La Casa delle Mosche

di
genere
pulp

Buio. Luce.
L’assordante fascio di luce bianca mi costringe a strizzare gli occhi con irruenza, impedendomi di mettere a fuoco. Bestemmio d’istinto, ricordando d’un tratto l’incapacità tutta umana di dover perdere tempo ad adattarsi agli ambienti illuminati dopo che si è stati nell’ombra. Gli uomini della caverna di Platone sono stati i primi imprecatori della storia del pensiero filosofico occidentale. Rannicchiati, accovacciati nell’oscurità dei loro putridi anfratti di ignoranza e maldicenza, ammirando come tossici una parete da cui sgorgano immagini distorte ma rassicuranti. Un mondo finto di cui non potevano fare a meno.
D’un tratto, qualcuno deve averli tirati per le catene che tenevano al collo (e di cui ignoravano la presenza, poiché abituati a soffocare) e li ha costretti a mettere il muso fuori, dove il sole accecava e la realtà si mostrava desolante. Una merda inspiegabile fatta di colori bizzarri, temperature estreme, predatori, cupole azzurre pronte a crollare sulle loro teste. Ci credo che imprecassero! Esattamente come sto facendo io, mentre entro nel bagno di casa mia.

Voi a questo punto penserete: sul serio? Hai davvero paragonato il bagno di casa tua al mito della caverna di Platone? Ma no! Era soltanto per dire che poiché avevo già finito i santi da invocare, sono passata alle Idee dell’iperuranio, quelle puttane saccenti a cui il barbuto dalle spalle grosse amante di fanciullini piaceva dedicare le sue seghe, spargendo il seme della conoscenza durante le sue passeggiate peripatetiche sulla testa degli adepti.
All’idea di Platone a cosce aperte mentre esegue un coito, mi sento quasi disgustata e credo di svenire. Tuttavia, potrebbe anche essere l’alcol che ho in corpo a farmi questo effetto.
Mi guardo allo specchio: sembro una disgraziata. Il mascara cola lungo le guance. Devo aver pianto, probabilmente, o forse ho semplicemente bevuto a canna da qualche bottiglia e mi sarò versata tutto in faccia. Sento che le mie guance sono appiccicose. Potrebbe essere whisky, oppure lacrime.
Ma d’altronde, cosa sono le lacrime se non un altro tipo di distillato affumicato, duro da ingoiare?

Mi do un pizzico. Sembra che la sensibilità sia ancora presente. La mia bocca invece è storta, non riesco a tenerla composta. La allargo, mostrando i denti in un sorriso diabolico, dopodiché la spalanco, tirando fuori la lingua.
“Aaaaaaaaaaaaaaaaaaah.”
Faccio il verso come quando si va dal dentista. Roteo la lingua, lambendomi le labbra e grattando il bordo degli incisivi. Tolgo il top nero sudaticcio, rimanendo in reggiseno, un reggiseno bianco panna che sembra latte scaduto, perfetto per contenere le mie piccole tette che tutti mi dicono siano perfette ma che io ho sempre trovato insopportabili. Facevo meglio a rifarmi il seno a quindici anni, epoca in cui i miei avrebbero accontentato qualsiasi mia richiesta.
Soppeso le due piccole coppe con entrambe le mani, guardandomi attraverso il riflesso dello specchio.
Rivolgo a me stessa un paio di smorfie e linguacce, mentre stringo il tessuto tra le mani. È sempre bello sentirsi stringere da qualcosa. Spesso le strizzo per ricordarmi che esistono. Spesso, sono proprio loro a ricordarmi che io esista, quando passo da una strettoia, quando indosso una cintura di sicurezza, una camicetta sintetica o quando vengo schiacciata da un petto villoso.
Emetto un rutto, da brava squallida quale sono. Tuttavia, porto anche una mano delicata davanti la bocca, come farebbero gli aristocratici del 1700. Faccio perfino finta di socchiudere lievemente gli occhi, mimando un manierismo da clown sbronza. Faccio scorrere una mano dietro la schiena, alla ricerca della fibbia che tiene insieme i due bracci del mio intimo. Lo slaccio e lo lascio cadere per terra. Eccole, le vedo: bianche, asimmetriche, dai capezzoli piccoli e lievemente turgidi, circondati da un disco di pelle roseo e sensibile. Li titillo con la punta dell’indice, cercando di provocarmi il solletico. Li sento reattivi.
Passo una mano sulla pancia. La sento morbida, troppo morbida. Lancio un porcone anche stavolta.
Lo faccio sempre, soprattutto quando mi tocco i fianchi. Questa è una storia interessante: una specie di condizionamento pavloviano. Ho notato che a molti uomini piace che io bestemmi mentre si aggrappano ai miei fianchi, perché sono portati a pensare che io sia eccitata di ricevere tutta la loro potenza virile, ma in realtà è solo un modo per mascherare il mio odio nei confronti di quella parte del corpo, fin troppo evidente per l’efficacia con cui riescono ad affondare le loro dita nella mia carne. L’automatismo è diventato talmente forte che lo faccio anche quando son da sola.

