L'importanza del vuoto
di
Jan Zarik
genere
masturbazione
Mi ritrovo a guardare la mia compagna mentre prepara nervosamente un piccolo trolley, cercando di fare mente locale su cosa possa dimenticare. Tra le mani tengo stretto il mazzo di chiavi dell’auto, facendolo girare vorticosamente attorno al dito indice, giocherellando per ingannare l’attesa. Lei è quasi sudata, accelerata, concentrata. Sta cercando di chiudere un bagaglio che dovrebbe contenere i vestiti di tre giorni e che invece è riempito a tappo come se stesse partendo per un mese.
«Non pensi sia un po’ eccessivo?» chiedo io, osservando i suoi sforzi.
«Zitto! Non vedi che sono nel difficile?» risponde lei, stizzita.
«Magari togli un paio di scarpe!»
«Non posso andare ai colloqui con le ballerine.» replica, gettandomi addosso uno sguardo severo.
Smetto di pungolarla, anche perché so di non avere chance di farle cambiare idea. Ha puntato molto su questi colloqui di lavoro che la vedranno in trasferta a Torino per un paio di giorni. So che gran parte del peso che ingombra il piccolo trolley è costituito da “apprensività” e “aspettative”. Credo di averla supportata come ho potuto ma non sarei stato in grado di accompagnarla fino a lì, poiché il mio lavoro me lo impedisce. Per cui, mi limiterò a traghettarla fino alla stazione dei treni.
«Cazzo. La spazzola, dove l’ho messa?»
«L’avrai lasciata in bagno.»
«No, ho controllato!»
La osservo mentre cerca dappertutto la spazzola, nel frattempo continuo a far girare le chiavi attorno al dito. Lei apre i cassetti a uno a uno, pensando di aver inavvertitamente riposto la spazzola nei posti più improbabili.
Un cassetto tra tutti attira la mia attenzione. Uno di quelli che non esploro quasi mai, poiché esclusivamente a suo uso e consumo. Uno di quei cassetti interni di un mobiletto basso a due ante in cui credevo ci fossero solo cartacce o calzini. Il suo interno, invece, sembra contenere tutt’altro. Istintivamente allontano lo sguardo e mi metto a cercare anche io, lanciando un profondo sospiro. Sollevo una piccola giacchetta poggiata sul letto e riconosco il profilo classico, banale, del manico dell’oggetto. Lo afferro e dico ad alta voce «trovato!»
Lei me lo sfila di mano e lo ripone dentro la borsa. «Ok. Andiamo, che è tardi.»
Il percorso in auto procede in assoluto silenzio. Lei è pensierosa, guarda oltre il finestrino. Chissà cosa sta guardando per davvero. Chissà che pensieri la stanno travolgendo in questo momento. Non sono particolarmente preoccupato, anzi penso che andrà tutto bene. Finalmente otterrà quel lavoro e potremo iniziare un nuovo capitolo. Se invece andrà male, pazienza. Ci saranno altre occasioni. «Ti ricordi di andare a ritirare il piumone in lavanderia?»
«Certo.» mento spudoratamente, poiché avevo completamente dimenticato quel compito. Meno male che le è tornato in mente, tra le mille cose a cui sta già pensando in questo momento.
Arrivati in stazione, lei scende rapidamente dall’auto, non prima di avermi stampato un bacio sulla guancia. «Fammi in bocca al lupo!»
«In bocca al lupo!»
«Ti amo.»
«Anche io.»
«Il piumone…»
«Cristo santo, Ivana. Lo so!»
«Scusa. Ciao, ti scrivo quando arrivo!»
È andata. La saluto da dentro l’abitacolo, con la mano. È talmente dolce e nevrotica da farmi quasi sentire un cinico pezzo di merda. Torno a casa travolto da pensieri. Ce la farà? Sarò stato troppo distante? Si stuferà di me? Credo davvero in quello che dico?
