Sulla piazza di Platanos (cap.1 di 4)
di
Diagoras
genere
sentimentali
"La ragione e l'amore sono nemici giurati."
Pierre Corneille
-------------------------
La strada corre parallela alla costa, seguendone le baie più ampie e le insenature più strette, con curve ora larghe e dolci, ora più secche e impegnative.
E’una parte dell’isola che conosco relativamente poco, lontana dalle zone asfissiate dal turismo di massa, e che conserva ancora quel profumo tra il magico ed il misterioso che, non fosse per la strada asfaltata e per la comoda automobile che sto guidando, ti porta a vivere l’illusione che gli anni non siano mai passati, e che la vita sia rimasta ferma al tempo in cui l’asino era il più comune mezzo di locomozione.
Ma sono proprio questi angoli più nascosti dell’isola che mi permettono ancora di coltivare il mio hobby, la mia passione, che poi non è segreta per nessuno.
C’è chi ama andare a pesca, chi colleziona francobolli, chi lattine di birra o pacchetti di sigarette, e chi adora curare i propri libri, e disporli ordinatamente nella biblioteca del salone, spolverarli di tanto in tanto e poi sceglierne uno, per rileggerlo, magari a distanza di anni o di decenni.
Io, in verità, non amo nulla di tutto ciò.
Il mio hobby sono le storie, le favole, le leggende, i fatti, veri o di fantasia che siano, accaduti o solamente inventati nel lontano passato: adoro sentirmi narrare eventi perduti nel tempo, avvenuti quando io non ero neppure nato, romanzati dal passaggio di bocca in bocca, secondo la più consolidata tradizione orale.
Sono un collezionista di parole, di frasi, di convinzioni e di certezze, di falsità e di bugie: io ascolto chiunque abbia un qualcosa da narrare, mi abbevero alla sua voce e alle sue parole, mi arricchisco e mi nutro della sua esperienza.
Cerco, o almeno ci provo, a non far andare perdute quelle reminescenze del passato, quei fatti, magari banali, che hanno però segnato uomini e comunità, e che ancora oggi sono presenti nella memoria di chi vuol ricordare; e, prima che vadano perduti per sempre, archiviati nell’oblio delle generazioni che si susseguono una all’altra, io arrivo a salvarli, a spolverarli dalla polvere del tempo, a restaurarli, e a non farli sparire per l’eternità.
Non mi considero di certo uno storico.
Perché non lo sono, nel modo più assoluto.
Perché non ho gli strumenti culturali, né il tempo materiale, per esserlo.
Uno storico analizza i fatti, cerca le fonti, confronta le varie versioni di un medesimo evento: poi, inevitabilmente, le proprie convinzioni personali, o i pregiudizi, vanno ad incidere sulla storia che si va a raccontare, distorcendola ed allontanandola in modo soggettivo dal nucleo originale.
Io non faccio nulla di tutto questo.
Non interpreto i fatti, ma mi limito a riportarli il più fedelmente possibile, senza mai dare giudizi, senza fare mai congetture o deduzioni.
Mi considero un pò come il nastro di un vecchio registratore dove, chi vuole, può incidere la propria voce, le proprie parole, la propria storia o la storia di qualche altra persona, o ancora fatti mai veramente accaduti ma che i decenni passati hanno contribuito a far divenire reali e certi, almeno per tutti coloro che ci vogliono credere.
Ed io adoro credere a storie e leggende.
Da sempre.
E non smetterò mai di amare il racconto verbale, il suono di una voce, la musica delle parole, le pause ed i silenzi.
Ognuno di noi ha qualche sua personale mania: la mia è questa.
Il bivio compare all’improvviso, dietro l’ennesima curva della strada costiera.
Una stretta stradina, dall’asfalto antico e consunto, si dirama dalla litoranea, sulla destra, inerpicandosi e sparendo fra le brulle colline riarse dal sole.
Il cartello a forma di freccia, bilingue come in tutta la Grecia, dice, prima in greco e poi, più sotto, in caratteri occidentali, “Platanos”.