Le mie mani scorrono verso il basso, verso le mie cosce. Le guardo con apprensione, alla ricerca di alcuni punti identificativi. Si scorge ancora un piccolo segno lasciato da un coglione con cui mi sono frequentata alcuni mesi fa. Il deficiente teneva gli occhiali indosso mentre cercava di leccarmela, causandomi una ferita lacera nell’interno coscia con il bordo della montatura. L’ho mandato a fanculo all’istante, allontanandolo. Lui, sentendosi colpito nell’orgoglio, per tutta risposta mi ha tirato un ceffone. Poi si è scusato, implorando pietà e dicendo che era stato preda dell’istinto. In quella occasione ho usato il termine “brutto stronzo ritardato del cazzo”. Deve essergli piaciuto, perché ha riportato esattamente le mie parole nelle sue storie di instagram quando ha cercato di sputtanarmi, senza oltretutto pagarmi i diritti d’autore.

Mi giro di spalle, cercando di inquadrare meglio il lato b. Penso sia una delle poche cose venute su bene. Mi conforta sapere di avere un culo sodo, piacevole al tocco. Compensa ciò che ritengo manchevole al piano di sopra.
Per gli uomini è una sorta di altare sacro cui rivolgere molte delle attenzioni.
Il mio sedere può essere considerato la caverna platonica del XXI secolo. Gli uomini tendono a rifugiarvisi e ignorare il resto. Preferiscono affondare la loro carne nel buio del mio sfintere, anziché esplorare l’immenso casino costituito dalla padrona del buco.
Tiro e mollo le natiche come se fossero nacchere, saltello per vederle sobbalzare come budino. I miei seni rimangono drammaticamente fermi.
Questa sono io, alla tenera età di ventisette anni. Una vita devastata alle spalle. Un praticantato infinito di architettura culminato con una promessa di assunzione e che invece mi costringe a rimanere fondamentalmente una precaria. Ho avuto un paio di storie importanti finite male, di cui non mi va di parlare, non mi va di pensare.
Allargo le felle, stringo e succhio il deretano.
Non mi va di parlare, non mi va di pensare.

Aspetto che la vasca si riempita d’acqua calda. Nel frattempo, faccio una rapida pisciatina, guardandomi i piedi smaltati di rosso. Mi asciugo con due strappi di carta igienica e dopodiché mi sposto verso la vasca, entro prima con una gamba e poi con l’altra. È talmente calda che quasi mi ustiono. Lo trovo confortante.
Mi siedo, sentendo che l’acqua si insinua tra le mie cosce impregnando i peli del pube, risalendo su per la pancia fino a toccare la base dei miei seni. Tocco il fondo con il culo e mi lascio cadere di schiena, fino a incastrarmi sul piano inclinato della yakuzi. Distendo le gambe e chiudo gli occhi.
Silenzio. Pace.

A questo punto, cerco il phon con lo sguardo. Lui è lì. Poggiato sul cesto dei panni sporchi, chiaramente attaccato alla presa di corrente. Riesco perfino a leggere il numero di serie: djhop3128@hjnbjm.dpn
È un gesto facile, quasi ovvio. Potrei allungare la mano, afferrarlo e lasciarlo cadere davanti a me, nell’acqua.
Finirebbe tutto all’istante.
Muovo un braccio, forse è giunto il momento…

D’un tratto mi fermo e mi rivolgo a voi che siete dall’altra parte di queste righe impaginate male, urlando “Ehi, brutti stronzi!”
Prendo fiato e continuo, godendomi la vostra espressione perplessa.
“Vecchi porci, maniaci incestuosi, maledette svampite, illusi sognatori e sognatrici. Si, sto parlando con voi! Vi vedo mentre leggete questo ennesimo testo carico di feticci e rimandi sessuali nel buio delle vostre stanze da uno schermo di cellulare o da un laptop vecchio di sette anni, alla ricerca di un impulso carnale, una spinta emotiva o un brivido di passione. Alcuni di voi tengono ancora la minchia in mano, delusi dai toni depressivi di questo raccontino. Pentiti di aver sperato fin troppo nella trama da bad girl, siete pronti a passare oltre, verso lidi più rassicuranti o categorie più facili da digerire.
Insomma, continuate a lasciarvi annegare e folgorare esattamente come stavo per fare io, nella speranza che questa distrazione sia curativa oppure risolutiva. Potrei essere già morta, invece respiro e vi parlo.
Osservatemi mentre mi trasformo in una mosca. Mi sento viva. Mi sento cambiata. Qualcuno mi ha strappato le ali, eppure io volo lo stesso.
Non ho inventato io questa frase. È un brano a cui tengo molto. Se vi va, cercatelo su YouTube.”

