Sospesa su un filo tra due rocce scoscese
di
Jan Zarik
genere
tradimenti
Gli alberi a distanza regolare percorrono rapidi il viale di fianco a me, mentre fisso con scarsa partecipazione lo sguardo attraverso il finestrino dell’auto. Dall’altro lato, il mio compagno alla guida addenta nervosamente le unghie. Chissà come mai sta andando così lento nonostante lo abbia pregato di fare presto.
«Ti ricordi di andare a ritirare il piumone in lavanderia?» gli domando per provare indirettamente a mettere ulteriore prescia, una tecnica già sperimentata.
«Certo.» quel tono di voce tradisce abbastanza rapidamente la sua dimenticanza. Lui è fatto così: di solito giudico la sua svampitezza come una leggerezza d’animo e me ne conforto. In altre occasioni, invece, riesce soltanto a darmi sui nervi. Questa volta sono nervosa.
Arrivati in stazione, scendo rapidamente dall’auto. Mi rendo conto di essere rimasta fin troppo mutacica, per cui cerco di rimediare, dandogli un bacio. «Fammi in bocca al lupo!» dico, allontanandomi.
«In bocca al lupo!»
«Ti amo.»
«Anche io.»
«Il piumone…»
«Cristo santo, Ivana. Lo so!»
«Scusa. Ciao, ti scrivo quando arrivo!»
Nel momento stesso in cui prendo posto sul vagone, chiudo gli occhi e sospiro. Cerco di sincronizzare in pochi secondi luogo, tempo, direzione e programma, aspettando che le porte dei vagoni si richiudano e il treno prenda velocità. Raggiungo il cellulare e guardo con rapidità gli ultimi messaggi.
Sono ansiosa. Riconosco di esserlo più del solito, ma sono sicura che la sensazione si placherà non appena supererò il Po, lasciandomelo alle spalle, prima di reincontrarlo nuovamente al termine della corsa, in corrispondenza della sua sorgente. Il mio compagno sa quanto questo viaggio a Torino sia importante per me. Tuttavia, credo e spero non sappia i motivi per cui ho così alte aspettative riguardo questa gita.
La versione ufficiale – peraltro vera – prevede che io partecipi a un colloquio di lavoro per una azienda vinicola come addetta marketing. Non è il primo colloquio e probabilmente non sarà l’ultimo. Si tratta di incontri impossibili da svolgere on-line, poiché esiste tutta una parte organolettica di degustazione e messa alla prova dei prodotti dell’azienda, al fine di ottimizzare target, strategie di vendita e di pubblicità. Inoltre, è l’unico modo per conoscere le realtà in cui potrei andare a lavorare. È un settore difficile che richiede molti compromessi. Il mio compagno riesce a starmi dietro dove può ma capisco che non sia semplice farlo tutti i giorni.
Ultimamente lo trovo più distratto del solito. Forse, agisce di riflesso al mio stato d’animo in continua sollecitazione. La sensazione di non poter ancora trovare un impiego fisso mi rende tesa, suscettibile, facilmente irascibile, ansiosa e anche un po’ distaccata. Difficile starmi dietro, in questi periodi.
Tuttavia, esiste anche una versione ufficiosa che non può assolutamente incontrare il parere del mio ragazzo.
È qualcosa che posso tenere soltanto per me. Si tratta di uno sbaglio, forse il primo in cui mi sono ritrovata senza una garanzia di assoluto controllo.
Già, il controllo.
Credo di averlo totalmente perso, stavolta.
«Sei partita?»
«Da pochi minuti.»
«Bene. Tu come stai?»
«Un po’ tesa.»
«Non devi esserlo. Ricorda quel che ci siamo detti.»
«Si vive insieme, si muore soli.»
«Già.»
Conosco quella frase, perché si tratta di una citazione di uno dei miei serial preferiti. Tuttavia, quando lui me la disse un paio di mesi fa, fece scattare dentro di me una sensazione nuova. Mi sono sentita capita, confortata in modo diverso da come ero abituata a essere.
«Lo hai portato con te?»
«Certo.»
«Cosa ci siamo detti?»
«Ti aggiorno non appena supero il fiume.»
«Molto bene. A tra poco. Non vedo l’ora!»
Segue emoji del cuore. Strano. Non avevo mai ricevuto emoji romantiche da parte sua. Evidentemente è eccitato e ansioso tanto quanto lo sono io.