Non so. Forse la mia abilità maggiore è quella di complicare più del solito i pensieri, quando invece potrebbero essere più semplici. Inoltre, nell’ultimo periodo mi sento distratto, incapace di performare, svogliato. Vedo la mia compagna tanto immersa, concentrata e determinata ad affrontare le sfide della vita e invece io mi sento un po’ frenato. Ho già un lavoro, non particolarmente esaltante ma dal salario sicuro, affidabile. Non sento quel respiro frizzante dato dalla brezza vitale dell’incognito, per cui me lo invento; fremo pur in assenza di vibrazioni, elucubro nonostante non ce ne sia bisogno, vago con la fantasia pur rimanendo nel concretismo.
È sera, la mia compagna è arrivata da poco a Torino. Ci siamo appena sentiti al telefono. Abbiamo entrambi già mangiato. Lei impegnerà tutta la notte a ripassare gli argomenti della sua presentazione power-point. Io, invece, domani lavorerò di pomeriggio, poiché di mattina dovrò andare dal dentista, per cui ho la serata libera. Porca puttana. Ho scordato di ritirare il piumone. Dove ho la testa?
Guardo distrattamente la TV, nulla di interessante come al solito. Lo zapping svogliato mi conduce sulle reti mediaset, dove alcuni primi piani di natiche si alternano al volto di Jerry Scotti. Sorrido, ripensando a quella famosa pagina instagram dove viene sviluppato un intero Jerry-verso. Ancora un paio di glutei ben proporzionati. Cosa sto guardando esattamente? Cambio canale. Un talk di politica piuttosto accorato. Non ho voglia di farmi venire l’ulcera gastrica, per cui spengo la TV. Faccio scrolling col cellulare. Mi soffermo su altre natiche, altri corpi liberi che mimano balletti e fingono acrobazie.
Fisso il vuoto, con sguardo fatuo. Una mano si posa al centro delle mie gambe. Sono così scazzato che perfino la mia libido sembra rimanere indifferente. Tuttavia, un guizzo mi attraversa la mente.
Mi alzo dal divano, perplesso. Vago per la cucina sfiorando con la punta delle dita le sedie del tavolo da pranzo. C’è qualcosa che sembra aleggiare tra i miei circuiti ma non riesco ad afferrare. Forse sto avendo un attacco di panico, perché sento il fiato corto.
No. Non è fiato corto. È trepidazione.
Trepidazione per cosa? Sono l’essere più inattivo sulla faccia della terra! Chiuso in casa, da solo, incapace perfino di stare seduto sul divano per la totale ignavia. Guardo fuori e il vento piega i rami di alcune magnolie.
Un pensiero mi lascia interdetto. Mi giro verso il corridoio, lo percorro lentamente. Approdo in stanza da letto e accendo la luce. Mi guardo intorno come se fossi un marine in perlustrazione. Quasi immagino che qualcuno possa nascondersi e sbucare all’improvviso, freddandomi. Dopo aver constatato che nessuno attenta alla mia vita, mi dirigo verso il mobiletto basso. Il mio agito è quasi automatico. Le mie volontà sembrano più degli impulsi. Inizia a farsi strada un senso di agitazione dentro di me, nuovo, galoppante. Apro le ante e osservo il cassetto per qualche secondo. Lo apro.
Rimango fermo e fisso lo sguardo al centro del mio campo visivo. Sembra quasi lasciato lì con distrazione. Niente di veramente nascosto o camuffato. Semplicemente, qualcosa che sta lì e mantiene la posizione. D’altronde, Ivana non ne ha mai fatto mistero. So che ne possiede almeno un paio, seppure non ne avessi ancora visti prima di adesso.
Alcune coppie condividono l’esperienza in modo attivo. Noi invece non siamo mai stati capaci di condividere questo tipo di cose. Eppure, mi sono sempre considerato un tipo aperto, curioso e pacifico. Nonostante questo, in quasi un anno di relazione, non ho mai fatto conoscenza né esperienza del vibratore della mia compagna.
Adesso, me lo trovo davanti. È un modello a coniglietto, con una bella forma, sinuoso, non troppo esagerato. La gomma è setosa, piacevole al tatto, di un invitante colore fucsia.
Cosa sto facendo? Mi sento di compiere una specie di tradimento. Come posso sbirciare tra le cose private della mia compagna, senza il suo permesso?