Freno, accostando a lato della strada, indeciso se svoltare o proseguire.
Mi dico che Platanos sarà un villaggio di poche anime e che, vista l’ora, le due del pomeriggio di questo giorno d’inizio agosto, così afoso e bollente, sarà deserto e solitario.
Probabilmente non incontrerei nessuno, e nessuna storia potrebbe aggiungersi alla mia già ricca collezione di parole e frasi.
Decido, in ogni caso, di arrivare al villaggio: male che vada, sarà una semplice deviazione di pochi minuti.
Svolto, dunque, sulla destra, ed inizio a salire lungo la via tortuosa che porta a Platanos.
La strada è talmente stretta che, se incontrassi un’altra auto, sarebbe difficoltoso passare, se non a costo di complicate ed attente manovre.
Dopo qualche altra curva in salita, mi appaiono gli scheletri di due modeste case in costruzione e, subito dopo, il ben noto cartello stradale che indica il paese in cui si sta per entrare.
Sullo sfondo bianco, racchiuso in una cornice azzurra, campeggia, in nero, “Platanos”.
E’ curioso come un villaggio così piccolo abbia il privilegio di avere un cartello uguale, in tutto e per tutto, a quelli di Atene o di Salonicco: le indicazioni stradali sanno essere democratiche e disarmanti al tempo stesso.
Superato il cartello, la strada si restringe ulteriormente, scendendo su un grumo di case abbarbicate su uno sperone di roccia bruciato dal sole implacabile.
I cespugli di oleandri colorati, bianchi, rosa e rossi, ai lati della strada, si trasformano in candidi muretti di recinzione, in portoncini azzurri, in finestre con le imposte accostate, ma anch’esse della stessa tonalità di azzurro, in cancelli che permettono fugaci visioni di rigogliosi e curatissimi piccoli giardini interni.
Il bianco e l’azzurro, i colori nazionali greci, sono dappertutto.
La stradina, quasi un budello, scende ripida fino ad una piccola piazza, che capisco immediatamente essere senza uscita.
Per tornare indietro, per girare l’auto, saranno necessarie non poche manovre, vista la ristrettezza degli spazi.
Bassi edifici bianchi circondano lo slargo su tre lati, mentre il quarto affaccia sul panorama sottostante, il mare sullo sfondo reso accecante dalla luce solare.
Sulla piazzetta, praticamente al centro, un enorme albero (il tronco avrà un diametro di non so quanti metri) regala la sua ombra alla quasi totalità dello spazio calpestabile.
I rami, lunghi e verdi di foglie, si allargano per ogni dove, dando la sensazione, forse solo illusoria, di una frescura incredibile.
Alle spalle dell’albero, di fronte alla mia auto che ronza al minimo, un portoncino aperto, sovrastato dalla sgangherata insegna pubblicitaria della birra Mythos, la birra nazionale ellenica.
E sotto a quell’albero, ovviamente un platano, disposti attorno all’enorme tronco, sei o sette tavolini di legno, con sedie impagliate tutto attorno, coperti da tovaglie a quadri bianchi e rossi.
Un uomo, i capelli lunghi e bianchi mossi dal vento, è l’unico avventore della taverna di Platanos.
E’ seduto ad uno dei tavoli, e intuisco che mi sta guardando, forse per capire chi io sia, o forse cercando di capire se avrà compagnia o meno.
Qualcosa mi dice che potrei anche trovare quello che cerco.
Soltanto una sensazione, in verità.
Ma, con il tempo, ho imparato a fidarmi di questi improvvisi presentimenti.
E poi, un’insalata ed una birra mi andrebbero proprio.
Visto che sulla piccola piazza non è parcheggiato nessun automezzo, innesto la retromarcia e vado a posteggiare in uno slargo sassoso che avevo visto cinquanta metri prima.
Scendo dall’auto e, boccheggiando per il caldo micidiale, percorro le poche decine di metri che mi separano dall’ombra e dal fresco del colossale platano.