Vedo il fiume Po passare sotto di me, ingrossato, burrascoso come il mio animo.
Da questo momento, nell’istante in cui il confine geografico va a coincidere con il confine mentale, io smetto di essere Ivana, convivente con un ragazzo da circa tre anni, in cerca di lavoro, per diventare Alice, donna sposata di tre anni più grande rispetto a Ivana, intenta a raggiungere per la prima volta il suo amante.
Bello, eh? Amante.
Non ho mai usato questa parola, prima d’ora. Mi suona estremamente strana. Non ho mai conosciuto l’uomo che mi attende all’arrivo. Non so che volto abbia. Saprei riconoscere il suo intimo membro vergato, nodoso e pieno di vene tra centinaia di cazzi random. Seppure non l’abbia mai tenuto tra le mani, soppesato né accarezzato, potrei benissimo descriverne consistenza, peso e ruvidezza.
Ho passato settimane a immaginarmi il suo sapore, il suo odore, la sua aura. Ho intessuto interi dialoghi con me stessa per sorteggiare le parole giuste che potessero ingrossarlo a dovere durante le nostre focose conversazioni anonime. All’inizio embrava un compito facile, sembrava che bastasse la mia sola presenza, qualche foto di nudo anche parziale, per ottenere il suo profilo prostrato ai miei piedi (virtuali), impegnato a riempire ogni singolo pixel della mia sporca coscienza. Poi il gioco si è evoluto. La sfida cresceva in difficoltà, come un videogioco ben costruito.
Il suo pene ha perfino un nome: “Il mulo”.
Quando chiesi perché avesse scelto un nome così buffo, egli mi spiegò che si trattava del soprannome che Asimov aveva dato a un essere dotato di abilità sovraumane nel suo “ciclo della fondazione”.
Non avevo colto la citazione poiché non conoscevo né l’autore né il suo libro. Pensavo fosse un po’ presuntuoso da parte sua e quindi mi feci una idea negativa, all’inizio. Tuttavia, mi ripromisi di leggere il romanzo e devo dire che mi ha affascinata. L’idea che il suo cazzo potesse rievocare le abilità di quel personaggio di Asimov influì pesantemente sul mio giudizio iniziale. Pensavo che volesse rispecchiare una potenza virile, quasi becera, finalizzata al godimento e alla sopraffazione. Invece, nulla aveva a che fare con la prestanza fisica, bensì con quella intellettiva. Le vergate senza colpo. La statuaria solennità del dialogo cerebrale. La sua imprevedibilità.
Il proprietario del mulo, invece, si chiama Tom.
Io e Tom chattiamo ormai costantemente da quasi tre mesi. È stato un gruppo telegram a unirci, quasi per caso.
Ci siamo scambiati alcune battute all’interno di un topic sulla cura delle piante casalinghe.
A Tom serviva qualcuno che spiegasse come far sopravvivere il basilico. Io mi offrii di aiutare la sua piantina dispensando consigli da pollice verde. Non mi sarei mai immaginata che al posto di quel basilico avrebbe annaffiato me e le mie radici inaridite con i suoi modi dolci e gentili, le sue foto delle foglie di basilico attraverso le quali potevo scorgere le mani robuste, ben curate, con le unghie levigate e le nocche a spirale.
«Mi chiedo come tu faccia a non distruggere le foglie con le mani che ti ritrovi.» pensai tra me e me, indecisa se inviare quel commento fino all’ultimo.
«Perché, non le trovi adatte?»
«Le trovo mastodontiche, per cui le tesi sono due: O il tuo basilico è davvero piccolo, oppure sei un abile artigiano che sa come tenere in mano robe delicate.»
Quel mio commento cambiò tutto. Cambiò per sempre il nostro approccio. Iniziai a mostrare anche io le mani, decisamente più modeste e affusolate, da pianista svogliata, mentre indicavo le foglie di uno spathiphylum ingiallito. Dalle mani passammo a tutto il resto nel giro di pochi scambi, totalmente all’oscuro del mio ragazzo.
“Caspita, è arrivato il momento.”
Mi guardo intorno e controllo che non ci sia nessuno nelle vicinanze. Un vecchio sta seduto a controllare il cellulare. Non mi avrebbe vista, probabilmente, tuttavia meglio non rischiare.