Chiudo il cassetto, cerco di non pensarci. Forse è meglio che mi faccia una doccia, poiché sento che la mia gradazione di sudore sia giunta al limite. Mi scopro particolarmente sensibile al petto e nell’interno coscia mentre rimuovo i vestiti. Rimugino ancora un po’. Sempre nudo, ancora sporco, mi dirigo di nuovo in stanza da letto e apro una seconda volta il cassetto. La decisione è presa, ormai.
Apro l’acqua, aspettando che riscaldi a temperatura esatta. Nel frattempo, ammiro la forma di quell’oggetto dal design unico. Sento una flebile eccitazione farsi strada tra le mie cosce, impossessarsi della punta del mio sesso, che lentamente sento scalpitare. Quasi in preda a uno stato onirico, accarezzo quel tubo artisticamente rilegato, la cui sommità è rigonfia, ovalare, smussa e invitante.
Accendo il giocattolo. Lui risponde con un colpo vibrante, segno che è carico. Ok, cosa faccio?
Magari potrei limitarmi a carezzarlo, sotto l’acqua, per tenermi compagnia.
Oppure, potrei mimare il gesto di un atto masturbatorio. Quanti mondi si aprono di fronte a un uomo con in mano un vibratore? Quante domande può porsi un uomo come me di fronte a quel simbolo fallico, tenuto in mano con riverenza?
Sono diventato un totipotente. La sessualità inizia a perdere qualsiasi sfaccettatura, qualsiasi contrasto. Esiste solo il principio di piacere e credo sia questo l’unico scopo di questo mio codardo esperimento.
Codardo perché all’oscuro della mia donna. Esperimento perché sfido la mia eccitabilità, scoprendone nuove sfumature. Mi aiuterà forse a smettere di pensare.
Mentre vago con la fantasia, chiudo gli occhi e bacio quell’oggetto con dolcezza, quasi salutandolo. Sento la sua vibrazione solleticarmi le labbra, così apro le fauci delicatamente per accoglierlo. Mi rendo conto che mimare il pompino è una esperienza interessante. Penso di sapere cosa da piacere a un uomo, essendo imprigionato io stesso in uno di essi. Credo inoltre di sapere perfettamente cosa possa dare piacere a un uomo etero, poiché penso di averne interpretato il ruolo per buona parte della mia vita e pretendo ancora di esserlo. Per cui, non sto davvero immaginando di succhiare un cazzo di qualcun altro. Piuttosto, è più come se stessi impersonificando qualcuno capace di succhiarmelo in modo ideale (maschio o femmina che sia). Mentre svolgo questo esercizio teatrale, rivolgo i miei occhi verso l’alto. L’unico oggetto che incrocia il mio sguardo è il doccino che spruzza acqua calda. Mi faccio bastare la sua presenza e immagino quindi di fargli un pompino, come se egli fossi me stesso e io fuori di me, intorno a me.
“Non puoi amare gli altri, se non ami te stesso”. In parte è vero.
Vado su e giù con la mano sinistra, mentre la destra tiene fermo l’asta fucsia, senza smettere di fissare il doccino che sono sicuro stia godendo come un pazzo. Tiro fuori la lingua e la passo sulla punta di quel cazzo di gomma, aspettando una qualche reazione da parte del mio immaginario partner. Egli sembra rispondere con un flusso d’acqua ancora più caldo.
Ehi, frena stallone! Non ho ancora finito. Tengo la bocca aperta, mentre continuo a segarlo e guardarlo dritto negli occhi (se mai avesse avuto degli occhi per ammirare quelle mie smorfie oscene). Sono sicuro che se avesse potuto mi avrebbe sputato direttamente nell’ugola. Oppure, avrebbe fatto altro. Mi lascio affogare dal flusso d’acqua, mentre con la mano libera inizio a masturbarmi, sorprendendomi del turgore che il mio sesso è riuscito a raggiungere. Robe che non sentivo né sperimentavo da parecchio tempo.
A questo punto perché privarsi? Direziono il vibratore verso le palle, poggiandovi sopra le orecchie del coniglietto. La sensazione è così piacevole che ho quasi timore di venire troppo presto. Rallento e riprendo fiato.
