La sabbia di Pilmiro (cap.4 di 4)

di
genere
sentimentali

E il giorno dopo Erika ripartì per la Germania.
Ci lasciammo senza false promesse di amore eterno, che ci avrebbero solamente fatto soffrire ancora di più, consapevoli come entrambi eravamo che la magia di quelle due settimane sarebbe stata irripetibile.

E fu così che passarono alcuni mesi dalla sua partenza.
Ci sentivamo di tanto in tanto per telefono, ma più spesso ci scrivevamo.
Erika mi raccontava delle sue giornate e dei suoi studi, ed io le dicevo del mio lavoro e della mia vita sull'isola.
Avevo creduto che, con il passare del tempo, avrei dimenticato Erika, e che anche lei, tornata nel suo mondo, relegasse la nostra storia estiva in quello scomparto del cervello che usiamo come archivio dei ricordi.
Ma, invece, la sua mancanza si faceva sentire in me sempre più intensa e dolorosa.
E dal tono della sua voce al telefono, e dalle lettere che mi scriveva, avvertivo come quel breve periodo di felicità fosse rimasto, anche per Erika, molto più di un ricordo.
La sentivo cupa e triste, spenta, come quando l'avevo vista arrivare al villaggio all’inizio della sua breve vacanza.
E sapevo, con una consapevolezza atroce e dilaniante, che la causa del suo malessere era proprio quello che era accaduto fra noi l'agosto precedente, l’amore impossibile che avevamo vissuto e dal quale eravamo stati travolti.
Stavo male a quel pensiero, ogni giorno che passava sempre di più.

Poi, verso la metà di dicembre, in una giornata eccezionalmente piovosa per l’isola, mi arrivò una lettera.
Questa volta non era Erika a scrivermi, ma i suoi genitori.
La aprii con mani tremanti ed il gelo nel cuore, non sapendo cosa aspettarmi.



Amburgo, 10 dicembre 1984

" Caro Dimitri,
perdonaci per questa nostra iniziativa, ma lo stato emotivo e psicologico di Erika c’impone, per quanto possibile, di aiutarla.
Come sicuramente ti sarai accorto, parlandole al telefono, Erika vive un periodo molto difficile. L'essersi innamorata di te le ha giovato moltissimo, in un primo momento.
Ma adesso, ora che si rende conto di come Amburgo sia così lontana dalla tua isola, ora si sta chiudendo di nuovo in sè stessa, e la sua condizione d’invalida le pesa come un macigno.
Proprio ieri ci diceva, in uno dei rari momenti in cui ha voglia di parlare, che se lei non fosse stata paralizzata, sarebbe già partita per raggiungerti, per venire a vivere con te, perchè lei è certa che anche tu la ami, e che non l’hai dimenticata.
Noi crediamo, invece, che la realtà sia diversa.
Ed i medici che la seguono sin dai tempi dell'incidente, sono decisamente preoccupati per il suo stato di salute psicologica.
E allora noi abbiamo pensato che tu possa esserci d'aiuto.
Siamo certi che i tuoi sentimenti per Erika siano stati onesti e puliti durante la nostra vacanza. Ma crediamo anche che, come del resto è logico e comprensibile, oggi quegli stessi sentimenti nei suoi confronti non siano più così intensi e profondi. Ma sicuramente sarai ancora affezionato ad Erika, ed è per questo, per il suo bene, che ti chiediamo di farle capire che, per te, la cosa non è più così importante come lei si ostina a voler credere.
Soffrirà per questo, e soffrirà molto, ma come ci dicono i medici, alla fine se ne farà una ragione e riconquisterà un pò di tranquillità.
Sappiamo di chiederti molto, forse troppo per un ragazzo della tua età, ma ti preghiamo di aiutarci, in nome dell’amore che hai provato per lei, a far stare meglio nostra figlia.
Aiutaci a farla guarire, se non nel corpo, almeno nell’anima.
Con affetto
Hanna e Rolf Rais