Mi fiondo in bagno, chiudo la porta alle mie spalle e frugo nella borsa, con trepidazione, fino a riconoscere l’oggetto tra le mani.
A causa dell’ansia, stavo rischiando di scordarlo a casa. Per giustificare la mia dimenticanza, ho persino convinto il mio compagno a cercare in giro una spazzola, al fine di distrarlo mentre mi occupavo di aprire il cassetto dei giochi e agguantare il “coso” in modo rapido, senza farmi vedere.
Estraggo dunque una specie di uovo rosa, dalle dimensioni contenute. Clicco sopra un pulsante a rilievo e attendo che la lucetta blu ne indichi l’accensione. Mi bagno due dita di saliva e cospargo la punta dell’uovo, abbasso i pantaloni e le mutandine e lo poggio sulle grandi labbra.
Avverto una piacevole pressione che mi porta a sospirare. Premo a sufficienza fino a che non sento una specie di scatto. L’ovetto è entrato correttamente.
All’inizio avverto una specie di fastidio dettato dal corpo estraneo ma dopo un po’ si quieta.
«Fatto!» invio il messaggio.
Attendo qualche minuto, nel frattempo torno a sedere al mio posto. La notifica di nuovo messaggio giunge quasi istantaneamente.
«Bene, tesoro. Ora puoi rilassarti.»
Il viaggio prosegue, provo a distrarmi guardando il paesaggio. Forse dovrei ripassare qualcosa per il concorso, ma so in anticipo che non troverei la concentrazione giusta.
Il nostro gioco è particolare.
Io dovrei indossare l’ovetto, comprato per l’occasione. Lui dovrebbe azionarlo a suo piacimento, da remoto. È il nostro patto. Ci siamo assicurati che avremmo rispettato queste poche e semplici regole.
Il viaggio procede tranquillo. Ogni tanto Tom lancia un segnale per stuzzicarmi e io gradisco, stringendo le cosce per non lasciarmi travolgere. A un certo punto del viaggio, siede accanto a me una coppia di cinquantenni indiani, trasportando un paio di grosse valigie. Non fanno caso alle mie smorfie occasionali durante i brevi stimoli vibratori. Ho passato le successive due ore a penare come una disgraziata, obbligata a mantenere un decoro pur desiderando di sbrodolare in un piacere estatico senza fine.
Il BnB che ho affittato si trova a pochissima distanza da Porta Nuova. Per la sede di concorso, invece, dovrò prendere due autobus. Appena giunta in stazione, chiamo il mio ragazzo per informarlo che sono arrivata sana e salva, evitando accuratamente aggettivi che riconducessero a vibrazione, solletico, stanchezza e rigidità.
Un pensiero soltanto attanaglia la mia testa: L’incontro con Tom.
Il nerboruto, carismatico e ben dotato Tom, giardiniere hobbista con un talento eccezionale per la cura delle creature fragili (ad esclusione del basilico).
Sistemo il trolley nella mia stanza, estraggo il PC con cui dovrei ripassare alcuni argomenti e lo poggio sulla scrivania. Indosso un vestito semplice, nero, piuttosto aderente. Ho scelto un punto luce dai riflessi azzurro per impreziosire la base del mio collo e degli orecchini pendenti a spirale.
Tengo i capelli sciolti, cascanti sulle spalle. Stringo le labbra per distribuire al meglio il rossetto bordeaux. Scendo per strada, in mano tengo solo una borsetta e il telefono. Dentro di me, sempre l’ovetto. Sto per raggiungere il ristorante in cui ci siamo dati appuntamento. L’ansia inizia a montare.
Ripenso al fatto che sia tutto una grande cazzata. Perché questa improvvisa indecisione, a pochi metri dal traguardo? Sono mesi che pianifico, tengo nascoste le mie conversazioni, scambio foto osé, regolo la mia emotività tutta in funzione di questo incontro. Non posso provare il dubbio proprio adesso.
Lui è lì, che mi aspetta, con le sue belle mani possenti e ruvide, i polpastrelli duri e carnosi. Me lo immagino coi capelli lievemente mossi, la barba un po’ incolta, un viso squadrato e gli occhi color nocciola.
Mi trovo di fronte alla vetrata del locale, guardo da fuori timidamente i tavoli all’interno. Un cameriere mi invita a entrare ma io tentenno, sorridendo imbarazzata. Sono alla ricerca di uomini soli seduti al tavolo. Un attimo prima di focalizzare lo sguardo ricevo un messaggio.