Ok, sono eccitato. È chiaro. Sfido i limiti imposti dalla mia stessa autorità morale, travalicando qualsiasi preconcetto. Adoro navigare nel mare della fluidità sessuale, senza etichette, senza ruoli. Godo nell’immaginarmi lì, mentre un vibratore stimola le mie palle e mi porta all’orgasmo, immedesimandomi in un avido scopatore di doccini, mentre ricevo la sua calda acqua in faccia.
Il mio amico fucsia prende l’iniziativa e struscia contro di me, sull’addome, lungo lo sterno, attorno ai capezzoli. Mugolo di piacere per il piacere di mugolare. Recito in una commedia in cui lo spettatore e l’attore coincidono. Fingo di essere ciò che sono davvero. Mi nascondo spogliandomi. Accosto il glande finto al glande vero, per compararne le dimensioni e godere delle microonde sussultorie dell’aggeggino elettrico. Vince il fucsia anche se il mio cappellaccio è così turgido da essere diventato ancora più violaceo. Me ne compiaccio. Vorrei che Ivana lo ammirasse inorgoglita.
Ho bisogno di più. Lo sposto sul perineo, finché non lo avverto poggiarsi sulla brioche vuota in mezzo alle mie natiche, opportunamente divaricate.
Chiudo gli occhi. So che non è facile. Eppure, sento di averne necessità. Il cazzo è talmente turgido da farmi male, desidero essere posseduto (o possedere – punti di vista) da quell’ordigno fancy al sapore di gomma da cancellare dei banchi di quinto ginnasio.
Mi accovaccio, permettendo alla brioche di diventare ciambella, quindi anello, poi toroide, infine sfintere. Mi rilasso e aspetto che la pressione faccia il resto.
Essa non tarda ad arrivare, per cui godo di ogni micro-istante. Lascio che la forza impressa dalla gomma vinca e divarichi la carne rigida, finché essa non decide di esibire bandiera bianca, spalancare le porte e lasciare entrare il nuovo conquistatore, farsi strada lentamente chiedendo permesso.
Spalanco gli occhi, guardando la doccia. Le chiedo “Come hai potuto? Almeno Fai piano!” ma il doccino non risponde, perché è uno stronzo bastardo impietoso. Mi sta inculando senza fiatare e io sto per lasciarglielo fare, senza potere. Anzi, continuo a farmi inondare d’acqua calda sulla testa, dominato dalla potenza del flusso, mentre il fucsia si fa largo negli anfratti più profondi della mia persona, facendo evaporare decenni di identità di genere come gocce d’olio sulla griglia cocente. Chissà se Ivana apprezzerebbe una scena del genere.
Avverto un dolore inatteso, forse ho esagerato. Non posso tuttavia cedere proprio adesso. Devo indugiare. Inforco il mio membro, ormai quasi ignorato, stimolandolo per controbattere. Sento la mia prostata contrarsi, segno che è giunta la fine. Il fucsia non solo ha vinto la mia volontà, ma ha anche preso possesso della mia coscienza.
Ivana ti amo. Tuttavia, credo in questo momento di amare molto di più il tuo amico fucsia. Potrei vivere una vita intera insieme, a patto che tu porti con te questo piccolo e prezioso sacro graal. Vorrei che tu mi conoscessi per quello che sono adesso, dentro la doccia, osceno e pornografico, libero da qualsiasi catena sociale auto-imposta.
Vorrei che mi amassi come il mio culo ama questo piccolo bastardo fluorescente.
Se non avete mai sborrato mentre avevate qualcosa su per il culo, non saprete mai cosa significa davvero sborrare.
E’ un plotone di esecuzione al contrario: Sei contemporaneamente il boia e il condannato. Spari le cartucce che ti prosciugano, infondendo la vita e succhiandola lontano da te allo stesso tempo. Un ultimo sguardo al doccino, mio inconfessabile amante, prima di scomparire nel buio del piacere vuoto, perpetuo. Le gambe tremano, il vibratore schizza fuori, le ultime contrazioni prima di svenire.
Non so da quanto tempo sto in questa posizione, rannicchiato sul piatto doccia, con l’acqua ormai tiepida che scorre ineluttabile e mi bagna. È strano sentire il bisogno di farsi una doccia mentre si è dentro la doccia.