Piansi.
Piansi a lungo, disperatamente.
Leggendo e rileggendo quella lettera, piansi tutte le lacrime che avevo.
Mi chiedevano di dire ad Erika che era finita, per sempre.
Di spezzare, una volta per tutte, quel ricordo che le devastava l’anima.
Di deluderla.
Avrei dovuto dirle che non l’amavo più, che la nostra storia era stata solo un’avventura estiva, passeggera, effimera come l’incerta fiammella di una candela nel vento.
Dovevo dirle che non l'amavo più, quando invece ero pazzo di lei.
E dovevo farlo per lei, per il suo bene, per aiutarla a dimenticare quei meravigliosi giorni di agosto.
Vedevo i suoi occhi, il suo sorriso, sentivo ancora la sua pelle sulle mani ed il suo profumo che mi aveva fatto impazzire.
E la immaginavo in Germania, sulla carrozzina, le gambe inerti, sempre avvolte in una coperta, i suoi silenzi e le sue lacrime, le speranze e le illusioni.
Piansi, fino a straziarmi.
Piansi.
Piansi come non avevo mai fatto in vita mia.

Alzai lo sguardo e, tra le lacrime, vidi mio padre fermo sulla soglia della camera.
" La ami ancora, vero ? " .
Non mi ero mai confidato con lui, come spesso accade tra padre e figlio, quando il pudore e l’imbarazzo sono ostacoli troppo ardui da superare.
Ma, in quel momento, la sua presenza era un balsamo che poteva lenire le mie ferite, era la bussola che poteva indicarmi la giusta direzione.
" Sì, papà. La amo con tutto me stesso. Ma la sto facendo soffrire, le sto facendo del male... ed è l'ultima cosa che vorrei... non so cosa fare... " .
Gli passai la lettera dei genitori di Erika.
Lui la lesse con attenzione, cercando di capire al meglio l’inglese, lo sguardo serio e preoccupato.

“ Non so quale sia la cosa più giusta da fare, papà “.
Lui mi restituì la lettera con un debole sorriso.
" E invece lo sai quello che devi fare. A ventiquattro anni non si è più bambini, Dimitri. Fai quello che senti. Quello che il cuore ti dice di fare. Non ascoltare nessuno. Parti. Vai da lei. Raggiungila, se vuoi. E vivi la tua vita " .
Lo guardai.
E poi guardai la lettera che stringevo in mano.
Dopo qualche minuto la stracciai e la gettai nel cestino.

Era il ventiquattro dicembre, la sera di Natale.
Un vento gelido spazzava la strada e la neve cadeva fitta ed incessante.
Non avevo mai visto la neve e non avevo mai sofferto il freddo come in quei momenti, abituato com'ero al clima mite e sempre tiepido della mia isola.
Mi sembrava di gelare.
La strada era completamente deserta.
Avanzavo faticosamente, lo zaino sulle spalle, cercando di leggere i numeri civici delle villette che si susseguivano una all’altra, scrutando i cancelli e nei piccoli ed imbiancati giardini.
Alberi di Natale e festoni luminosi illuminavano gli interni delle case, certamente calde ed accoglienti, piccole isole di felicità in quella serata percorsa dalla tormenta.

Continuai ad avanzare in quella notte di festa, con il mio leggero giubbotto come unica e misera protezione.
E poi, finalmente, ripulendolo con la mano dalla neve gelata, lessi il numero che ansiosamente andavo cercando: il civico 134.
Il cancello era socchiuso.
Lo aprii e, affondando nella neve, mi diressi alla porta d'ingresso.
Tirai fuori della tasca la mano intirizzita e suonai brevemente il campanello, il cuore in tumulto, la testa che mi girava per l'emozione ed il timore di fare la cosa sbagliata.
Di commettere l’errore più grande della mia vita.