Si tratta del mio compagno. Lo leggerò dopo, non posso distrarmi.
E se fosse un messaggio importante?
Se fosse successo qualcosa?
Non è da lui scrivermi all’ora di cena, specie dopo che ci siamo già sentiti poco prima. Perché proprio adesso?
Nel frattempo, vedo una sagoma di spalle, indossa una camicia bianca di lino. Sta seduto da solo, sembra ingannare il tempo col cellulare.
L’ovetto inizia a muoversi. Rimango cristallizzata, a pochi centimetri dall’ingresso.
Do uno sguardo al cellulare e leggo.
«C’ho riflettuto. Non ti ho mai detto abbastanza quanto io sia orgoglioso di te, di quello che fai, dei sacrifici che compi ogni giorno, della determinazione con cui ti tuffi in nuove sfide. In confronto, io sono un povero scapestrato, sempre stralunato. Sappi che se anche questa volta non dovesse andare in porto, ce ne saranno molte altre. Io, per quanto possibile, ti starò vicino. Vorrei dirti che sto qui a proteggerti, a supportarti e a darti amore, ma più lo dico e più penso a quanto sia vero il contrario. Sono io a ricevere più di quanto finora sono riuscito a dare. Perdona questo breve flusso di coscienza, ma sono riuscito a liberare la testa di un paio di pensieri, per cui ho voluto scriverti prima di perdere ancora una volta le parole giuste da dire. Ti amo. Riposati, domani andrà alla grande.
PS: Ho scordato di ritirare il piumone. Non uccidermi.»
Rimango circa un minuto a guardare il telefono, prima di far gocciolare una lacrima sullo schermo. Certo che è proprio da stronzi calare un poker d’assi proprio adesso. Non è giusto. Non sarebbe dovuto andare così. Ho il cuore che scoppia e sento la testa leggera, pronta a volar via.
L’ovetto ha smesso di vibrare. Do un ultimo sguardo al tavolo del ristorante.
Rimango sul ciglio, sospesa su un filo tra due rocce scoscese.
Il mare tumultuoso e il vento a lambire la mia pelle nuda.
(Questo racconto si collega a un altro dal titolo “L’importanza del vuoto”. Lo trovate in lista tra i precedenti.)
«Ti ricordi di andare a ritirare il piumone in lavanderia?» gli domando per provare indirettamente a mettere ulteriore prescia, una tecnica già sperimentata.
«Certo.» quel tono di voce tradisce abbastanza rapidamente la sua dimenticanza. Lui è fatto così: di solito giudico la sua svampitezza come una leggerezza d’animo e me ne conforto. In altre occasioni, invece, riesce soltanto a darmi sui nervi. Questa volta sono nervosa.
Arrivati in stazione, scendo rapidamente dall’auto. Mi rendo conto di essere rimasta fin troppo mutacica, per cui cerco di rimediare, dandogli un bacio. «Fammi in bocca al lupo!» dico, allontanandomi.
«In bocca al lupo!»
«Ti amo.»
«Anche io.»
«Il piumone…»
«Cristo santo, Ivana. Lo so!»
«Scusa. Ciao, ti scrivo quando arrivo!»
Nel momento stesso in cui prendo posto sul vagone, chiudo gli occhi e sospiro. Cerco di sincronizzare in pochi secondi luogo, tempo, direzione e programma, aspettando che le porte dei vagoni si richiudano e il treno prenda velocità. Raggiungo il cellulare e guardo con rapidità gli ultimi messaggi.
Sono ansiosa. Riconosco di esserlo più del solito, ma sono sicura che la sensazione si placherà non appena supererò il Po, lasciandomelo alle spalle, prima di reincontrarlo nuovamente al termine della corsa, in corrispondenza della sua sorgente. Il mio compagno sa quanto questo viaggio a Torino sia importante per me. Tuttavia, credo e spero non sappia i motivi per cui ho così alte aspettative riguardo questa gita.
La versione ufficiale – peraltro vera – prevede che io partecipi a un colloquio di lavoro per una azienda vinicola come addetta marketing. Non è il primo colloquio e probabilmente non sarà l’ultimo. Si tratta di incontri impossibili da svolgere on-line, poiché esiste tutta una parte organolettica di degustazione e messa alla prova dei prodotti dell’azienda, al fine di ottimizzare target, strategie di vendita e di pubblicità. Inoltre, è l’unico modo per conoscere le realtà in cui potrei andare a lavorare. È un settore difficile che richiede molti compromessi. Il mio compagno riesce a starmi dietro dove può ma capisco che non sia semplice farlo tutti i giorni.
