Luca lo schiavo (parte 2)
di
Luca the slave
genere
sadomaso
Il freddo e l'umidità della cella mi avevano avvolto durante la notte, lasciandomi con il corpo intorpidito e dolorante. Ero rannicchiato sul pavimento, cercando di trovare un po' di calore nel mio stesso corpo. Quando la porta della cella si aprì con un cigolio, la luce del mattino mi colpì gli occhi, facendomi strizzare le palpebre.
La Padrona entrò, avvolta nella sua aura di autorità e potere. Senza esitazione, mi misi in ginocchio, chinando la testa in segno di saluto e rispetto. Sentii il tintinnio delle catene che mi tenevano prigioniero, un promemoria costante della mia condizione.
"Buongiorno, schiavo," disse con voce fredda e decisa. Senza un ulteriore avvertimento, sentii la frusta colpirmi la schiena, un dolore acuto che mi fece inarcare. Non emisi un gemito, sapendo che il silenzio era parte della mia sottomissione.
"Alzati," ordinò, e io obbedii, i muscoli doloranti che protestavano ad ogni movimento. Mi guidò verso un gancio fissato al soffitto della cella, e con mani esperte mi legò le braccia sopra la testa, fissandomi in posizione. Ero di nuovo vulnerabile, esposto al suo potere.
La Padrona iniziò a percuotermi con la frusta, ogni colpo un'esplosione di dolore che attraversava il mio corpo. Ogni fustigata era un promemoria della mia obbedienza, della mia devozione. Sentivo la pelle bruciare, ma il mio spirito era determinato a sopportare tutto per lei.
Quando finalmente si fermò, ero esausto, il corpo coperto di segni rossi e pulsanti. Mi slegò dal gancio e mi condusse fuori dalla cella, le catene ancora tintinnanti ad ogni passo. La seguii docilmente, sapendo che ogni ordine doveva essere eseguito senza esitazione.
Ci dirigemmo verso una stalla, l'aria carica dell'odore dei cavalli e della paglia. La Padrona mi indicò il lavoro che dovevo fare, e senza un'altra parola mi mise al lavoro.
"Pulirai i miei cavalli, spalando letame e facendo ogni lavoro umile che un vero schiavo deve fare," disse con tono imperioso. Mi inginocchiai subito, cominciando a pulire i box dei cavalli. Ogni movimento era doloroso, ma non osavo fermarmi. Ogni pala di letame, ogni pennellata sul pelo dei cavalli era un atto di devozione.
La Padrona osservava, assicurandosi che ogni compito fosse svolto con precisione e dedizione. Le catene mi limitavano, ma non mi fermavano. Mi spostavo da un cavallo all'altro, pulendo e sistemando tutto con cura.
Ogni tanto, la Padrona mi concedeva una breve pausa, durante la quale mi guardava con uno sguardo che mescolava soddisfazione e dominio. Sapevo che dovevo dimostrare di essere degno della sua attenzione, di ogni momento che mi concedeva.
Il lavoro era duro, ma il mio spirito era forte. Sapevo che ogni compito umile che mi veniva assegnato era una prova della mia sottomissione, un passo verso la totale dedizione alla mia Padrona. E così, continuai a lavorare, il corpo stanco e dolorante, ma il cuore pieno di un profondo senso di appartenenza.
Alla fine della giornata, quando il sole iniziava a tramontare, la Padrona mi chiamò a sé. Mi inginocchiai davanti a lei, le mani e le ginocchia sporche di terra e sudore.
"Hai fatto bene, schiavo," disse con un tono di approvazione. "Ricorda sempre il tuo posto. Sei qui per servire e obbedire."
"Sí, Padrona," risposi con voce ferma, sentendo una gratitudine profonda per il suo riconoscimento.
Mi condusse di nuovo nella mia cella, ma questa volta con una nuova consapevolezza del mio ruolo e della mia devozione. Ero suo, completamente, e ogni giorno, ogni prova, era un passo ulteriore verso la mia completa sottomissione.
La Padrona entrò, avvolta nella sua aura di autorità e potere. Senza esitazione, mi misi in ginocchio, chinando la testa in segno di saluto e rispetto. Sentii il tintinnio delle catene che mi tenevano prigioniero, un promemoria costante della mia condizione.
"Buongiorno, schiavo," disse con voce fredda e decisa. Senza un ulteriore avvertimento, sentii la frusta colpirmi la schiena, un dolore acuto che mi fece inarcare. Non emisi un gemito, sapendo che il silenzio era parte della mia sottomissione.
"Alzati," ordinò, e io obbedii, i muscoli doloranti che protestavano ad ogni movimento. Mi guidò verso un gancio fissato al soffitto della cella, e con mani esperte mi legò le braccia sopra la testa, fissandomi in posizione. Ero di nuovo vulnerabile, esposto al suo potere.
La Padrona iniziò a percuotermi con la frusta, ogni colpo un'esplosione di dolore che attraversava il mio corpo. Ogni fustigata era un promemoria della mia obbedienza, della mia devozione. Sentivo la pelle bruciare, ma il mio spirito era determinato a sopportare tutto per lei.
Quando finalmente si fermò, ero esausto, il corpo coperto di segni rossi e pulsanti. Mi slegò dal gancio e mi condusse fuori dalla cella, le catene ancora tintinnanti ad ogni passo. La seguii docilmente, sapendo che ogni ordine doveva essere eseguito senza esitazione.
Ci dirigemmo verso una stalla, l'aria carica dell'odore dei cavalli e della paglia. La Padrona mi indicò il lavoro che dovevo fare, e senza un'altra parola mi mise al lavoro.
"Pulirai i miei cavalli, spalando letame e facendo ogni lavoro umile che un vero schiavo deve fare," disse con tono imperioso. Mi inginocchiai subito, cominciando a pulire i box dei cavalli. Ogni movimento era doloroso, ma non osavo fermarmi. Ogni pala di letame, ogni pennellata sul pelo dei cavalli era un atto di devozione.
La Padrona osservava, assicurandosi che ogni compito fosse svolto con precisione e dedizione. Le catene mi limitavano, ma non mi fermavano. Mi spostavo da un cavallo all'altro, pulendo e sistemando tutto con cura.
Ogni tanto, la Padrona mi concedeva una breve pausa, durante la quale mi guardava con uno sguardo che mescolava soddisfazione e dominio. Sapevo che dovevo dimostrare di essere degno della sua attenzione, di ogni momento che mi concedeva.
Il lavoro era duro, ma il mio spirito era forte. Sapevo che ogni compito umile che mi veniva assegnato era una prova della mia sottomissione, un passo verso la totale dedizione alla mia Padrona. E così, continuai a lavorare, il corpo stanco e dolorante, ma il cuore pieno di un profondo senso di appartenenza.
Alla fine della giornata, quando il sole iniziava a tramontare, la Padrona mi chiamò a sé. Mi inginocchiai davanti a lei, le mani e le ginocchia sporche di terra e sudore.
"Hai fatto bene, schiavo," disse con un tono di approvazione. "Ricorda sempre il tuo posto. Sei qui per servire e obbedire."
"Sí, Padrona," risposi con voce ferma, sentendo una gratitudine profonda per il suo riconoscimento.
Mi condusse di nuovo nella mia cella, ma questa volta con una nuova consapevolezza del mio ruolo e della mia devozione. Ero suo, completamente, e ogni giorno, ogni prova, era un passo ulteriore verso la mia completa sottomissione.
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