Maria e la sua disabilità

di
genere
prime esperienze

La dovevo avere. Punto. Lo avevo deciso quasi subito, pochi attimi dopo che avevo sentito il rumore delle stampelle sul pavimento lucido della posta e mi ero voltato. L'avevo squadrata, da capo a piede, ma ella non se ne era assolutamente accorta. Doveva essere abituata, così bella e così sfortunata, ad essere osservata.
Io ne ero rimasto affascinato fin da subito, quando avevo visto quel vestito floreale svolazzare. Mi era sembrata una regina e, nonostante tutto, si era seduta non troppo lontano da me. Si era seduta e poi aveva poggiato le stampelle a fianco. Tra me e lei c'era solo una sedia, peraltro vuota.
“Chi è l'ultimo?”, chiese.
E allora scoprii la sua voce, bella anch'essa.
Eravamo in cinque, lei compresa ed io ero l'ultimo. Pensai di cederle il posto, come gesto di cavalleria ma anche per poter restare maggior tempo in sua presenza, ma poi scalzai l'idea. Non ero certo di come l'avrebbe preso e temevo in una risposta negativa. D'altronde nessuno dei tre che mi precedevano avevano minimamente proposto la cosa e quindi restai in silenzio.
Il tempo sembrava non passare ed io ne fui anche contento, ella invece cominciò a mostrarsi disturbata della cosa. Manifestava una certa impazienza ed io colsi la palla al balzo quando venne il mio turno.
“Se ha fretta, le posso cedere il posto. Io oggi non ho nulla da fare”, le dissi.
Mi guardò e sorrise. Ero riuscito a trovare la scusa giusta che non l'avrebbe certamente infastidita. Ebbi la certezza che fosse molto bella. Aveva i capelli castani sciolti. Le arrivavano a metà schiena ed il lungo vestito floreale che indossava le stava alla perfezione. Era settembre e le giornate erano già fresche. Ella aveva quindi un giubbetto in jeans sopra al vestito.
“È sicuro?”, mi chiese.
“Certo, non si preoccupi”.
“Grazie. Mi scusi ma ho un appuntamento dal medico e pensavo di impiegare meno tempo”, mi rispose, quasi mortificata.
“Nessun problema”.
“Grazie davvero molto”.
Quando l'anziana prima di noi ebbe terminato, ella prese le stampelle e le utilizzò per alzarsi, poi le inforcò e si diresse allo sportello numero 1. Quando ebbe finito mi ringraziò nuovamente e poi si diresse verso l'uscita. Io dovevo solo pagare un bollettino, ma avevo già compilato tutto e quindi uscii subito.
Quel giorno ero veramente di riposo ed avevo tutto il tempo che volevo. Mi guardai attorno e la vidi a circa un centinaio di metri da me, che si dirigeva verso piazza Garibaldi. Mi chiesi se fosse del posto. Io abitavo da molto tempo a Reggio Emilia, ma non l'avevo mai vista in quella zona. Se l'avessi anche solo incrociata una volta, me la sarei certamente ricordata. Dietro piazza Garibaldi entrò in un grosso condominio sul cui portone c'erano le targhette di diversi medici. Attesi nel parco antistante ed ella ne riuscì dopo circa un'ora. Nel rivederla sentii un tuffo al cuore: avrei dovuto averla. Non sapevo quanto o quando, ma quella era un certezza.
La seguii per dieci minuti, durante i quali ella fece anche una pausa, finché non arrivò ad un portone, estrasse le chiavi e lo aprì entrandovi. Abitava praticamente a 500 metri da casa mia e sotto quel condominio c'era un bar dove mi fermavo spesso a bere il caffè. Da quel giorno il fermarmi “spesso” divenne un fermarmi “sempre”. Entrai così in confidenza con il barista al quale estorsi a suon di caffè tutte le informazioni che aveva riguardo a Maria.
Abitava in città da circa un anno, qualche mese dopo al suo incidente ed era originaria di Roma. Nella vita aveva avuto una carriera giovanile come nuotatrice e poi aveva cavalcato qualche passerella di moda, senza però sfondare. Secondo il barista “non aveva il carattere” e devo ammettere che, quando la conobbi, condivisi questo punto di vista. Viveva sola ed era mantenuta dai genitori o dalla assicurazione. Nessuna delle due ipotesi si rivelò vera. Maria viveva del proprio lavoro come scrittrice e traduttrice. Parlava correttamente spagnolo, visto che suo padre era originario di Saragoza, tedesco ed inglese. Faceva quel lavoro già prima del suo incidente, ma lo faceva a Roma, città che aveva deciso di abbandonare.