Ultimamente lo trovo più distratto del solito. Forse, agisce di riflesso al mio stato d’animo in continua sollecitazione. La sensazione di non poter ancora trovare un impiego fisso mi rende tesa, suscettibile, facilmente irascibile, ansiosa e anche un po’ distaccata. Difficile starmi dietro, in questi periodi.
Tuttavia, esiste anche una versione ufficiosa che non può assolutamente incontrare il parere del mio ragazzo.
È qualcosa che posso tenere soltanto per me. Si tratta di uno sbaglio, forse il primo in cui mi sono ritrovata senza una garanzia di assoluto controllo.
Già, il controllo.
Credo di averlo totalmente perso, stavolta.
«Sei partita?»
«Da pochi minuti.»
«Bene. Tu come stai?»
«Un po’ tesa.»
«Non devi esserlo. Ricorda quel che ci siamo detti.»
«Si vive insieme, si muore soli.»
«Già.»
Conosco quella frase, perché si tratta di una citazione di uno dei miei serial preferiti. Tuttavia, quando lui me la disse un paio di mesi fa, fece scattare dentro di me una sensazione nuova. Mi sono sentita capita, confortata in modo diverso da come ero abituata a essere.
«Lo hai portato con te?»
«Certo.»
«Cosa ci siamo detti?»
«Ti aggiorno non appena supero il fiume.»
«Molto bene. A tra poco. Non vedo l’ora!»
Segue emoji del cuore. Strano. Non avevo mai ricevuto emoji romantiche da parte sua. Evidentemente è eccitato e ansioso tanto quanto lo sono io.
Vedo il fiume Po passare sotto di me, ingrossato, burrascoso come il mio animo.
Da questo momento, nell’istante in cui il confine geografico va a coincidere con il confine mentale, io smetto di essere Ivana, convivente con un ragazzo da circa tre anni, in cerca di lavoro, per diventare Alice, donna sposata di tre anni più grande rispetto a Ivana, intenta a raggiungere per la prima volta il suo amante.
Bello, eh? Amante.
Non ho mai usato questa parola, prima d’ora. Mi suona estremamente strana. Non ho mai conosciuto l’uomo che mi attende all’arrivo. Non so che volto abbia. Saprei riconoscere il suo intimo membro vergato, nodoso e pieno di vene tra centinaia di cazzi random. Seppure non l’abbia mai tenuto tra le mani, soppesato né accarezzato, potrei benissimo descriverne consistenza, peso e ruvidezza.
Ho passato settimane a immaginarmi il suo sapore, il suo odore, la sua aura. Ho intessuto interi dialoghi con me stessa per sorteggiare le parole giuste che potessero ingrossarlo a dovere durante le nostre focose conversazioni anonime. All’inizio embrava un compito facile, sembrava che bastasse la mia sola presenza, qualche foto di nudo anche parziale, per ottenere il suo profilo prostrato ai miei piedi (virtuali), impegnato a riempire ogni singolo pixel della mia sporca coscienza. Poi il gioco si è evoluto. La sfida cresceva in difficoltà, come un videogioco ben costruito.
Il suo pene ha perfino un nome: “Il mulo”.
Quando chiesi perché avesse scelto un nome così buffo, egli mi spiegò che si trattava del soprannome che Asimov aveva dato a un essere dotato di abilità sovraumane nel suo “ciclo della fondazione”.
Non avevo colto la citazione poiché non conoscevo né l’autore né il suo libro. Pensavo fosse un po’ presuntuoso da parte sua e quindi mi feci una idea negativa, all’inizio. Tuttavia, mi ripromisi di leggere il romanzo e devo dire che mi ha affascinata. L’idea che il suo cazzo potesse rievocare le abilità di quel personaggio di Asimov influì pesantemente sul mio giudizio iniziale. Pensavo che volesse rispecchiare una potenza virile, quasi becera, finalizzata al godimento e alla sopraffazione. Invece, nulla aveva a che fare con la prestanza fisica, bensì con quella intellettiva. Le vergate senza colpo. La statuaria solennità del dialogo cerebrale. La sua imprevedibilità.
