Inner Circle, Outer Circle

di
genere
sentimentali

Molti anni fa, in pieno periodo universitario, la mia vita era scandita al ritmo di gin tonic, festini in casa, esami buttati nel cesso e scopate ignoranti con studentesse erasmus, rimorchiate con un inglese sdentato quasi onomatopeico e una conformazione fisica post-agonistica, dove per post-agonistica si intende una residuale massa muscolare derivante dagli anni di nuoto, cui sono seguiti anni di sciatteria e sedentarietà. Piacevo per lo più alle donne che si chiamassero Giovanna, con varianti linguistiche derivanti dal loro paese d’origine. No: non è un semplice caso fortuito: se sentivo il nome Giovanna, in qualsiasi declinazione geografica, mi veniva irrimediabilmente duro all’istante. Andava così, a vent’anni.

Tuttavia, una Giovanna specifica di quel florido periodo fu capace di infliggermi la più grossa delusione della mia vita (tutt’ora classificata al secondo posto, poiché al primo posto rimane saldo “me stesso”). Per questo motivo, le alternative che mi si presentavano davanti erano due: cessare in modo ignobile la mia esistenza, evitando così che le cose potessero peggiorare ulteriormente, oppure perseverare fingendo di nutrire ancora speranza per il futuro.
In maniera del tutto irrazionale e rinnegando i valori stessi con cui ero cresciuto – ovvero, la totale intolleranza nei confronti della frustrazione - optai per la seconda alternativa e proseguii quindi il mio cammino a oltranza, trascinandomi tra seghe, alcol e film impegnati.
Per cercare di risollevarmi, mi avvicinai a un gruppo studentesco che organizzava feste, momenti di aggregazione sociale ed eventi formativi su varie tematiche. Mi dissero che ero bravo nello spicciare faccende organizzative per cui mi proposero di partecipare a uno di questi eventi che mettesse in risalto soft skills quali leadership, comunicazione, management, etc.
Questi eventi erano caratterizzati da alcuni piccoli giochi, molto particolari, finalizzati all’approfondimento del proprio mondo interiore. Ve ne racconterò uno.

Alcuni ragazzi facevano da moderatore: Spiegavano le regole del gioco e posizionavano i partecipanti nello spazio affinché il gioco potesse prendere forma. Consegnarono a ognuno di noi (eravamo una ventina di persone) una benda per gli occhi. In quel gioco, la vista non era contemplata.
La struttura prevedeva due cerchi concentrici: dieci persone costituivano il cerchio interno (inner circle) e rivolgevano il volto verso l’esterno. Le altre dieci persone costituivano il cerchio esterno (outer circle) e rivolgevano, di conseguenza, il viso verso l’interno.

Una moderatrice suggerì di rilassarci, diede istruzioni su come liberare la mente da qualsiasi fastidio o perturbazione. Dopodiché, fummo invitati a tendere le mani di fronte a noi e raggiungere le mani della persona che avevamo di fronte. Inner circle e outer circle erano in questo modo collegati. Una musica rilassante accompagnava le nostre attività.

«Senza proferire parola, voglio che proviate a comunicare attraverso il tocco le emozioni che man mano io vi enuncerò.»
Sembrava divertente. Ad alcuni potrebbe apparire schifoso toccare mani diverse, alcune sudaticce, altre fredde, altre ancora troppo ossute. Io invece trovavo quella situazione piuttosto piacevole, complice il fatto di non vedere la persona che avevo davanti (poteva essere donna o uomo).

«Tutti pronti? Bene, cominciamo: La prima emozione che vi chiedo di comunicare è “Amicizia”.»
Fu facile, per me. Strinsi la mano della persona che avevo davanti come si fa quando ci si incontra per strada. Dato che non era concesso parlare, insistetti qualche secondo in più a shakerare la mano che stavo toccando, come a suggerire una intesa, una alleanza vera e sincera. La persona di fronte a me fece lo stesso. Era davvero amicizia! Non credevo che il messaggio potesse passare in modo così efficiente da una mano all’altra.

«Ok. Ora chiedo a tutti voi dell’outer circle di fare un passo alla vostra destra.»
Io, che mi trovavo nell’inner circle, rimasi fermo. Sentivo alcuni mormorii e dei goffi movimenti nelle vicinanze. Adesso, di fronte a me avrei avuto un’altra persona.

«”Paura”.»
Uhh. Questa era tosta. Allungai le braccia verso di me, ma non trovai nessuna mano. Rimasi stranito. Forse c’era stato uno sfasamento? Invece nessun errore. Timidamente, il/la partecipante di fronte a me fece la sua comparsa, toccando la punta delle mie dita con sospetto. Era intimorita! Lo capii al primo istante. Allora, cercai di fare lo stesso. Provai a irrigidirmi, per cercare di trasmettere il timore del tocco. Fu strano, sembrava che avessimo davvero paura di toccarci, di esplorare l’altro. Mi sentii solo. Mi resi conto che non era una sensazione isolata, poiché il mormorio degli altri diventò nervoso, assumendo una tempra diversa.