È avvenuto l’Armageddon della mia coscienza, finalmente libera, deflagrata e annichilita. Soltanto adesso, mi rendo conto dell'importanza del vuoto.
Un pensiero, tuttavia, è sopravvissuto: “Ricorda di ritirare il piumone.”
«Non pensi sia un po’ eccessivo?» chiedo io, osservando i suoi sforzi.
«Zitto! Non vedi che sono nel difficile?» risponde lei, stizzita.
«Magari togli un paio di scarpe!»
«Non posso andare ai colloqui con le ballerine.» replica, gettandomi addosso uno sguardo severo.
Smetto di pungolarla, anche perché so di non avere chance di farle cambiare idea. Ha puntato molto su questi colloqui di lavoro che la vedranno in trasferta a Torino per un paio di giorni. So che gran parte del peso che ingombra il piccolo trolley è costituito da “apprensività” e “aspettative”. Credo di averla supportata come ho potuto ma non sarei stato in grado di accompagnarla fino a lì, poiché il mio lavoro me lo impedisce. Per cui, mi limiterò a traghettarla fino alla stazione dei treni.
«Cazzo. La spazzola, dove l’ho messa?»
«L’avrai lasciata in bagno.»
«No, ho controllato!»
La osservo mentre cerca dappertutto la spazzola, nel frattempo continuo a far girare le chiavi attorno al dito. Lei apre i cassetti a uno a uno, pensando di aver inavvertitamente riposto la spazzola nei posti più improbabili.
Un cassetto tra tutti attira la mia attenzione. Uno di quelli che non esploro quasi mai, poiché esclusivamente a suo uso e consumo. Uno di quei cassetti interni di un mobiletto basso a due ante in cui credevo ci fossero solo cartacce o calzini. Il suo interno, invece, sembra contenere tutt’altro. Istintivamente allontano lo sguardo e mi metto a cercare anche io, lanciando un profondo sospiro. Sollevo una piccola giacchetta poggiata sul letto e riconosco il profilo classico, banale, del manico dell’oggetto. Lo afferro e dico ad alta voce «trovato!»
Lei me lo sfila di mano e lo ripone dentro la borsa. «Ok. Andiamo, che è tardi.»
Il percorso in auto procede in assoluto silenzio. Lei è pensierosa, guarda oltre il finestrino. Chissà cosa sta guardando per davvero. Chissà che pensieri la stanno travolgendo in questo momento. Non sono particolarmente preoccupato, anzi penso che andrà tutto bene. Finalmente otterrà quel lavoro e potremo iniziare un nuovo capitolo. Se invece andrà male, pazienza. Ci saranno altre occasioni. «Ti ricordi di andare a ritirare il piumone in lavanderia?»
«Certo.» mento spudoratamente, poiché avevo completamente dimenticato quel compito. Meno male che le è tornato in mente, tra le mille cose a cui sta già pensando in questo momento.
Arrivati in stazione, lei scende rapidamente dall’auto, non prima di avermi stampato un bacio sulla guancia. «Fammi in bocca al lupo!»
«In bocca al lupo!»
«Ti amo.»
«Anche io.»
«Il piumone…»
«Cristo santo, Ivana. Lo so!»
«Scusa. Ciao, ti scrivo quando arrivo!»
È andata. La saluto da dentro l’abitacolo, con la mano. È talmente dolce e nevrotica da farmi quasi sentire un cinico pezzo di merda. Torno a casa travolto da pensieri. Ce la farà? Sarò stato troppo distante? Si stuferà di me? Credo davvero in quello che dico?
Non so. Forse la mia abilità maggiore è quella di complicare più del solito i pensieri, quando invece potrebbero essere più semplici. Inoltre, nell’ultimo periodo mi sento distratto, incapace di performare, svogliato. Vedo la mia compagna tanto immersa, concentrata e determinata ad affrontare le sfide della vita e invece io mi sento un po’ frenato. Ho già un lavoro, non particolarmente esaltante ma dal salario sicuro, affidabile. Non sento quel respiro frizzante dato dalla brezza vitale dell’incognito, per cui me lo invento; fremo pur in assenza di vibrazioni, elucubro nonostante non ce ne sia bisogno, vago con la fantasia pur rimanendo nel concretismo.