Mi aprì il padre di Erika.
" Desider... ? " .
" Buonasera, signor Rais " gli dissi, in una nuvola di vapore che mi uscì dalla bocca.
" Santo cielo... Dimitri ! " mormorò, stupefatto.
Uscì, e si accostò la porta alle spalle.
Eravamo uno di fronte all’altro.
Le parole mi uscirono improvvise, troppo a lungo trattenute nella mia mente in subbuglio.
" Mi perdoni, signor Rais. Ma non ho potuto. Non sono riuscito a fare quello che voi mi avete chiesto nella lettera. Non ho potuto dire ed Erika che l'ho dimenticata, che per me è tutto finito, che non l'amo più. Perchè non è vero. Io amo sua figlia, signor Rais. Ho bisogno di lei, esattamente come lei ha bisogno di me. Forse, se avessi fatto come voi mi avete chiesto, Erika, con il tempo, sarebbe riuscita anche a stare meglio. Ma io ? Cosa avrei fatto io ? L'avrei persa per sempre, e..." .
Vidi che lui mi guardava fisso, il suo viso immobile, e le parole mi morirono in bocca.
Per un attimo, un lungo e terribile attimo, temetti che mi mandasse via, che rientrasse in casa, chiudesse la porta, e mi cancellasse definitivamente e per sempre dalla vita di Erika.
Ma poi lo vidi sorridere.
E quindi mi abbracciò, così forte da togliermi il fiato.

Mi fece entrare e nell'ingresso c'era la moglie, che, alla mia vista, sgranò gli occhi, subito colmi di lacrime.
A gesti, in silenzio, mi fecero cenno di andare verso il salotto.
E così feci, sgocciolando sul pavimento tutta la neve che mi si scioglieva addosso.

Tremando per l'emozione mi affacciai alla porta.
E la vidi.
Erika era seduta su una poltrona, lo sguardo fisso al caminetto, alle fiamme che danzavano incessantemente.
Non mi aveva visto.
Forse, persa nei suoi pensieri, non si era nemmeno accorta che qualcuno aveva suonato alla porta di casa.
Lentamente mi accostai alla spalliera della poltrona e le appoggiai le mani sulle spalle, mentre il suo profumo tornava a solleticarmi i sensi.

Per alcuni secondi lei rimase immobile.
Solo un fremito delle sue spalle mi fece capire che si era accorta che c’era qualcuno dietro di lei.
Poi Erika voltò la testa, ed il suo sorriso mi fece scoppiare il cuore.
" Lo sapevo. Lo sentivo. Sapevo che il Natale mi avrebbe portato un regalo speciale. E ti stavo aspettando " mi disse, un’espressione di felicità ad illuminarle il volto delicato.
M’inginocchiai accanto a lei, senza riuscire a parlare, un nodo in gola quasi a soffocarmi, e accostai le mie labbra gelate alle sue, calde e morbide come le ricordavo.
E fu come tornare a Pilmiro, alla spiaggia solitaria dove avevamo fatto l'amore e dove tutto aveva avuto inizio.

Vi dicevo che io avevo un sogno.
Quello di aprire un ristorante, ad Atene o Salonicco.
Ebbene, l'ho aperto.
Anzi, ne ho aperti tre.
Ma ad Amburgo.
Ristoranti tipici greci.
E ho fatto fortuna, insieme ad Erika, mia moglie.
Ho imparato il tedesco, e non soffro più nemmeno il freddo.
Erika, invece, è diventata più greca di me, ormai.
E ogni anno, da vent'anni, torniamo all'isola, per un mese di vacanza e di sole.
E tutti gli anni, la sera prima di ripartire per Amburgo, prendo in braccio mia moglie e torniamo sulla sabbia di Pìlmiro, a guardare il mare e a fare l'amore.

Ci siamo comprati anche una casetta tutta nostra, in paese, di fronte al mare, dove un giorno verremo a vivere, quando, ormai anziani, saremo stanchi di lavorare.
Ci crogioleremo al sole e al tepore della nostra isola.
E, insieme, aspetteremo che la vita scivoli via.


Est quaedam flere voluptas.
V'è un piacere nel piangere.
(Ovidio)

Fine

diagorasrodos@libero.it
scritto il
2011-03-30
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