Un mese dopo a quel primo incontro, ci fu la nostra prima chiacchierata ed il nostro primo caffè. Avevo fatto in modo di incontrarmi con lei casualmente ed ella non si era accorta di nulla, nemmeno dei miei pedinamenti a giorni alterni. Certe volte avevo atteso ore per vederla uscire di casa. Potevo passare per uno stalker ma in quegli anni questa parola ancora non esisteva e poi non avevo secondi fini se non di farla mia. Quando ci scontrammo (perché questo fu quello che avvenne), ella quasi cadde a terra ed io la aiutai a sostenersi. Una stampella le cadde, ma ella si aggrappò a me ed io impedii che entrambi ruzzolassimo a terra. Mi chiese scusa e mi riconobbe immediatamente. Eravamo a due metri da un bar e le proposi di sedersi e di prenderci un caffé. Fu un po' forte come proposta, osai un po', ma ella accettò e fu una fortuna. In quell'occasione scoprii, come se non lo sapessi già, che viveva in zona da poco, che era originaria di Roma, ma anche che aveva quasi trent'anni e che non aveva compagni. Anche io le raccontai di me e restammo nel bar quasi una mezz'oretta. Era ottobre e l'aria era piuttosto fredda. Offrii io il caffè ed ella mi ringraziò allo stesso modo della Posta, poi mi chiese scusa e mi disse che era giunto il momento di andare. Osai per una seconda volta, dicendole che speravo di incontrarla nuovamente ed ella, quasi stupendomi, mi disse che lo sperava anche lei.
Io feci in modo che ci incontrassimo anche la settimana successiva e quella successiva ancora. Ai primi di novembre, quando ormai eravamo in confidenza ed ella aveva ben inteso la mia attrazione nei suoi confronti, ci fu la nostra prima cena. In quella cena scoprii che dopo l'incidente non aveva più avuto una storia e che il suo precedente compagno l'aveva lasciata proprio in quei momenti così difficili. Era stato terribile per lei e quello era anche uno dei motivi per cui aveva cambiato città. Voleva un luogo in cui nessuno la conoscesse.
Quella sera ci fu il nostro primo bacio, intenso ed appassionato. Io sarei salito in casa sua e l'avrei posseduta subito, ma ella disse di non essere ancora pronta. A quella serata ne seguirono altre. Andammo al cinema, ancora a cena, ci incontrammo per degli aperitivi e persino per una gita al lago di Garda una domenica con la mia auto.
Indossava sempre abiti lunghi o in alternativa gonne che arrivavano sotto al ginocchio. Diceva di sentirsi a suo agio con quel tipo di abbigliamento ed io non avevo la benché minima intenzione di contraddirla, visto che mi piaceva un sacco. Erano gli anni Ottanta ed a me, che di moda capivo veramente poco, sembrava estremamente di tendenza.
Decidemmo di trascorrere la sera della vigilia di Natale insieme a casa sua. Io feci la spesa e cucinai, ella preparò la tavola. Era evidente che tra noi ci fosse qualcosa di più di una semplice amicizia e questo non solo perché ci fossimo baciati. Per me quella sera sarebbe stata la prova del nove e dentro di me sapevo, poiché ne avevo sentore, che anche per lei fosse importante. Aveva scelto una gonna rossa a trapezio con una camicetta rosa, dei collant color carne ed una scarpa col tacco nera. Dopocena avevamo acceso la radio. Passavano delle canzoni di Natale ed io l'avevo aiutata, senza prendere le stampelle, per trasferirsi dalla tavola al divano. In casa aveva anche una sedia a rotelle ed ogni tanto, soprattutto quando era stanca, la utilizzava. Dalla chiacchiera al bacio, il passo fu breve. Ci abbracciamo e ci baciammo e fu chiaro immediatamente ad entrambi che saremmo andati oltre. Maria allungò una mano e spense la luce. Restò accesa solo quella della cucina e restammo così in un ambiente abbastanza soffuso.
