Vampa d'Agosto
di
scopertaeros69
genere
etero
Il titolo del racconto è chiaramente una citazione di uno dei miei scrittori preferiti, sebbene io scriva di un genere piuttosto diverso, di quel libro mi sono rimaste impresse le descrizioni della passionalità, che ho ritrovato nel filo dei miei pensieri mentre scrivevo quel che vi apprestate a leggere.
Il cielo si è annerito in un attimo, malgrado siano solo le quattro di questo afoso pomeriggio estivo, la luce par essere quella del tramonto, mia madre direbbe “luce da purgatorio”.
L’aria odora di salsedine e di...maestrale
In effetti come un anima in pena, continuo a sentirmi dilaniato dall’inquietudine e mi domando se sia normale, che debba essere come un ragazzino infoiato, preso da te.
Sei uscita fuori sul terrazzino di questa casa presa in affitto per le nostre vacanze, a vedere se i costumi da bagno sono asciutti, si è alzato un gran vento, quello che precede la tempesta, tra poco si apriranno le cateratte del cielo e tutto verrà investito dal solito piovasco tropicale, così alieno a questa latitudine ed ormai cosi familiare in questa estate.
È da stamane al nostro risveglio, che non ti prendo, che non mi avvento sulla tua carne, una necessità che è andata ben oltre il fisico, il mentale, malgrado non siamo più due ragazzi...no proprio non lo siamo.
Frugo nella memoria cercando inutilmente un momento, una situazione in cui mi sia negato a te o viceversa, ma non lo trovo, lo faccio, mentre attraverso la porta finestra e guardo quell’aria rabbiosa scombinarti i capelli, disegnare sulla stoffa leggera del tuo pareo, disegnare il tuo corpo aderendovi come un altra pelle, i piedi nudi sul cemento caldo del terrazzino dai muri imbiancati a calce.
Ti guardo, no...”ti vedo” desiderandoti al punto che se provassi a resistere starei male…
Stai saggiando con le dita lo stato di umidità degli scampoli di stoffa appesi che si agitano nel vento danzando di vita propria, all’improvviso un rumore, un singolo ticchettio contro il vetro della porta finestra, cerco con lo sguardo sino ad individuare una grossa goccia che si è infranta in basso a destra, mentre digrada in un minuscolo rigagnolo, verso il basso.
Poi altri ticchettii ed altre gocce contro il vetro, e il pavimento caldo di cemento arroventato dal sole del terrazzo comincia a popolarsi di pois grigi, sempre meno microscopici, le fioriere di gerani sul tetto sono scosse non più soltanto dalle folate d’aria.
Un lampo di luce, seguito a breve da un tuono pesante, sordo e cupo che quasi fa tremare i vetri della stanza… Mi alzo.
Vado verso la porta in tempo per esservi dinanzi quando ci sei tu dal lato opposto, ti sbarro la strada, tieni la testa bassa, per proteggerti dalle gocce d’acqua che stanno rinforzando d’intensità.
Alzi lo sguardo in una reazione istintiva per cercare il mio viso, per chiedermi perché non mi faccio da parte, cazzo piove devi entrare!
Ed è in quel momento che la vedi, la mia lucida follia, la mia irragionevolezza, egoista, prepotente, sorda ad ogni ragione; come un drogato in crisi d’astinenza necessito la mia dose di te, il come , il dove, il quando non è che non sono importanti, semplicemente sono una flebile voce in questa buriana del mio corpo che urla assordante il mio bisogno di averti.
“Mio Dio!” mormori a fior di labbra, lego il labiale perché non posso sentire la tua voce, l’ennesimo tuono sovrasta tutto, anche il battere della pioggia e del vento che agita i lecci e gli eucalitpti li intorno, mi “hai visto” ed hai capito.
Ti spingo fuori sotto la pioggia, l’acqua ci investe, veloce e pungente come minuscoli aghi, il contrasto tra il caldo umido e afoso e questi aghi rabbiosi e freddi che bersagliano la pelle attraverso la poca stoffa che ci copre e che ci si incolla indosso.
Ti abbraccio, ti stringo mentre le bocche si uniscono mentre in qualche modo piego le ginocchia per portati a terra li con me.