«Bene. L’outer circle può fare adesso un altro passo verso destra.»
Le mani di colui/colei che si trovava di fronte a me si staccarono di botto, senza alcun commiato. Ci rimasi quasi male. Adesso, avevo una nuova persona davanti.

«”Tristezza”.»
Qui fu peggio. Incontrammo le nostre mani e provammo a consolarci. Non so per cosa dovessimo consolarci, eppure mi sentii improvvisamente triste. Le mani che stavo toccando erano delicate, sommesse, un po’ passive. Io provavo a scuoterle ma mi rendevo conto che erano angosciate. Per cui, cercai di trasmettere anche io quella sensazione. Finimmo per tenerci per mano, immobili, come cadaveri.
Altro giro, altra giostra.

«”Gioia”»
Le mani che avevo di fronte a me erano sicuramente di un uomo. Mi stringeva le dita con vigore, mi faceva fare i saltelli. Incrociava le sue dita in modi acrobatici. Era euforico. Anche io ero euforico! Sembrava stessimo giocando a imitare i gesti in codice delle crew di strada, quelle che si salutano dicendo “yo, brotha!” e altre cose così. Fu uno spasso. Entrammo subito in sintonia.

«”Rabbia”.»
Di nuovo, le mani che avevo di fronte erano sicuramente di un uomo. La peluria nell’avambraccio era inconfondibile. Per un attimo, mi convinsi che avrebbe potuto farmi male. Anche io ero piuttosto incazzato. Strinsi il suo dito mignolo con forza. Lui ribattè con un pizzicotto sul dorso dell’altra mano. Eravamo rigidi e aggressivi. Fu un duello corpo a corpo.

«”Passione”»
A questo punto, lo scenario cambiò ancora una volta. Di fronte a me c’era quasi sicuramente una donna, perché il contatto con la pelle era diverso e potevo saggiarne le unghia lunghe e curate. Afferrai quelle mani, che giudicai morbide e setose, le manipolai con cura, esplorando millimetro dopo millimetro ogni polpastrello, insinuandomi in mezzo alle sue dita, stimolandole il polso, risalendo verso le braccia. Lei ricambiava stringendomi forte, incrociando le sue dita alle mie, facendo combaciare i palmi delle mani. Mi accoglieva stendendo la sua mano sotto la mia, raggiungendo il gomito. Ero eccitato e coinvolto. Riuscivo a sentire che lei lo fosse altrettanto. Fu bellissimo e inusuale. Nessun mormorio. Eravamo ormai tutti presi, conquistati. Volevo giacere insieme a lei, chiunque ella fosse, avrei voluto esplorare ogni parte del suo corpo. Avrei fatto sesso con quelle mani per tutto il giorno. Avrei avuto voglia di leccarle le nocche, avrei desiderato ardentemente che quelle mani si posassero sul mio viso, o magari si stringessero attorno alle mie palle. Sognavo il suo dito medio che si faceva strada fino alla prostata vincendo le asperità del mio ano; immaginavo di venire solo con le sue manipolazioni. L’erezione fu potente, la sentii vibrare e intercedere, come se desiderasse anche lei di più.
Sarebbe potuto durare una infinità, invece l’idillio si interruppe dopo pochissimo.

«Amore.»
Cosa significava amore? Quello che avevamo sperimentato prima era già “amore”. Quindi, mi sembrava quantomeno strano ripetere quell’esperienza. Eppure, di fronte a me avevo un’altra persona, ancora una volta senza sapere se fosse maschio o femmina. Cosa sarebbe cambiato?
Quando toccai le mani di fronte a me, rimasi paralizzato. Quella era Giovanna.
Attenzione! Le mani che stavo toccando erano verosimilmente quelle di un giovane ragazzo ben curato o di una bella ragazza, ma certamente non potevano essere le mani di Giovanna.
Eppure, nella mia testa erano le sue mani, che mi abbracciavano, stringevano con un moto di gratitudine e di complicità. Mi sentivo protetto. Non so se stessi riuscendo a trasmettere “amore” con le mie mani. Forse si, forse no. Quello che era certo è che io, in quel momento, ero su un altro pianeta. Un mondo dove l’amore coincideva con la vita stessa. Integrato con le armonie dell’universo e i suoi molteplici significati.
Mi misi a piangere. Non ressi più l’emozione. Traboccavo di commozione. Le mani della persona di fronte a me mi strinsero ancora più forte, percependo il mio stato emotivo. Mi abbandonai a esse, come se fossero l’unica cosa esistente al mondo. Nel mio buio fatto di delusione e rancore oltre che di occhi bendati, intravedevo una luce. La stessa luce che, malinconicamente, sembrava quasi impossibile da raggiungere.

Prima che il gioco finisse, la moderatrice ci chiese di tenere le bende su ancora per qualche momento, in modo da poterci ridistribuire in ordine random nella stanza e non farci dunque capire quali mani avessimo toccato.
Quando fummo tutti nuovamente seduti, togliemmo le bende dagli occhi. Eravamo quasi tutti con gli occhi lucidi.

djhop3128@hnbjm.dpn
scritto il
2024-07-17
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