Continuammo a baciarci e la mia mano si poggiò sul suo ginocchio sinistro. La sentii irrigidirsi, ma non smise di baciarmi e non lo fece nemmeno quando la mia mano risalì ancora di più, sotto alla sua gonna e lungo la sua coscia sinistra, per poi fermarmi sul suo sesso. Mugugnò leggermente ed io la invitai ad aprire un po' le gambe ed ella lo fece. Sentii il ritmo del suo respiro incrementarsi mentre, lentamente le accarezzavo il sesso nonostante fosse coperto da uno slip e dal nylon del collant. La mia camicia e la sua volarono via in un battibaleno e solo a quel punto io le abbassai la cerniera della gonna per sfilargliela.
A quel punto ella si staccò dal bacio e si fermò. Mi guardò negli occhi e mi disse:”Lo vuoi fare veramente? Ne sei sicuro?”.
Era terrorizzata. Io non ero riuscito a dirle quanto mi eccitasse e quanto la desiderassi e cercai di dirglielo in quel momento, prendendole le mani tra le mie, parlandole a bassa voce e tranquillizzandola.
“Ho una paura tremenda”, mi disse.
“Stai tranquilla, vedrai che andrà tutto bene”, le dissi.
Si lasciò andare solo in quel modo. La feci sdraiare sul divano e completai di abbassare la cerniera della gonna, poi la presi per il bordo superiore e gliela sfilai completamente, gettandola lontano. Quello che si presentò davanti ai miei occhi, rischiò di farmi godere in quel preciso momento, seduta stante. La sua gamba sinistra, lunga e fasciata dal collant, era incredibilmente bella. Gli slip che indossava sotto al collant erano neri, in pizzo ed erano molto sgambati. Sotto al pizzo riuscii ad intravedere una peluria scura. Il collant le arrivava quasi fino all'ombelico, era uno di quei modelli a vita alta. La sua gamba destra invece non c'era più, l'amputazione del suo arto era stata netta e pesantissima. Quella che un tempo era stata la sua lunga gamba destra, adesso era ridotta ad una salsicciotto di circa venti, forse trenta centimetri che terminava in modo sferico, quasi come se fosse un melone, con una piuttosto vistosa cicatrice di dove le era stato richiuso. Era una cosa orrenda per una donna del genere, ma per me era incredibilmente eccitante. Mi aveva sempre eccitato quel tipo di disabilità e trovarmi di fronte ad una donna del genere mi stava facendo impazzire. Maria aveva annodato il collant in eccesso sotto la moncone e poi con una forbice, aveva tagliato la stoffa che altrimenti sarebbe rimasta vuota.
“Non guardarmi, ti prego”, mi disse ella, quasi supplicandomi.
“Non posso”, le risposi “Sei stupenda”.
Mi avvicinai al suo ginocchio sinistro e glielo baciai, poi risalii lungo la coscia fino al suo sesso. Lei si inarcò e si slacciò il reggiseno, liberando i suoi seni, non troppo grossi e piuttosto sodi. Ma non erano quelli ciò che mi attraeva infinitamente, bensì la parte inferiore del suo corpo e la sua menomazione. Strinsi la sua passera con la bocca ed ella mugugnò e solo a quel punto portai la mia mano sinistra sul suo moncone. Lo presi con la mano quasi come se prendessi una palla, perché tale era, senza stringerlo ma semplicemente accarezzandolo dolcemente. Ella sussultò, mi prese la mano e me la tolse.
“Ti prego, non toccarmi lì, non voglio”.
“Perché?”.
“Mi mette a disagio, non lo ha mai fatto nessuno”.
“C'è sempre una prima volta. Rilassati, ti prego”, le risposi.
Allora ella acconsentì e si rilassò. Toccare quel pezzo di carne aveva su di me lo stesso effetto di una pastiglia di Viagra. Con le mani lacerai il collant e, dopo averle scostato lo slip, vidi per la prima volta il suo sesso, coperto da una peluria castana. Con indice e pollice le aprii leggermente le labbra, dopodiché inclinai leggermente la testa e con la lingua percorsi interamente quel taglio meraviglioso. Era profumata e saporita. Nella parte alta incontrai il suo clitoride e gli girai attorno con la lingua più e più volte. Pian piano Maria si rilassò e cominciò a dimenticare la propria situazione a vantaggio del piacere che provava. Il suo primo orgasmo giunse quasi inaspettato e per lei fu una vera e propria liberazione che si gustò dal primo all'ultimo momento. Si contorse e portando una mano dietro alla mia nuca, mi schiacciò il volto contro al suo sesso, mentre con la mano libera si strinse una tetta
Mi disse poi, nei giorni successivi, che non ne provava uno dai giorni prima del suo incidente. Quel giorno, la sua bicicletta era stata investita da un mezzo pesante, causa disattenzione del conducente. Era stata un po' in coma nei primi giorni e poi in coma indotto. Quando era giunta in ospedale, la parte inferiore della sua gamba destra già non c'era più. Per estrarla da sotto alle gomme del mezzo che l'aveva investita era stato necessario amputargliela direttamente lì, sulla strada. Il medico le aveva in quel modo salvato la vita, ma ella per molti mesi aveva pensato che sarebbe stato meglio finire completamente sotto al camion. Una volta giunta in sala operatoria, per evitare complicazioni, il livello della amputazione era stato innalzato ben sopra al ginocchio e quando si era risvegliata, quindici giorni dopo all'incidente, era cominciato il suo calvario.