È sera, la mia compagna è arrivata da poco a Torino. Ci siamo appena sentiti al telefono. Abbiamo entrambi già mangiato. Lei impegnerà tutta la notte a ripassare gli argomenti della sua presentazione power-point. Io, invece, domani lavorerò di pomeriggio, poiché di mattina dovrò andare dal dentista, per cui ho la serata libera. Porca puttana. Ho scordato di ritirare il piumone. Dove ho la testa?
Guardo distrattamente la TV, nulla di interessante come al solito. Lo zapping svogliato mi conduce sulle reti mediaset, dove alcuni primi piani di natiche si alternano al volto di Jerry Scotti. Sorrido, ripensando a quella famosa pagina instagram dove viene sviluppato un intero Jerry-verso. Ancora un paio di glutei ben proporzionati. Cosa sto guardando esattamente? Cambio canale. Un talk di politica piuttosto accorato. Non ho voglia di farmi venire l’ulcera gastrica, per cui spengo la TV. Faccio scrolling col cellulare. Mi soffermo su altre natiche, altri corpi liberi che mimano balletti e fingono acrobazie.
Fisso il vuoto, con sguardo fatuo. Una mano si posa al centro delle mie gambe. Sono così scazzato che perfino la mia libido sembra rimanere indifferente. Tuttavia, un guizzo mi attraversa la mente.
Mi alzo dal divano, perplesso. Vago per la cucina sfiorando con la punta delle dita le sedie del tavolo da pranzo. C’è qualcosa che sembra aleggiare tra i miei circuiti ma non riesco ad afferrare. Forse sto avendo un attacco di panico, perché sento il fiato corto.
No. Non è fiato corto. È trepidazione.
Trepidazione per cosa? Sono l’essere più inattivo sulla faccia della terra! Chiuso in casa, da solo, incapace perfino di stare seduto sul divano per la totale ignavia. Guardo fuori e il vento piega i rami di alcune magnolie.
Un pensiero mi lascia interdetto. Mi giro verso il corridoio, lo percorro lentamente. Approdo in stanza da letto e accendo la luce. Mi guardo intorno come se fossi un marine in perlustrazione. Quasi immagino che qualcuno possa nascondersi e sbucare all’improvviso, freddandomi. Dopo aver constatato che nessuno attenta alla mia vita, mi dirigo verso il mobiletto basso. Il mio agito è quasi automatico. Le mie volontà sembrano più degli impulsi. Inizia a farsi strada un senso di agitazione dentro di me, nuovo, galoppante. Apro le ante e osservo il cassetto per qualche secondo. Lo apro.
Rimango fermo e fisso lo sguardo al centro del mio campo visivo. Sembra quasi lasciato lì con distrazione. Niente di veramente nascosto o camuffato. Semplicemente, qualcosa che sta lì e mantiene la posizione. D’altronde, Ivana non ne ha mai fatto mistero. So che ne possiede almeno un paio, seppure non ne avessi ancora visti prima di adesso.
Alcune coppie condividono l’esperienza in modo attivo. Noi invece non siamo mai stati capaci di condividere questo tipo di cose. Eppure, mi sono sempre considerato un tipo aperto, curioso e pacifico. Nonostante questo, in quasi un anno di relazione, non ho mai fatto conoscenza né esperienza del vibratore della mia compagna.
Adesso, me lo trovo davanti. È un modello a coniglietto, con una bella forma, sinuoso, non troppo esagerato. La gomma è setosa, piacevole al tatto, di un invitante colore fucsia.
Cosa sto facendo? Mi sento di compiere una specie di tradimento. Come posso sbirciare tra le cose private della mia compagna, senza il suo permesso?
Chiudo il cassetto, cerco di non pensarci. Forse è meglio che mi faccia una doccia, poiché sento che la mia gradazione di sudore sia giunta al limite. Mi scopro particolarmente sensibile al petto e nell’interno coscia mentre rimuovo i vestiti. Rimugino ancora un po’. Sempre nudo, ancora sporco, mi dirigo di nuovo in stanza da letto e apro una seconda volta il cassetto. La decisione è presa, ormai.