Titolo: Change (in the house of flies)
Artista: Deftones
Album: White Pony

“Consideratelo il mio contributo alla vostra serata da Virgin Motel. Mettete play, prima di leggere la seconda parte del racconto.”

Apro gli occhi. Ho detto davvero queste cose ad alta voce? Mi guardo intorno. Un forte dubbio mi sovrasta. Perché le ho pensate? Perché le ho dette?
Esco dalla vasca, ancora gocciolante. Prendo un asciugamano e me lo arrotolo attorno ai capelli. Inizio a camminare, nuda e in ciabatte. Sto in silenzio a rimuginare. Mi rifiuto di esplicitare qualsiasi pensiero mi passi dalla mente d’ora in poi.
D’un tratto, percorro il corridoio buio di casa mia e apro la porta d’ingresso. Attraverso il pianerottolo e faccio le rampe di scale che mi portano giù in portineria.
Apro il portone e mi ritrovo all’esterno. Notte fonda. Nessun rumore. Nessuno ad accorgersi che una povera pazza sta uscendo come mamma l’ha fatta, armata di asciugamano e infradito. Inizio a correre lungo il cortile del condominio, raggiungendo facilmente la via principale. Nessuna macchina intorno, nessun pedone.
Corro a perdifiato verso il centro città. Sento il fiatone trafiggermi il petto a ogni boccata. Un passante in moto guizza fulmineo fischiando. Avrà notato che sono nuda e questo sarà stato il suo ringraziamento. Gli infradito si rompono dopo qualche metro, lasciandomi a piedi nudi sul marciapiede, che sento scorrere ruvido e pungente.
Avrò corso forse mezz’ora, forse tre quarti d’ora. Sono letteralmente spompata.
Possiamo parlare adesso? Possiamo pensare?
No. Non devo pensare un cazzo, altrimenti mi fotti un’altra volta.
Continuo a correre. Non ce la faccio più. Le cosce mi fanno male per lo sforzo.

Una pattuglia della polizia mi raggiunge mentre imbocco un viale alberato. «Signorina, cosa fa? Si fermi!»
Mi puntano i fari addosso, illuminando ancora di più le mie nudità.
«Vaffanculo. Tornatevene ai vostri posti. Ho una trama da gestire!»
Stranamente, i poliziotti non battono ciglio: Spengono i fari e girano i tacchi.
Bravi.
Devo necessariamente rallentare il passo. Mi ritrovo a camminare nel pieno di una strada deserta, ben tenuta, piena d’alberi dai tronchi lisci, coperti da piccole chiazze di corteccia. Credo siano dei platani.
Eccolo lì. Numero 46. Chissà perché riconosco quel numero civico.
Tolgo l’asciugamano dalla testa e lo lancio per aria. Suono il citofono. Alcuni passi ovattati annunciano la presenza del padrone di casa, che apre la porta.

«Che ci fai qua?»
«Sei stato tu a portarmi qui. Hai voluto tu ridurmi in questo stato.»
«Non è vero. Hai deciso tutto tu in autonomia.»
«Cazzate. Abominevoli, fetide e spregevoli puttanate. Tu sei l’autore. Tu mi hai voluta così: sboccata, decadente, nuda e ridicola. Mi hai quasi portata al suicidio. Mi hai descritto come una cinica stupida radical chic, algida, martoriata da qualche strano dismorfismo corporeo, depressa e disillusa.»
«Non darmi colpe. Sei ubriaca. Piuttosto, entra che fuori fa freddo.»
«Io non sento freddo.»
«Lo sentirai.»
I capezzoli iniziarono a indurirsi. La pelle si fece d’improvviso ruvida e orripilata. Faceva un freddo boia.
«Bastardo.»
«Ti preparo un tè.»

