoti.

«Siamo entrambi dei coglioni adulteri, adesso. Te ne rendi conto, si?»
«Lo so.» rispondo io.
«In questo momento non me ne frega un cazzo di succhiare un uccello qualsiasi. Io voglio succhiare te. Voglio che tu mi scopi, non che qualcuno mi scopi. Hai capito?»
Rimango in silenzio. È assurdo che queste frasi sincere e pesanti come un macigno siano pronunciate mentre soffochi su di un cazzo.
«Scopami sapendo che si tratta di me.»
Rivendichi la tua identità, fiera e colpevole. Io son qui ad accoglierti con ritrovata consapevolezza.
Sono un farabutto, fedifrago, traditore e forse anche vigliacco.
Ma questa è la vita. Occorre accogliere e affrontare le conseguenze delle proprie scelte, senza fingere, senza negarle, senza usare eufemismi.
Mi sto scopando la mia collega. Lei sta scopando me. Lo abbiamo voluto entrambi e non si tratta solo di sesso, a quanto pare. O forse sì, ma non è questo il punto.

Col cuore che batte forte, ti bacio intensamente in bocca. Sento il sapore della mia presenza.
Scendo lungo il collo teso, oltrepasso lo sterno, stritolo i tuoi capezzoli. Mordo la pelle lungo la linea alba e bacio di nuovo il tuo pube, prima di lambirti con la mia asta un’ultima volta, prima di vederla scomparire nel caldo abbraccio delle tue grandi labbra.
Ti guardo in volto, mentre entro dentro di te. Ti osservo, mentre le tue pupille si allargano. È una emozione forte, forse sbagliata, forse la più egoista di tutte. Eppure, sento la tua presenza tanto quanto tu senti la mia.
Stantuffo con forza crescente. Le mie palle sbattono non appena giungo in fondo.
A ogni colpo, esclami qualcosa di diverso.
“Dio.”
“Cazzo.”
“Si.”
“Continua.”
“Bastardo.”
“Si, così.”

Io mi eccito, non so neanche come sia possibile essere ancora più eccitato di così. Capisco che forse eccitarsi equivale a drogarsi e questa è la mia overdose.
Osservo il connubio tra i nostri sessi e smetto di riconoscere le singole parti. Ammiro una cosa unica, dinamica.
A ogni colpo, il mio respiro si esprime attraverso versi animaleschi. Sembro un gorilla ingrifato. È così, devo accettarlo. Niente di aggraziato. Solo brutale maschilità senza fronzoli, mentre una figura femminile altrettanto irresistibile riceve i colpi sconquassanti a cosce aperte, con tutta l’oscenità che questa visione può esprimere.
Ti vedo, nella tua sensualità unica, nella tua adultera complicità, nel tuo catartico momento di estasi.
Riconosco di essere un po’ il chiodo-schiaccia-chiodo del tuo fallimento amoroso. Eppure, non ti sei voluta nascondere dietro al semplice fottere.
Hai voluto vivere questo sesso con autenticità, senza ignorare le storie che ci accompagnavano.
Per questo, scopare con te suona così bello, perché al tempo stesso mi fai sentire vivo e lentamente mi uccidi.
Così è. Così deve essere.

Avverto una pressione da basso. Sento che manca poco. Cosa faccio? Tu riconosci la mia apprensione.
Mordi il labbro inferiore con avidità e capisco che ti serve ancora qualche istante. Sento che anche tu vorresti prolungare il piacere ancora un po’.
Provo tenerezza, per cui ti bacio di nuovo in bocca e ti infilo con altrettanta tenerezza mezzo metro di lingua.
Quanto sei bella. Ti mordicchio un orecchio e ti sento tremare.
«Vengo. Oddio, vengo!»
E così sei venuta. Lo sento sulla base del mio pube. I tuoi umori hanno bagnato interamente il mio interno coscia. Le palle sbattono su di te e svicolano tra le mie gambe.
Mi fermo e prendo fiato. Tu ansimi forte, in sincro con me. Ci riorganizziamo nello spazio. Adesso sei poggiata coi gomiti sulla scrivania e il culo a ponte.
Mi prendo un attimo per assaggiare di nuovo il tuo ano, prima di penetrarti nuovamente, mantenendo la posizione.
La verga ormai procede in scioltezza. Tengo le felle ben separate per non perdermi neanche un dettaglio di quel movimento.
Il tuo buco si contrae a comando. Improvvisamente, torno con la mente all’occhiolino anale di mia moglie, durante il Capodanno di tre anni fa. Mi sento nuovamente un verme, ma una tua bestemmia mi fa tornare rapidamente lucido, così torno a pompare alla grande. Con il tuo divino intercalare, hai forse voluto invitarmi a riempire il tuo ano in qualche modo? Non lo sapremo mai, quindi nel dubbio ti infilo un dito medio. Ogni tanto cambio mano, per potermi leccare le dita come si fa con le fonzies.
È una fase piuttosto stabile del rapporto. Ti penetro con ritmo, senza incedere. Tu sei silenziosa. Il silenzio favorisce entrambi, perché siamo concentrati a dilazionare il piacere. Dura così per altri cinque minuti.
Sembra l’intervallo del super-bowl. Lo spettacolo del tuo culo vale il prezzo dell’appalto, come fanno le pubblicità che ambiscono a quei momenti di televisione.
Sento nuovamente la pressione alla base del perineo. Forse, devo sborrare.