Apro l’acqua, aspettando che riscaldi a temperatura esatta. Nel frattempo, ammiro la forma di quell’oggetto dal design unico. Sento una flebile eccitazione farsi strada tra le mie cosce, impossessarsi della punta del mio sesso, che lentamente sento scalpitare. Quasi in preda a uno stato onirico, accarezzo quel tubo artisticamente rilegato, la cui sommità è rigonfia, ovalare, smussa e invitante.
Accendo il giocattolo. Lui risponde con un colpo vibrante, segno che è carico. Ok, cosa faccio?
Magari potrei limitarmi a carezzarlo, sotto l’acqua, per tenermi compagnia.
Oppure, potrei mimare il gesto di un atto masturbatorio. Quanti mondi si aprono di fronte a un uomo con in mano un vibratore? Quante domande può porsi un uomo come me di fronte a quel simbolo fallico, tenuto in mano con riverenza?
Sono diventato un totipotente. La sessualità inizia a perdere qualsiasi sfaccettatura, qualsiasi contrasto. Esiste solo il principio di piacere e credo sia questo l’unico scopo di questo mio codardo esperimento.
Codardo perché all’oscuro della mia donna. Esperimento perché sfido la mia eccitabilità, scoprendone nuove sfumature. Mi aiuterà forse a smettere di pensare.
Mentre vago con la fantasia, chiudo gli occhi e bacio quell’oggetto con dolcezza, quasi salutandolo. Sento la sua vibrazione solleticarmi le labbra, così apro le fauci delicatamente per accoglierlo. Mi rendo conto che mimare il pompino è una esperienza interessante. Penso di sapere cosa da piacere a un uomo, essendo imprigionato io stesso in uno di essi. Credo inoltre di sapere perfettamente cosa possa dare piacere a un uomo etero, poiché penso di averne interpretato il ruolo per buona parte della mia vita e pretendo ancora di esserlo. Per cui, non sto davvero immaginando di succhiare un cazzo di qualcun altro. Piuttosto, è più come se stessi impersonificando qualcuno capace di succhiarmelo in modo ideale (maschio o femmina che sia). Mentre svolgo questo esercizio teatrale, rivolgo i miei occhi verso l’alto. L’unico oggetto che incrocia il mio sguardo è il doccino che spruzza acqua calda. Mi faccio bastare la sua presenza e immagino quindi di fargli un pompino, come se egli fossi me stesso e io fuori di me, intorno a me.
“Non puoi amare gli altri, se non ami te stesso”. In parte è vero.
Vado su e giù con la mano sinistra, mentre la destra tiene fermo l’asta fucsia, senza smettere di fissare il doccino che sono sicuro stia godendo come un pazzo. Tiro fuori la lingua e la passo sulla punta di quel cazzo di gomma, aspettando una qualche reazione da parte del mio immaginario partner. Egli sembra rispondere con un flusso d’acqua ancora più caldo.
Ehi, frena stallone! Non ho ancora finito. Tengo la bocca aperta, mentre continuo a segarlo e guardarlo dritto negli occhi (se mai avesse avuto degli occhi per ammirare quelle mie smorfie oscene). Sono sicuro che se avesse potuto mi avrebbe sputato direttamente nell’ugola. Oppure, avrebbe fatto altro. Mi lascio affogare dal flusso d’acqua, mentre con la mano libera inizio a masturbarmi, sorprendendomi del turgore che il mio sesso è riuscito a raggiungere. Robe che non sentivo né sperimentavo da parecchio tempo.
A questo punto perché privarsi? Direziono il vibratore verso le palle, poggiandovi sopra le orecchie del coniglietto. La sensazione è così piacevole che ho quasi timore di venire troppo presto. Rallento e riprendo fiato.
Ok, sono eccitato. È chiaro. Sfido i limiti imposti dalla mia stessa autorità morale, travalicando qualsiasi preconcetto. Adoro navigare nel mare della fluidità sessuale, senza etichette, senza ruoli. Godo nell’immaginarmi lì, mentre un vibratore stimola le mie palle e mi porta all’orgasmo, immedesimandomi in un avido scopatore di doccini, mentre ricevo la sua calda acqua in faccia.