Il frinire delle cicale è assordante.
E’ un sottofondo incessante, che l’udito solo dopo un pò di minuti riesce a metabolizzare e a neutralizzare, rendendolo così meno fastidioso
Il vecchio, immobile, osserva il mio avvicinarsi, e nei suoi occhi, socchiusi per il riverbero, leggo distintamente la sua curiosità su chi io sia e su cosa io voglia.
Finalmente all’ombra del gigantesco platano, mi guardo attorno e faccio per sedermi ad un tavolino, quando l’uomo, con un gesto elegante della mano, m’invita a sedere al suo.
“ Kathìste (Si accomodi) “.
“ Efcharistò (Grazie) “.
“ Parakalò (Prego) “.
Non chiedo di meglio e, scostando la sedia, mi metto seduto di fronte all’unico essere umano che sembra abitare quel villaggio dimenticato dal Signore.
Osservandolo ora più attentamente, mi rendo conto di come gli ottant’anni li abbia superati da un pezzo: i bianchi capelli, ancora folti e lunghi nonostante l’età, sono mossi dal vento, come le foglie dell’albero che ci sovrasta.
Gli occhi, scuri e attenti, sono circondati da una miriade di rughe: occhi che mi appaiono ancora giovani e vivaci, in un viso colore del cuoio, e sul quale il tempo ed il sole hanno lasciato segni indelebili.
Il naso, pronunciato e dritto, le guance incavate e velate da una rada barba bianca, le labbra sottili che nascondono i pochi denti che ancora abitano quella bocca antica.
Ottantacinque anni non glieli toglie nessuno.
Minimo.
Anche lui mi osserva, forse stupito di aver trovato compagnia a quest’ora del primo pomeriggio.
Dalla porta della modesta taverna esce una donna di mezz’età, un grembiule rosa legato in vita, un piccolo taccuino tra le mani.
Ordino un’insalata di pomodori e cipolle, olive e feta, e una birra ghiacciata.
Chiedo educatamente all’uomo che mi siede di fronte se posso offrirgli qualcosa.
I suoi occhi, così stranamente giovanili, mi fissano a lungo.
“Parli bene il greco, straniero. Complimenti”.
“Grazie”.
“E sei anche molto gentile. Prenderò dunque un bicchiere di vino bianco. Fresco. Da bere alla tua salute”.
La donna sorride: “Crassì. Aspro. Crio. (Vino. Bianco. Freddo.) Sempre il solito, eh, Stergos ? “.
“Non c’è nulla di meglio per combattere il caldo, mia cara “ risponde lui, sorridendo alla donna.
“Piacere di conoscerti, Stergos. Mi chiamo Roberto. Sono italiano, ma vivo da molti anni su quest’isola”.
Ci stringiamo la mano.
La sua stretta è ancora salda, la sua mano dura e callosa.
“Come mai da queste parti ? Qui non arriva quasi mai nessuno…”.
“Non c’è un motivo vero e proprio. Mi piace girare l’isola, arrivare dove i turisti non arriveranno mai. Mi piace parlare con la gente, ascoltare le loro storie, le loro vite, le leggende e le favole. Mi piacciono le parole, Stergos. E le persone anziane come te sono, per me, una miniera di informazioni, sono la memoria che io mi ostino a voler salvare dal passare del tempo. Tu penserai che io sia matto, ma…”.
Mi guarda attento, valutando le mie parole.
“La storia, le storie delle persone, quel filo della memoria che ci unisce, generazione dopo generazione, non è un qualcosa che possa interessare i matti. No, amico mio. Sono gli uomini saggi ad inseguire i ricordi ed a preservarli per chi verrà”.
Una folata di vento più forte gli agita i bianchi capelli, quasi a sottolineare le sue parole, parole che mai avrei sperato di ascoltare in quel momento.
Ora so che Stergos avrà sicuramente una storia da raccontarmi.
Avrei presto scoperto la memoria di Platanos, di questo villaggio sperduto e abbandonato.