Estraggo l’uccello e ti schiaffeggio le chiappe. Tu ti alzi, ti volti e mi abbracci. Sento le tue tette premere sul mio petto. Mi stimoli con il palmo della mano. Mi massaggi una natica, con un dito arrivi a stimolare il mio ano, finora l’unico superstite della nostra guerra lampo. Sorrido per la sensazione inedita.
Siamo nuovamente con le lingue intrecciate.
Il mio uccello è ancora turgido e non riesce a trovare pace con quel su e giù delle tue dita.
«Voglio vederti.»

Mi fai sdraiare sulla moquette. Con le dita mi sollevi nuovamente le palle e inizi a soppesarle. Con l’altra mano pratichi una masturbazione lenta e costante.
Mi guardi coi tuoi occhi magnetici.
«Sai che mi sono fatto tante seghe, immaginando questa esatta scena?» confesso io.
«Ah, sì? E cosa ne pensi, adesso che la stai vivendo?» replichi tu, mentre muovi in armonia verga e coglioni.
«Penso che sia ancora un sogno.»
«Chiudi gli occhi e riaprili. Magari è davvero un sogno, no?»
Ho quasi paura che tu abbia ragione, per cui aspetto un attimo prima di farlo. Una volta riaperti gli occhi, tu sei ancora qui, con le mie palle in mano. Sorrido.
«Ho avuto paura.»
«Vieni, per me.»
«Sicura?»
«Lo voglio.»
Il tuo Statement definitivo. Al solo pronunciare “lo voglio” mi ricordo di quando tale cerimonia veniva pronunciata ai matrimoni.
Stiamo sugellando la nostra unione e le fedi nuziali sono state sostituite rispettivamente dal tuo sfintere anale attorno al mio dito e dalle tue labbra attorno alla mia lingua.
Una pioggia di sborra al posto del lancio del riso.
Fiottosa. Intermittente. Esplosiva, bianca e potente. Le tue mani si ricoprono di liquido lattescente. Continui a menarmelo mentre il mio seme ti cola inesorabile fino ai polsi.
Il godimento dell’orgasmo giunge in lieve ritardo, rispetto all’eiaculazione. Un piacere infinito, diverso dai soliti orgasmi brevi e insoddisfacenti ottenuti dentro al bagno. Stavolta, penso che sia arrivato un po’ in ritardo perché il carico era troppo sostanzioso e lo stimolo troppo forte al punto da traboccare.
Tu ammiri il prodotto dei tuoi sforzi. Assaggi il mio sperma, asciugandoti pollice e indice con la bocca.
Abbiamo macchiato la moquette. Il posacenere è caduto e ha combinato un casino. Si è fatto buio. Forse siamo rimasti chiusi dentro l’ufficio.
Nessuno, tuttavia, è venuto a interromperci.
Questa storia è iniziata con delle gocce sulla moquette ed è finita con altre gocce sulla moquette.
Mi baci con le tue labbra salate. Mi rimane ancora il dubbio che si tratti solo di un sogno.
Forse ti amo?

Rimaniamo sdraiati sulla moquette, incuranti delle gocce e delle sagome dei corpi sudati lasciate impresse sul tessuto. Dopo alcuni minuti fermi a guardare i pannelli quadrati di compensato del soffitto, tu ti schiarisci la gola e mi rivolgi le parole che forse avevi voglia di rivolgermi da tempo.
«Sento di avere avuto bisogno di questo istante. Lo volevamo entrambi. Tuttavia, sappi che non sono qui per amarti. Se questa cosa ti turba, non posso farci niente. Mi dispiace, ma avevo bisogno di dirtelo.»
Giaci ancora accanto a me, tette al vento e madida di sudore. Il tuo respiro è lievemente accelerato, segno dell’intensità emotiva di questi ultimi istanti, forse ancora più pesanti del sesso furioso. Il tuo viso è serio. Niente ironia beffarda a guarnire la tua mandibola seducente e spigolosa, stavolta, ma solo il fermo e glaciale volto della schiettezza, con le pupille fisse contro il tetto.
Anche io guardo il soffitto, ma il mio sguardo rimane fatuo. Ho il cervello vuoto e non riesco a elaborare nulla, col timore inoltre di non poter produrre un solo altro pensiero, altrimenti potresti leggere pure questo.


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scritto il
2025-02-01
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