L’acqua si frange sul cemento fradicio sollevando volute di vapore, lascio che tu ti adagi e poi cerco di svestirti, il pareo si apre con relativa facilità, mentre i vestiti residui che abbiamo indosso in questo nostro abbraccio insensato, ci rendono simili ad una sorta di opera di Gustav Klimt.
Ancora una volta riesci a sorprendermi, il rumore della stoffa bagnata che si lacera della mia t-shirt precede la presa di coscienza della mia mente, che si rende conto che tu la stai facendo a pezzi.
Una attimo di interdizione da parte mia poi ti imito facendo lo stesso su di te, come se gli ultimi brandelli indosso fossero roventi vengono scacciati lontano sul cemento bagnato, restituendoci nudi alla pioggia ormai sferzante.
Sopra di te, ti proteggo dalla pioggia battente che mi martella la schiena e nel contempo ti tengo schiacciata sotto il mio peso, come se avessi paura che tu possa ripensarci e scappare.
Siamo fradici di acqua e nel contempo circondati da volute di vapore tiepido, che arrivano dal cemento caldo del pavimento.
Ora sono io che incontro il tuo sguardo spiritato tra le gocce che rigano i nostri visi e stillano dai capelli, mentre ti afferri alla mia nuca… “Scopami Bastardo! Scopami!”, mi urli, e all’ordine/supplica/preghiera, segue uno schiaffo, “Scopami hai capito! Scopami!”.
Ero duro di desiderio, già sulla porta, già prima di trascinarti sotto questo monsone tropicale, non me lo faccio ripetere entrando quasi simultaneamente al tuo spalancare le cosce.
Entro senza grazia, senza dolcezza, entro perché morirei lì ora se non lo facessi, non chiudi mai gli occhi mi guardi mi scruti, ti concedi interruzione a questo contatto solo quando una fitta di piacere ti fa strizzare le palpebre, ma poi torni a guardarmi ...”A vedermi” restituendomi la stessa follia.
Spingo dentro di te, con le tue unghie che si piantano nella schiena, disegnando due mezze lune tra quegli aghi freddi della pioggia, l’acqua mi fluisce addosso scivolando giù nel solco del culo, per correre al suolo bagnando il mio scroto e la tua fica.
Ti stringi nuovamente a me, il calore dei tuoi seni fradici contro il mio petto, la consapevolezza del turgore dei tuoi capezzoli contro i miei, un nostro bacio, un tentativo di strappare l’aria l’uno all’altro, mentre le lingue si cercano e sfregano, la tua stretta di braccia intorno a me salda.
Sposti il peso per ribaltare la situazione, sono un drogato ricordate? Non mi interessa più come avrò la mia dose, ma solo averla.
Quando ti distanzi da me, vedo tra la pioggia che mi martella in viso, tu che mi sovrasti, prendendo il controllo.
Sei magnifica con la pioggia che ti scorre indosso, mentre ti muovi frenetica sopra di me, il viso tronfio e compiaciuto, le gocce d’acqua a cascata tra le tue ciocche di capelli, una dea della tempesta che si prende il suo piacere, ma per quanto eccitante...io voglio di più.
Le mani che prima erano sui fianchi, ora si distanziano e si abbattono aperte sulle chiappe con un sonoro schiocco, una, due, tre volte…
Mi guardi sorpresa e maliziosamente rabbiosa, mi blocchi i polsi e rapida come un felino ti abbassi su di me, mentre il tuo infilzarti diventa frenetico, cerchi con i tuoi occhi qualcosa nei miei, mentre da sotto a colpi di reni cerco di massimizzare il nostro scontro di carne.
Strizzo gli occhi e digrigno i denti mentre cerco con tutto me stesso di scaricarmi dentro di te, qualcosa di analogo ti succede credo, anche se non posso vederti, riesco ad udire una sorta di rantolo dalla tua bocca.
Mi libero sentendo letteralmente lo sperma scorrermi nell’asta e defluire fuori.
Fradici ed ansanti il sudore mescolato alla pioggia e alla pozzanghera tiepida nel quale ci siamo presi, rimaniamo distrutti l’una sull’altro mentre, la pioggia diminuisce di colpo d’intensità, ancora qualche minuto e il sole farà capolino.
L’aria ora sa di odor di ferro, mi godo il calore del tuo corpo sul mio, amplificato dall’acqua che ci unisce la pelle.
A quel punto sollevi la testa, i nostri baci “post-war-coitum”, di una dolcezza adolescenziale.