Il mio amico fucsia prende l’iniziativa e struscia contro di me, sull’addome, lungo lo sterno, attorno ai capezzoli. Mugolo di piacere per il piacere di mugolare. Recito in una commedia in cui lo spettatore e l’attore coincidono. Fingo di essere ciò che sono davvero. Mi nascondo spogliandomi. Accosto il glande finto al glande vero, per compararne le dimensioni e godere delle microonde sussultorie dell’aggeggino elettrico. Vince il fucsia anche se il mio cappellaccio è così turgido da essere diventato ancora più violaceo. Me ne compiaccio. Vorrei che Ivana lo ammirasse inorgoglita.
Ho bisogno di più. Lo sposto sul perineo, finché non lo avverto poggiarsi sulla brioche vuota in mezzo alle mie natiche, opportunamente divaricate.
Chiudo gli occhi. So che non è facile. Eppure, sento di averne necessità. Il cazzo è talmente turgido da farmi male, desidero essere posseduto (o possedere – punti di vista) da quell’ordigno fancy al sapore di gomma da cancellare dei banchi di quinto ginnasio.
Mi accovaccio, permettendo alla brioche di diventare ciambella, quindi anello, poi toroide, infine sfintere. Mi rilasso e aspetto che la pressione faccia il resto.
Essa non tarda ad arrivare, per cui godo di ogni micro-istante. Lascio che la forza impressa dalla gomma vinca e divarichi la carne rigida, finché essa non decide di esibire bandiera bianca, spalancare le porte e lasciare entrare il nuovo conquistatore, farsi strada lentamente chiedendo permesso.
Spalanco gli occhi, guardando la doccia. Le chiedo “Come hai potuto? Almeno Fai piano!” ma il doccino non risponde, perché è uno stronzo bastardo impietoso. Mi sta inculando senza fiatare e io sto per lasciarglielo fare, senza potere. Anzi, continuo a farmi inondare d’acqua calda sulla testa, dominato dalla potenza del flusso, mentre il fucsia si fa largo negli anfratti più profondi della mia persona, facendo evaporare decenni di identità di genere come gocce d’olio sulla griglia cocente. Chissà se Ivana apprezzerebbe una scena del genere.
Avverto un dolore inatteso, forse ho esagerato. Non posso tuttavia cedere proprio adesso. Devo indugiare. Inforco il mio membro, ormai quasi ignorato, stimolandolo per controbattere. Sento la mia prostata contrarsi, segno che è giunta la fine. Il fucsia non solo ha vinto la mia volontà, ma ha anche preso possesso della mia coscienza.
Ivana ti amo. Tuttavia, credo in questo momento di amare molto di più il tuo amico fucsia. Potrei vivere una vita intera insieme, a patto che tu porti con te questo piccolo e prezioso sacro graal. Vorrei che tu mi conoscessi per quello che sono adesso, dentro la doccia, osceno e pornografico, libero da qualsiasi catena sociale auto-imposta.
Vorrei che mi amassi come il mio culo ama questo piccolo bastardo fluorescente.
Se non avete mai sborrato mentre avevate qualcosa su per il culo, non saprete mai cosa significa davvero sborrare.
E’ un plotone di esecuzione al contrario: Sei contemporaneamente il boia e il condannato. Spari le cartucce che ti prosciugano, infondendo la vita e succhiandola lontano da te allo stesso tempo. Un ultimo sguardo al doccino, mio inconfessabile amante, prima di scomparire nel buio del piacere vuoto, perpetuo. Le gambe tremano, il vibratore schizza fuori, le ultime contrazioni prima di svenire.
Non so da quanto tempo sto in questa posizione, rannicchiato sul piatto doccia, con l’acqua ormai tiepida che scorre ineluttabile e mi bagna. È strano sentire il bisogno di farsi una doccia mentre si è dentro la doccia.
È avvenuto l’Armageddon della mia coscienza, finalmente libera, deflagrata e annichilita. Soltanto adesso, mi rendo conto dell'importanza del vuoto.
Un pensiero, tuttavia, è sopravvissuto: “Ricorda di ritirare il piumone.”
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