Devo solo attendere che l’uomo abbia voglia di iniziare a raccontare.
- continua -
diagorasrodos@libero.it
Pierre Corneille
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La strada corre parallela alla costa, seguendone le baie più ampie e le insenature più strette, con curve ora larghe e dolci, ora più secche e impegnative.
E’una parte dell’isola che conosco relativamente poco, lontana dalle zone asfissiate dal turismo di massa, e che conserva ancora quel profumo tra il magico ed il misterioso che, non fosse per la strada asfaltata e per la comoda automobile che sto guidando, ti porta a vivere l’illusione che gli anni non siano mai passati, e che la vita sia rimasta ferma al tempo in cui l’asino era il più comune mezzo di locomozione.
Ma sono proprio questi angoli più nascosti dell’isola che mi permettono ancora di coltivare il mio hobby, la mia passione, che poi non è segreta per nessuno.
C’è chi ama andare a pesca, chi colleziona francobolli, chi lattine di birra o pacchetti di sigarette, e chi adora curare i propri libri, e disporli ordinatamente nella biblioteca del salone, spolverarli di tanto in tanto e poi sceglierne uno, per rileggerlo, magari a distanza di anni o di decenni.
Io, in verità, non amo nulla di tutto ciò.
Il mio hobby sono le storie, le favole, le leggende, i fatti, veri o di fantasia che siano, accaduti o solamente inventati nel lontano passato: adoro sentirmi narrare eventi perduti nel tempo, avvenuti quando io non ero neppure nato, romanzati dal passaggio di bocca in bocca, secondo la più consolidata tradizione orale.
Sono un collezionista di parole, di frasi, di convinzioni e di certezze, di falsità e di bugie: io ascolto chiunque abbia un qualcosa da narrare, mi abbevero alla sua voce e alle sue parole, mi arricchisco e mi nutro della sua esperienza.
Cerco, o almeno ci provo, a non far andare perdute quelle reminescenze del passato, quei fatti, magari banali, che hanno però segnato uomini e comunità, e che ancora oggi sono presenti nella memoria di chi vuol ricordare; e, prima che vadano perduti per sempre, archiviati nell’oblio delle generazioni che si susseguono una all’altra, io arrivo a salvarli, a spolverarli dalla polvere del tempo, a restaurarli, e a non farli sparire per l’eternità.
Non mi considero di certo uno storico.
Perché non lo sono, nel modo più assoluto.
Perché non ho gli strumenti culturali, né il tempo materiale, per esserlo.
Uno storico analizza i fatti, cerca le fonti, confronta le varie versioni di un medesimo evento: poi, inevitabilmente, le proprie convinzioni personali, o i pregiudizi, vanno ad incidere sulla storia che si va a raccontare, distorcendola ed allontanandola in modo soggettivo dal nucleo originale.
Io non faccio nulla di tutto questo.
Non interpreto i fatti, ma mi limito a riportarli il più fedelmente possibile, senza mai dare giudizi, senza fare mai congetture o deduzioni.
Mi considero un pò come il nastro di un vecchio registratore dove, chi vuole, può incidere la propria voce, le proprie parole, la propria storia o la storia di qualche altra persona, o ancora fatti mai veramente accaduti ma che i decenni passati hanno contribuito a far divenire reali e certi, almeno per tutti coloro che ci vogliono credere.
Ed io adoro credere a storie e leggende.
Da sempre.
E non smetterò mai di amare il racconto verbale, il suono di una voce, la musica delle parole, le pause ed i silenzi.
Ognuno di noi ha qualche sua personale mania: la mia è questa.
Il bivio compare all’improvviso, dietro l’ennesima curva della strada costiera.
Una stretta stradina, dall’asfalto antico e consunto, si dirama dalla litoranea, sulla destra, inerpicandosi e sparendo fra le brulle colline riarse dal sole.
Il cartello a forma di freccia, bilingue come in tutta la Grecia, dice, prima in greco e poi, più sotto, in caratteri occidentali, “Platanos”.