Il proprietario del mulo, invece, si chiama Tom.
Io e Tom chattiamo ormai costantemente da quasi tre mesi. È stato un gruppo telegram a unirci, quasi per caso.
Ci siamo scambiati alcune battute all’interno di un topic sulla cura delle piante casalinghe.
A Tom serviva qualcuno che spiegasse come far sopravvivere il basilico. Io mi offrii di aiutare la sua piantina dispensando consigli da pollice verde. Non mi sarei mai immaginata che al posto di quel basilico avrebbe annaffiato me e le mie radici inaridite con i suoi modi dolci e gentili, le sue foto delle foglie di basilico attraverso le quali potevo scorgere le mani robuste, ben curate, con le unghie levigate e le nocche a spirale.
«Mi chiedo come tu faccia a non distruggere le foglie con le mani che ti ritrovi.» pensai tra me e me, indecisa se inviare quel commento fino all’ultimo.
«Perché, non le trovi adatte?»
«Le trovo mastodontiche, per cui le tesi sono due: O il tuo basilico è davvero piccolo, oppure sei un abile artigiano che sa come tenere in mano robe delicate.»
Quel mio commento cambiò tutto. Cambiò per sempre il nostro approccio. Iniziai a mostrare anche io le mani, decisamente più modeste e affusolate, da pianista svogliata, mentre indicavo le foglie di uno spathiphylum ingiallito. Dalle mani passammo a tutto il resto nel giro di pochi scambi, totalmente all’oscuro del mio ragazzo.
“Caspita, è arrivato il momento.”
Mi guardo intorno e controllo che non ci sia nessuno nelle vicinanze. Un vecchio sta seduto a controllare il cellulare. Non mi avrebbe vista, probabilmente, tuttavia meglio non rischiare.
Mi fiondo in bagno, chiudo la porta alle mie spalle e frugo nella borsa, con trepidazione, fino a riconoscere l’oggetto tra le mani.
A causa dell’ansia, stavo rischiando di scordarlo a casa. Per giustificare la mia dimenticanza, ho persino convinto il mio compagno a cercare in giro una spazzola, al fine di distrarlo mentre mi occupavo di aprire il cassetto dei giochi e agguantare il “coso” in modo rapido, senza farmi vedere.
Estraggo dunque una specie di uovo rosa, dalle dimensioni contenute. Clicco sopra un pulsante a rilievo e attendo che la lucetta blu ne indichi l’accensione. Mi bagno due dita di saliva e cospargo la punta dell’uovo, abbasso i pantaloni e le mutandine e lo poggio sulle grandi labbra.
Avverto una piacevole pressione che mi porta a sospirare. Premo a sufficienza fino a che non sento una specie di scatto. L’ovetto è entrato correttamente.
All’inizio avverto una specie di fastidio dettato dal corpo estraneo ma dopo un po’ si quieta.
«Fatto!» invio il messaggio.
Attendo qualche minuto, nel frattempo torno a sedere al mio posto. La notifica di nuovo messaggio giunge quasi istantaneamente.
«Bene, tesoro. Ora puoi rilassarti.»
Il viaggio prosegue, provo a distrarmi guardando il paesaggio. Forse dovrei ripassare qualcosa per il concorso, ma so in anticipo che non troverei la concentrazione giusta.
Il nostro gioco è particolare.
Io dovrei indossare l’ovetto, comprato per l’occasione. Lui dovrebbe azionarlo a suo piacimento, da remoto. È il nostro patto. Ci siamo assicurati che avremmo rispettato queste poche e semplici regole.
Il viaggio procede tranquillo. Ogni tanto Tom lancia un segnale per stuzzicarmi e io gradisco, stringendo le cosce per non lasciarmi travolgere. A un certo punto del viaggio, siede accanto a me una coppia di cinquantenni indiani, trasportando un paio di grosse valigie. Non fanno caso alle mie smorfie occasionali durante i brevi stimoli vibratori. Ho passato le successive due ore a penare come una disgraziata, obbligata a mantenere un decoro pur desiderando di sbrodolare in un piacere estatico senza fine.
Il BnB che ho affittato si trova a pochissima distanza da Porta Nuova. Per la sede di concorso, invece, dovrò prendere due autobus. Appena giunta in stazione, chiamo il mio ragazzo per informarlo che sono arrivata sana e salva, evitando accuratamente aggettivi che riconducessero a vibrazione, solletico, stanchezza e rigidità.