Entro in casa. C’è odore di tabacco. Non è sgradevole ma mi mette lo stesso a disagio. Sento che parte di quel fumo si intrufoli nelle mie narici e si impadronisca delle mie ossa.
«Ti dispiacerebbe mettere su qualcosa? Mi metti in imbarazzo, così.»
«Tanto che differenza fa? Sei abituato a immaginarmi nuda, provocante e isterica.»
«Può darsi, ma adesso non mi va di fare conversazione con un cosplay della ragazzina che fugge dalle bombe al napalm della guerra in vietnam.»
Gli tiro uno schiaffo. Lui sembra accusare il colpo, la sua guancia si colora di rosso vivido.
«Ok, fai come vuoi.»
«Davvero, Jan? Oh grazie! GRAZIE INFINITE Jan. Hai pure piazzato una volante della polizia per cercare di impedire che arrivassi. LA POLIZIA CAZZO.»
«Non usare il caps-lock. Sai che non mi piace.»
«VAI-A-FARTI-INCULARE.»
«Ok.»
«Sai cosa c’è? No. Non la smetto. Piuttosto, spiegami che senso ha tutto questo? Perché non mi lasci in pace? Perché non mi uccidi una volta per tutte? Fammi uscire di scena, fammi, non so, andare in overdose mentre partecipo a un’orgia? Boh, inventati qualcosa! Perché perseverare in questa tortura?»
«A dire la verità, sono anni che non scrivo nulla sul tuo conto.»
«Mi hai dimenticata?»
«No. Semplicemente, volevo che vivessi la tua vita.»
«Perché?»
«Pensavo fosse la cosa migliore per te.»
«Mi hai lasciata in un limbo senza conclusione. Un vuoto cosmico in cui persevero tormenti esistenziali che sopprimo con il sesso occasionale e la droga. Come puoi pensare fosse la cosa migliore per me?»
«Io non…»
«Tu in realtà non hai mai smesso di controllarmi. Piuttosto, hai continuato a generare nuove tracce, mi hai camuffata, nascosta in altri personaggi. Mi hai lasciato senza significato, svuotata di qualsiasi personalità. Mi hai reso una macchietta. Non te lo perdonerò mai.»
«Le semplici macchiette non riuscirebbero mai a bussare alla porta dei loro autori.»
«Questo spiega soltanto che abiti in un posto di merda molto facile da trovare.»
«Cosa vuoi che faccia?»
«Cancellami. Riscrivimi. Rebootami. Ripristinami. Rendimi stupida. Fammi Uomo. Rendimi uomo e stupido così devo smettere di usare il cervello. Scrivi di te stesso, scrivi delle tue ex. Scrivi dei tuoi amici o dei tuoi familiari. Inventati altre storie ma smettila di massacrarmi! Non usare il mio corpo nudo come metafora del tuo pensiero progressista anticapitalista. Non ti appropriare del punto di vista delle donne. Non scadere in queste prose pompose e ridondanti per fingerti saggio intellettualoide. Cazzo, fatti una sega come tutti gli altri e smettila di rompermi le palle!»
«Non posso.»
«Perché?»
«Ho smesso di scrivere anni fa. Tutto questo è idea tua. Lo capisci?»

Mi guardo intorno, da quando sono uscita dal bagno ho evitato di mettere per iscritto le mie riflessioni, per timore che Lui potesse spiare tra le righe del mio flusso di pensieri. E se i miei timori fossero solo fantasie? Se tutto questo fosse davvero opera mia?
Personaggio e autore sono fatti per essere l’uno il creatore dell’altro. Il primo succube del secondo e viceversa.
Adesso lo vedo, di fronte a me. Lui è nudo, mentre io non lo sono più.
Adesso indosso la vestaglia di casa e lo osservo mentre si copre maldestramente le nudità. Il suo cazzo moscio fa capire come egli sia spaventato e infreddolito.
«Cosa stai facendo? Ti sembra divertente? Dai su! Rivestimi!»
«Vaffanculo, Jan.» dico io, con tono sommesso.
«Fammi indossare qualcosa!»
«Vattene.»
«Andarmene? Dove vuoi che vada?»
«Non so, ovunque! Così, saprai quel che si prova.»
«Ma fa freddo fuori!»
«Francamente, non me ne frega un cazzo.»

Lo sbatto fuori di casa con un calcio, lasciandolo con le palle al vento sul ciglio della strada.
«Usa l’asciugamano che trovi per terra. Cos’era quella cosa che facevi spesso? Ah si, il citazionismo: “Don’t panic, bring your towel.”»
«Lurida putt…»

Chiudo la porta alle mie spalle e mi guardo intorno. Da fuori si sentono le urla di protesta del bastardo, sempre più flebili. Sempre più lontane.
Questa, dunque, è la mia caverna, la casa delle mosche. Le ombre si fanno sempre più distinte, più vicine.
Mi è venuta fame.
scritto il
2024-08-15
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