“Proprio non potevi aspettare eh?” mi dici con un mezzo sorriso tra un incontro di labbra ed un altro.
“Ti ho aspettata tutta la vita” … credo sia abbastanza.
Il cielo si è annerito in un attimo, malgrado siano solo le quattro di questo afoso pomeriggio estivo, la luce par essere quella del tramonto, mia madre direbbe “luce da purgatorio”.
L’aria odora di salsedine e di...maestrale
In effetti come un anima in pena, continuo a sentirmi dilaniato dall’inquietudine e mi domando se sia normale, che debba essere come un ragazzino infoiato, preso da te.
Sei uscita fuori sul terrazzino di questa casa presa in affitto per le nostre vacanze, a vedere se i costumi da bagno sono asciutti, si è alzato un gran vento, quello che precede la tempesta, tra poco si apriranno le cateratte del cielo e tutto verrà investito dal solito piovasco tropicale, così alieno a questa latitudine ed ormai cosi familiare in questa estate.
È da stamane al nostro risveglio, che non ti prendo, che non mi avvento sulla tua carne, una necessità che è andata ben oltre il fisico, il mentale, malgrado non siamo più due ragazzi...no proprio non lo siamo.
Frugo nella memoria cercando inutilmente un momento, una situazione in cui mi sia negato a te o viceversa, ma non lo trovo, lo faccio, mentre attraverso la porta finestra e guardo quell’aria rabbiosa scombinarti i capelli, disegnare sulla stoffa leggera del tuo pareo, disegnare il tuo corpo aderendovi come un altra pelle, i piedi nudi sul cemento caldo del terrazzino dai muri imbiancati a calce.
Ti guardo, no...”ti vedo” desiderandoti al punto che se provassi a resistere starei male…
Stai saggiando con le dita lo stato di umidità degli scampoli di stoffa appesi che si agitano nel vento danzando di vita propria, all’improvviso un rumore, un singolo ticchettio contro il vetro della porta finestra, cerco con lo sguardo sino ad individuare una grossa goccia che si è infranta in basso a destra, mentre digrada in un minuscolo rigagnolo, verso il basso.
Poi altri ticchettii ed altre gocce contro il vetro, e il pavimento caldo di cemento arroventato dal sole del terrazzo comincia a popolarsi di pois grigi, sempre meno microscopici, le fioriere di gerani sul tetto sono scosse non più soltanto dalle folate d’aria.
Un lampo di luce, seguito a breve da un tuono pesante, sordo e cupo che quasi fa tremare i vetri della stanza… Mi alzo.
Vado verso la porta in tempo per esservi dinanzi quando ci sei tu dal lato opposto, ti sbarro la strada, tieni la testa bassa, per proteggerti dalle gocce d’acqua che stanno rinforzando d’intensità.
Alzi lo sguardo in una reazione istintiva per cercare il mio viso, per chiedermi perché non mi faccio da parte, cazzo piove devi entrare!
Ed è in quel momento che la vedi, la mia lucida follia, la mia irragionevolezza, egoista, prepotente, sorda ad ogni ragione; come un drogato in crisi d’astinenza necessito la mia dose di te, il come , il dove, il quando non è che non sono importanti, semplicemente sono una flebile voce in questa buriana del mio corpo che urla assordante il mio bisogno di averti.
“Mio Dio!” mormori a fior di labbra, lego il labiale perché non posso sentire la tua voce, l’ennesimo tuono sovrasta tutto, anche il battere della pioggia e del vento che agita i lecci e gli eucalitpti li intorno, mi “hai visto” ed hai capito.
Ti spingo fuori sotto la pioggia, l’acqua ci investe, veloce e pungente come minuscoli aghi, il contrasto tra il caldo umido e afoso e questi aghi rabbiosi e freddi che bersagliano la pelle attraverso la poca stoffa che ci copre e che ci si incolla indosso.
Ti abbraccio, ti stringo mentre le bocche si uniscono mentre in qualche modo piego le ginocchia per portati a terra li con me.
L’acqua si frange sul cemento fradicio sollevando volute di vapore, lascio che tu ti adagi e poi cerco di svestirti, il pareo si apre con relativa facilità, mentre i vestiti residui che abbiamo indosso in questo nostro abbraccio insensato, ci rendono simili ad una sorta di opera di Gustav Klimt.