Un pensiero soltanto attanaglia la mia testa: L’incontro con Tom.
Il nerboruto, carismatico e ben dotato Tom, giardiniere hobbista con un talento eccezionale per la cura delle creature fragili (ad esclusione del basilico).
Sistemo il trolley nella mia stanza, estraggo il PC con cui dovrei ripassare alcuni argomenti e lo poggio sulla scrivania. Indosso un vestito semplice, nero, piuttosto aderente. Ho scelto un punto luce dai riflessi azzurro per impreziosire la base del mio collo e degli orecchini pendenti a spirale.
Tengo i capelli sciolti, cascanti sulle spalle. Stringo le labbra per distribuire al meglio il rossetto bordeaux. Scendo per strada, in mano tengo solo una borsetta e il telefono. Dentro di me, sempre l’ovetto. Sto per raggiungere il ristorante in cui ci siamo dati appuntamento. L’ansia inizia a montare.
Ripenso al fatto che sia tutto una grande cazzata. Perché questa improvvisa indecisione, a pochi metri dal traguardo? Sono mesi che pianifico, tengo nascoste le mie conversazioni, scambio foto osé, regolo la mia emotività tutta in funzione di questo incontro. Non posso provare il dubbio proprio adesso.
Lui è lì, che mi aspetta, con le sue belle mani possenti e ruvide, i polpastrelli duri e carnosi. Me lo immagino coi capelli lievemente mossi, la barba un po’ incolta, un viso squadrato e gli occhi color nocciola.
Mi trovo di fronte alla vetrata del locale, guardo da fuori timidamente i tavoli all’interno. Un cameriere mi invita a entrare ma io tentenno, sorridendo imbarazzata. Sono alla ricerca di uomini soli seduti al tavolo. Un attimo prima di focalizzare lo sguardo ricevo un messaggio.
Si tratta del mio compagno. Lo leggerò dopo, non posso distrarmi.
E se fosse un messaggio importante?
Se fosse successo qualcosa?
Non è da lui scrivermi all’ora di cena, specie dopo che ci siamo già sentiti poco prima. Perché proprio adesso?
Nel frattempo, vedo una sagoma di spalle, indossa una camicia bianca di lino. Sta seduto da solo, sembra ingannare il tempo col cellulare.
L’ovetto inizia a muoversi. Rimango cristallizzata, a pochi centimetri dall’ingresso.
Do uno sguardo al cellulare e leggo.
«C’ho riflettuto. Non ti ho mai detto abbastanza quanto io sia orgoglioso di te, di quello che fai, dei sacrifici che compi ogni giorno, della determinazione con cui ti tuffi in nuove sfide. In confronto, io sono un povero scapestrato, sempre stralunato. Sappi che se anche questa volta non dovesse andare in porto, ce ne saranno molte altre. Io, per quanto possibile, ti starò vicino. Vorrei dirti che sto qui a proteggerti, a supportarti e a darti amore, ma più lo dico e più penso a quanto sia vero il contrario. Sono io a ricevere più di quanto finora sono riuscito a dare. Perdona questo breve flusso di coscienza, ma sono riuscito a liberare la testa di un paio di pensieri, per cui ho voluto scriverti prima di perdere ancora una volta le parole giuste da dire. Ti amo. Riposati, domani andrà alla grande.
PS: Ho scordato di ritirare il piumone. Non uccidermi.»
Rimango circa un minuto a guardare il telefono, prima di far gocciolare una lacrima sullo schermo. Certo che è proprio da stronzi calare un poker d’assi proprio adesso. Non è giusto. Non sarebbe dovuto andare così. Ho il cuore che scoppia e sento la testa leggera, pronta a volar via.
L’ovetto ha smesso di vibrare. Do un ultimo sguardo al tavolo del ristorante.
Rimango sul ciglio, sospesa su un filo tra due rocce scoscese.
Il mare tumultuoso e il vento a lambire la mia pelle nuda.
(Questo racconto si collega a un altro dal titolo “L’importanza del vuoto”. Lo trovate in lista tra i precedenti.)
7
voti
voti
valutazione
3
3
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
La Casa delle Moscheracconto sucessivo
Pornografia del quotidiano - Vol. 1
Commenti dei lettori al racconto erotico