Aveva sofferto sia di un dolore fisico che di un dolore interno. La sua vita non sarebbe certamente più stata la stessa. Nel frattempo l'ex fidanzato era scomparso e con lui una buona parte della sua vita sociale. Da allora, fino a quella Vigilia di Natale con me, non c'erano stati uomini nella sua vita. Per questo quel primo orgasmo era stato così intenso e liberatorio. Quando era terminato ed ella mi era venuta vicino, slacciandomi i pantaloni e poi chinandosi su di me per contraccambiare ciò che le avevo appena “regalato”, vidi due grosse lacrime scorrere lungo le sue guance. Si prese cura con la bocca di gestire la mia eccitazione anche se essa fosse già ben evidente. Pochi minuti dopo le staccai la faccia dalle mie parti intime e guardandola negli occhi, le dissi:”È venuto il nostro momento, adesso ti voglio. Posso?”.
Ella sorrise e vidi che, almeno per poco, molte delle sue paure erano scomparse.
“Certo”, mi rispose “Ma vieni sopra di me, ho ancora qualche problema di mobilità nelle altre posizioni”.
Prima la baciai e fu un bacio sensuale. Poi ella si sdraiò sul divano ed io sopra di lei. Non ebbi difficoltà a mettere da parte lo slip e ad entrarle dentro, mi sentii quasi risucchiare dal suo sesso. Era vogliosa ed io lo ero altrettanto. I nostri corpi imperlati di sudore si strusciarono l'uno contro l'altro ed io cercai di essere energico, ma senza farle male.
“Ahhh, ahhh....”, mugugnò Maria.
“Ti sto facendo male?”, le chiesi preoccupato.
“Tutt'altro....continua, ti prego”.
Allora continuai a spingermi dentro di lei finché non la sentii essere completamente rilassata.
“Ti voglio, ti voglio!”, le dissi.
“Sono tua. Sono tutta tua”, mi rispose ella. Poi portò la sua gamba sinistra dietro di me e mi disse che stava per godere. La sua scarpa era già caduta a terra e sentii il suo piede, il suo unico piede, strofinarsi contro al mio polpaccio. Mi sollevai sostenendomi con le mani e rimasi a guardarla mentre mi spingevo dentro di lei. Era molto bella ed in quel preciso momento, mentre stava per arrivare al suo secondo orgasmo, lo era ancora di più. Teneva gli occhi chiusi ed un vago sorriso le stava apparendo sul volto. Mugugnò leggermente e poi mi tirò stretto a sé mentre il suo corpo vibrò per almeno un minuto. La sua fica era completamente allagata. Quando il piacere dell'orgasmo sfumò, ripresi con le spinte, seppur leggere, ma ormai era giunto anche il mio momento. Mi inginocchiai tra le sue gambe, senza uscire dal suo corpo e diedi ancora tre o quattro colpi, ma poi sentii che stava arrivando anche per me. Feci appena in tempo ad uscire ed un grosso schizzo di sperma le arrivò fin sulla pancia, mentre altri due si fermarono sul collant, poco sopra al suo pelo.
Poi mi accasciai su di lei ed ella mi strinse forte.
Fu la nostra prima volta e da quel momento in avanti diventammo una coppia vera e propria. Pian piano le paure di Maria si dileguarono ed ella cominciò a vivere in maniera più serena e spontanea la sua disabilità. L'effetto che aveva su di me era incredibilmente eccitante. Quella sua “mancanza”, quella sua diversità, la rendevano ancora più attraente ai miei occhi. Ella non capiva questa mia devianza, ma io le spiegavo spesso che, se non fosse stato per quello, forse non ci saremmo incontrati.
scritto il
2018-09-08
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