Freno, accostando a lato della strada, indeciso se svoltare o proseguire.
Mi dico che Platanos sarà un villaggio di poche anime e che, vista l’ora, le due del pomeriggio di questo giorno d’inizio agosto, così afoso e bollente, sarà deserto e solitario.
Probabilmente non incontrerei nessuno, e nessuna storia potrebbe aggiungersi alla mia già ricca collezione di parole e frasi.
Decido, in ogni caso, di arrivare al villaggio: male che vada, sarà una semplice deviazione di pochi minuti.
Svolto, dunque, sulla destra, ed inizio a salire lungo la via tortuosa che porta a Platanos.
La strada è talmente stretta che, se incontrassi un’altra auto, sarebbe difficoltoso passare, se non a costo di complicate ed attente manovre.
Dopo qualche altra curva in salita, mi appaiono gli scheletri di due modeste case in costruzione e, subito dopo, il ben noto cartello stradale che indica il paese in cui si sta per entrare.
Sullo sfondo bianco, racchiuso in una cornice azzurra, campeggia, in nero, “Platanos”.
E’ curioso come un villaggio così piccolo abbia il privilegio di avere un cartello uguale, in tutto e per tutto, a quelli di Atene o di Salonicco: le indicazioni stradali sanno essere democratiche e disarmanti al tempo stesso.
Superato il cartello, la strada si restringe ulteriormente, scendendo su un grumo di case abbarbicate su uno sperone di roccia bruciato dal sole implacabile.
I cespugli di oleandri colorati, bianchi, rosa e rossi, ai lati della strada, si trasformano in candidi muretti di recinzione, in portoncini azzurri, in finestre con le imposte accostate, ma anch’esse della stessa tonalità di azzurro, in cancelli che permettono fugaci visioni di rigogliosi e curatissimi piccoli giardini interni.
Il bianco e l’azzurro, i colori nazionali greci, sono dappertutto.
La stradina, quasi un budello, scende ripida fino ad una piccola piazza, che capisco immediatamente essere senza uscita.
Per tornare indietro, per girare l’auto, saranno necessarie non poche manovre, vista la ristrettezza degli spazi.
Bassi edifici bianchi circondano lo slargo su tre lati, mentre il quarto affaccia sul panorama sottostante, il mare sullo sfondo reso accecante dalla luce solare.
Sulla piazzetta, praticamente al centro, un enorme albero (il tronco avrà un diametro di non so quanti metri) regala la sua ombra alla quasi totalità dello spazio calpestabile.
I rami, lunghi e verdi di foglie, si allargano per ogni dove, dando la sensazione, forse solo illusoria, di una frescura incredibile.
Alle spalle dell’albero, di fronte alla mia auto che ronza al minimo, un portoncino aperto, sovrastato dalla sgangherata insegna pubblicitaria della birra Mythos, la birra nazionale ellenica.
E sotto a quell’albero, ovviamente un platano, disposti attorno all’enorme tronco, sei o sette tavolini di legno, con sedie impagliate tutto attorno, coperti da tovaglie a quadri bianchi e rossi.
Un uomo, i capelli lunghi e bianchi mossi dal vento, è l’unico avventore della taverna di Platanos.
E’ seduto ad uno dei tavoli, e intuisco che mi sta guardando, forse per capire chi io sia, o forse cercando di capire se avrà compagnia o meno.
Qualcosa mi dice che potrei anche trovare quello che cerco.
Soltanto una sensazione, in verità.
Ma, con il tempo, ho imparato a fidarmi di questi improvvisi presentimenti.
E poi, un’insalata ed una birra mi andrebbero proprio.
Visto che sulla piccola piazza non è parcheggiato nessun automezzo, innesto la retromarcia e vado a posteggiare in uno slargo sassoso che avevo visto cinquanta metri prima.
Scendo dall’auto e, boccheggiando per il caldo micidiale, percorro le poche decine di metri che mi separano dall’ombra e dal fresco del colossale platano.
Il frinire delle cicale è assordante.
