Dannata bicicletta
di
Mr.Goodbye
genere
sentimentali
“Merda.”
I pedali si sono bloccati di colpo, con mio sommo disappunto. Provo a muoverli, ma nulla da fare. La catena è caduta. Alzo gli occhi al cielo, cerco Dio. Vorrei chiedergli cosa ci trova nell’essere così dispettoso, a volte. L’unica risposta che ottengo è un fulmine che, in lontananza, rischiara le ombre della notte.
“Fantastico.”
Mi viene da imprecare, ma per cosa poi?
Un altro lampo. Questa volta non così lontano come mi era sembrato il precedente. Si è alzato il vento, c’è aria di pioggia. E io sono ancora troppo lontano da casa. Come se non bastasse, poi, la catena si è incastrata tra il pignone e il telaio. La giro, postandola sulla sella e sul sellino, ruote al cielo.
“Va bene. Questa sera hai proprio voglia di essere simpatico. Grazie Dio.”
Mi rimbocco le maniche della camicia e con pazienza (E tanta morchia sulle mani) rimetto la catena a posto.
Devo darmi una mossa, o finisce che prendo il diluvio.
Monto in sella, spingo sui pedali, ma qualcosa non va. Sto facendo troppa fatica. Mi viene l’illuminazione e no, non ci voglio credere.
Mi fermo.
Faccio un respiro profondo.
“Dio? Ce l’hai un momento?”
So già cosa avrei trovato quando abbasso lo sguardo. La gomma è completamente è terra.
“Perché? Ti prego, dimmi perché!”
Guardo il cielo. Una massiccia ombra nera sempre più vicina, attraversata da fulmini e saette, con tanto di secchiate d’acqua dall’alto. E io sono in maniche di camicia a mezz’ora da casa. Fantastico. Prendiamola con filosofia, in fondo la pioggia mi piace.
E, come nelle migliori pellicole, tempo neanche cinque e le prime gocce, grandi come albicocche, cadono con una violenza che nemmeno in guerra. Sorrido, divertito. Voglio dire, a cosa serve l’auto… tanto ho tutto a portata di bicicletta!
In capo a dieci minuti sono totalmente fradicio.
L’aria si è rinfrescata, le strade sono deserte e il profumo della pioggia, nonostante l’infilata di sfighe, mi fa sorridere. La pioggia, con questo suo potere di portare via tutti i mali e alleggerirti lo spirito…
Due colpetti di clacson, ma nemmeno ci faccio caso.
Un altro colpetto, proprio di fianco a me.
“Chi cazzo sei che cazzo vuoi” è il mio primo pensiero, ma metto da parte il lato guerrafondaio e mi fermo, girandomi verso l’auto, una vecchia punto grigia un po’ ammaccata. Il finestrino si abbassa. A fatica. Dentro è buio, ma arrivano le note dei Pink Floyd. Wish you were here, se non sbaglio. Al volante una ragazza, con un maglioncino bianco di cotone e un sacco di braccialetti al polso destro. Un’anella al naso. I capelli lunghi, ma rasati da un lato. La conosco? No… mi pare proprio di no.
“Tutto bene?”
Sorrido.
“Perché? Qualcosa ti fa pensare il contrario?”
La ragazza guarda la bicicletta.
“Non mi sembra il tempo ideale per passeggiare.”
“Non sto passeggiando…”
Mi guarda come se fossi matto. E forse, tutti i torti non li ha.
“Stavo andando a prendere posto sull’arca.”
Per un momento pare che voglia ridere, ma poi si trattiene.
“Senti, Arca, lo vuoi un passaggio?”
“E se fossi un serial killer?”
“Ma tutte ste cazzate ti vengono spontanee o te le eri preparate in anticipo?”
“Spontanee… assolutamente spontanee.”
La ragazza sospira.
“Mi stai annegando l’auto. Vuoi un passaggio o me ne vado?”
Incateno la bicicletta al primo palo che trovo e salgo. Nonostante l’aspetto un po’ scassato, l’interno è tenuto in ordine, pulito e profuma di… miele?!
Tira su il finestrino, freccia, e riparte. Le spiego dove abito, sembra capire.
Sì, i capelli sono rasati su tutto un lato. Gli altri sono lunghi. Il maglioncino bianco ha le maglie larghe e lascia vedere un reggiseno nero. Completano il quadro una gonnella di jeans e le calze. Ah sì, le unghie smaltate di nero, come il filo di matita intorno agli occhi. La cintura di sicurezza si insinua tra i suoi seni, mettendoli in evidenza.
Sono fradicio. Letteralmente. Sento l’acqua colarmi lungo la schiena e la camicia farmi da seconda pelle.
“A cosa devo questa cortesia?”
“Sono il tuo angelo custode.”
Lo dice così dannatamente seria che, per un momento, quasi ci credo.
“La prossima volta dì al tuo Superiore di infilare un po’ meno sfighe in una volta sola allora.”
“Perché?”
“Così evito di cercare l’arca.”
“Ma se è l’arca ad essere venuta da te.”
La osservo mentre scala due marce per rallentare nei pressi di un “dare la precedenza”.
“Seriamente, perché ti sei fermata? Non mi pare ci conosciamo.”
“No, non ho idea di chi tu sia.”
“Quindi?”
C’è un attimo di silenzio. Ho l’impressione che voglia dire qualcosa ma che cambi idea all’ultimo istante.
“Ti ho visto in difficoltà.”
“Mi stai dicendo che sono stato salvato dall’ultimo buon samaritano del pianeta?”
“Qualcosa del genere.”
I Pink Floyd lasciano spazio ai Queen.
“Piacere, Perseus.”
Lei gira il capo, mi guarda perplessa e ben poco convinta.