Ancora una volta riesci a sorprendermi, il rumore della stoffa bagnata che si lacera della mia t-shirt precede la presa di coscienza della mia mente, che si rende conto che tu la stai facendo a pezzi.
Una attimo di interdizione da parte mia poi ti imito facendo lo stesso su di te, come se gli ultimi brandelli indosso fossero roventi vengono scacciati lontano sul cemento bagnato, restituendoci nudi alla pioggia ormai sferzante.
Sopra di te, ti proteggo dalla pioggia battente che mi martella la schiena e nel contempo ti tengo schiacciata sotto il mio peso, come se avessi paura che tu possa ripensarci e scappare.
Siamo fradici di acqua e nel contempo circondati da volute di vapore tiepido, che arrivano dal cemento caldo del pavimento.
Ora sono io che incontro il tuo sguardo spiritato tra le gocce che rigano i nostri visi e stillano dai capelli, mentre ti afferri alla mia nuca… “Scopami Bastardo! Scopami!”, mi urli, e all’ordine/supplica/preghiera, segue uno schiaffo, “Scopami hai capito! Scopami!”.
Ero duro di desiderio, già sulla porta, già prima di trascinarti sotto questo monsone tropicale, non me lo faccio ripetere entrando quasi simultaneamente al tuo spalancare le cosce.
Entro senza grazia, senza dolcezza, entro perché morirei lì ora se non lo facessi, non chiudi mai gli occhi mi guardi mi scruti, ti concedi interruzione a questo contatto solo quando una fitta di piacere ti fa strizzare le palpebre, ma poi torni a guardarmi ...”A vedermi” restituendomi la stessa follia.
Spingo dentro di te, con le tue unghie che si piantano nella schiena, disegnando due mezze lune tra quegli aghi freddi della pioggia, l’acqua mi fluisce addosso scivolando giù nel solco del culo, per correre al suolo bagnando il mio scroto e la tua fica.
Ti stringi nuovamente a me, il calore dei tuoi seni fradici contro il mio petto, la consapevolezza del turgore dei tuoi capezzoli contro i miei, un nostro bacio, un tentativo di strappare l’aria l’uno all’altro, mentre le lingue si cercano e sfregano, la tua stretta di braccia intorno a me salda.
Sposti il peso per ribaltare la situazione, sono un drogato ricordate? Non mi interessa più come avrò la mia dose, ma solo averla.
Quando ti distanzi da me, vedo tra la pioggia che mi martella in viso, tu che mi sovrasti, prendendo il controllo.
Sei magnifica con la pioggia che ti scorre indosso, mentre ti muovi frenetica sopra di me, il viso tronfio e compiaciuto, le gocce d’acqua a cascata tra le tue ciocche di capelli, una dea della tempesta che si prende il suo piacere, ma per quanto eccitante...io voglio di più.
Le mani che prima erano sui fianchi, ora si distanziano e si abbattono aperte sulle chiappe con un sonoro schiocco, una, due, tre volte…
Mi guardi sorpresa e maliziosamente rabbiosa, mi blocchi i polsi e rapida come un felino ti abbassi su di me, mentre il tuo infilzarti diventa frenetico, cerchi con i tuoi occhi qualcosa nei miei, mentre da sotto a colpi di reni cerco di massimizzare il nostro scontro di carne.
Strizzo gli occhi e digrigno i denti mentre cerco con tutto me stesso di scaricarmi dentro di te, qualcosa di analogo ti succede credo, anche se non posso vederti, riesco ad udire una sorta di rantolo dalla tua bocca.
Mi libero sentendo letteralmente lo sperma scorrermi nell’asta e defluire fuori.
Fradici ed ansanti il sudore mescolato alla pioggia e alla pozzanghera tiepida nel quale ci siamo presi, rimaniamo distrutti l’una sull’altro mentre, la pioggia diminuisce di colpo d’intensità, ancora qualche minuto e il sole farà capolino.
L’aria ora sa di odor di ferro, mi godo il calore del tuo corpo sul mio, amplificato dall’acqua che ci unisce la pelle.
A quel punto sollevi la testa, i nostri baci “post-war-coitum”, di una dolcezza adolescenziale.
“Proprio non potevi aspettare eh?” mi dici con un mezzo sorriso tra un incontro di labbra ed un altro.
“Ti ho aspettata tutta la vita” … credo sia abbastanza.
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