E’ un sottofondo incessante, che l’udito solo dopo un pò di minuti riesce a metabolizzare e a neutralizzare, rendendolo così meno fastidioso
Il vecchio, immobile, osserva il mio avvicinarsi, e nei suoi occhi, socchiusi per il riverbero, leggo distintamente la sua curiosità su chi io sia e su cosa io voglia.
Finalmente all’ombra del gigantesco platano, mi guardo attorno e faccio per sedermi ad un tavolino, quando l’uomo, con un gesto elegante della mano, m’invita a sedere al suo.
“ Kathìste (Si accomodi) “.
“ Efcharistò (Grazie) “.
“ Parakalò (Prego) “.
Non chiedo di meglio e, scostando la sedia, mi metto seduto di fronte all’unico essere umano che sembra abitare quel villaggio dimenticato dal Signore.
Osservandolo ora più attentamente, mi rendo conto di come gli ottant’anni li abbia superati da un pezzo: i bianchi capelli, ancora folti e lunghi nonostante l’età, sono mossi dal vento, come le foglie dell’albero che ci sovrasta.
Gli occhi, scuri e attenti, sono circondati da una miriade di rughe: occhi che mi appaiono ancora giovani e vivaci, in un viso colore del cuoio, e sul quale il tempo ed il sole hanno lasciato segni indelebili.
Il naso, pronunciato e dritto, le guance incavate e velate da una rada barba bianca, le labbra sottili che nascondono i pochi denti che ancora abitano quella bocca antica.
Ottantacinque anni non glieli toglie nessuno.
Minimo.
Anche lui mi osserva, forse stupito di aver trovato compagnia a quest’ora del primo pomeriggio.
Dalla porta della modesta taverna esce una donna di mezz’età, un grembiule rosa legato in vita, un piccolo taccuino tra le mani.
Ordino un’insalata di pomodori e cipolle, olive e feta, e una birra ghiacciata.
Chiedo educatamente all’uomo che mi siede di fronte se posso offrirgli qualcosa.
I suoi occhi, così stranamente giovanili, mi fissano a lungo.
“Parli bene il greco, straniero. Complimenti”.
“Grazie”.
“E sei anche molto gentile. Prenderò dunque un bicchiere di vino bianco. Fresco. Da bere alla tua salute”.
La donna sorride: “Crassì. Aspro. Crio. (Vino. Bianco. Freddo.) Sempre il solito, eh, Stergos ? “.
“Non c’è nulla di meglio per combattere il caldo, mia cara “ risponde lui, sorridendo alla donna.
“Piacere di conoscerti, Stergos. Mi chiamo Roberto. Sono italiano, ma vivo da molti anni su quest’isola”.
Ci stringiamo la mano.
La sua stretta è ancora salda, la sua mano dura e callosa.
“Come mai da queste parti ? Qui non arriva quasi mai nessuno…”.
“Non c’è un motivo vero e proprio. Mi piace girare l’isola, arrivare dove i turisti non arriveranno mai. Mi piace parlare con la gente, ascoltare le loro storie, le loro vite, le leggende e le favole. Mi piacciono le parole, Stergos. E le persone anziane come te sono, per me, una miniera di informazioni, sono la memoria che io mi ostino a voler salvare dal passare del tempo. Tu penserai che io sia matto, ma…”.
Mi guarda attento, valutando le mie parole.
“La storia, le storie delle persone, quel filo della memoria che ci unisce, generazione dopo generazione, non è un qualcosa che possa interessare i matti. No, amico mio. Sono gli uomini saggi ad inseguire i ricordi ed a preservarli per chi verrà”.
Una folata di vento più forte gli agita i bianchi capelli, quasi a sottolineare le sue parole, parole che mai avrei sperato di ascoltare in quel momento.
Ora so che Stergos avrà sicuramente una storia da raccontarmi.
Avrei presto scoperto la memoria di Platanos, di questo villaggio sperduto e abbandonato.
Devo solo attendere che l’uomo abbia voglia di iniziare a raccontare.
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