“Sul serio?”
“No, ma se ti dicessi il mio vero nome lo saprebbe anche chi leggerà questo racconto per cui…”
“Cosa stai dicendo?”
Rido.
“Lascia stare.”
“Quindi se il tuo è un nome fittizio farò lo stesso anche io.”
“Legittimo.”
“Allora, se tu sei Perseo, io sono Medusa.”
La guardo. In quell’istante svolta nella strada dove abito.
“Questo non è carino.”
“Perché?”
“Perché vuol dire che devo tagliarti la testa.”
Medusa ride, poi si gira verso di me e stringe gli occhi guardandomi minacciosa.
“Non cantare vittoria troppo presto. Potrei farti diventare di pietra.”
Eh no, non l’hai detto veramente!
Non ce la faccio.
È più forte di me.
La mia faccia assume ogni possibile sfumatura maliziosa davanti alla sua sempre più esterrefatta. Se fosse che è buio, qui dentro, credo che vedrei le sue guance diventare rosse.
“NO! NO! Non è quello che intendevo! Dai! Ma sei proprio...!”
Cerca di picchiarmi con la mano libera (la destra, per chi di voi facesse mai confusione) e, mentre rido come un cretino (ed è proprio il caso di dirlo), mi difendo dai suoi assalti.
“Frena! Frena! Questa è casa mia!”
“Sei proprio un vigliacco!”
Freddy sta cantando Don’t stop me now.
Accosta. Si ferma. È serissima. Mi sta guardando malissimo. A me piace.
“La malizia sta in chi ascolta…”
“Ti prego… non scadermi nelle frasi fatte…”
La sua faccia, in questo momento, non ha prezzo!
Alzo le mani.
“Allora Medusa, io sono arrivato. A questo punto mi vien da dire che ti convenga andar per la tua strada, ma sappi che dovrò darti la caccia.”
“Perché?”
“Perché devo tagliarti la testa. Scusa, ma l’idea che tu vada in giro a far diventare di pietra tutti quelli che incontri… non so… non è che mi convinca molto…”
Medusa ride.
“Sei proprio sciocco, lo sai?”
“Ci provo. A volte mi riesce bene, a volte meglio.”
“E modesto.”
“Touché…”
“L’alternativa alla caccia qual è?”
“Salgo, mi faccio una doccia calda, mi metto qualcosa di asciutto e mi sdebito offrendoti una birra.”
“Ti aspetto qui?”
“Oppure sali, ma proportelo così alla prima sera mi pareva un po’ affrettato.”
Ci guardiamo mentre lei pensa cosa fare.
“Potrei salire. Ma se allunghi anche solo un dito io ti pietrifico.”
Sto per parlare ma Medusa alza un dito.
“No, non dire nulla. Non ti permettere!”
Rido.
“Come angelo custode non sei affatto male.”
Scendo dalla punto. Non ha nemmeno provato a diminuire l’intensità del diluvio. Per fortuna Medusa ha un ombrello. Che ha ben cura di non condividere, lasciandomi a prendere ancor più acqua mentre apro il portone di casa.
“Benvenuta nella mia reggia!”
La precedo accendendo le luci e le chiudo la porta alle spalle. Fa due piccoli passi nell’ingresso e si guarda attorno con educazione. L’accompagno in cucina/sala e le porgo una sedia.
“Ecco l’antro del mostro…”
“Vorrei farti notare che, stando alla leggenda e ai ruoli che abbiamo (hai) scelto, in questo momento il mostro sei tu.”
Si siede, appoggia la schiena e accavalla le gambe. Collant. Sono quasi certo che indossi collant. Mi guarda con aria di vittoria. Mi ci vuole un momento per capire.
“Quindi, sei io sono la Bestia… tu sei la Bella?”
Merda. La signorina mi ha messo in castagna.
“Facciamo che fingo indifferenza battendo in ritirata e torno tra un momento?”
“Vai mio eroe, vai!”
Sparisco in camera, mi tolgo tutto di dosso alla velocità della luce e getto a terra, in un angolo. Ci penserò poi. Afferro l’accappatoio al volo e mi chiudo in bagno.
Ora, visto che questo è un racconto erotico e quando l’avete iniziato (ammesso poi che siate arrivati fin qui) l’avete fatto in cerca di sesso, vi aspetterete che Medusa si dimostri trasgressiva oltre misura e si infili nella doccia insieme a me. No via, non ditemi che vorreste una scena così banale e scontata. Vero?
Esco dalla doccia che non succede nulla di straordinario e la ritrovo esattamente dove l’avevo lasciata.
“Perdona l’attesa.”
Alza le spalle. È proprio carina.
“Sei pronto?”
“Quando vuoi andiamo.”
È ipnotico osservare le sue ginocchia che si muovono e si accostano per farla alzare. Resto ad osservarla fin quando non mi sfila davanti per uscire dall’appartamento. Mentre scendiamo le scale ci accordiamo sul locale.
In auto gira Smoke on the water.
“Quindi Dio sta mandando il diluvio universale per farmi incontrare il mio angelo custode?”
“Proprio così.”
“Questo complica le cose.”
“Tu dici?”
“Certo. Se sei mio angelo custode non posso tagliarti la testa.”
Medusa esplode in una risata che presto mi contagia e ci troviamo a ridere come due scemi.
Nel locale non c’è molta gente. Senza dubbio complice la pioggia. I ragazzi ci accolgono con la loro solita cordialità.
“Cosa vuoi da bere?”
“Fai tu.”
“Ma… non conosco i tuoi gusti.”
“Questo rende il gioco più interessante”, e sorride maliziosa.
“Illuminami.”
“Se sono il tuo angelo custode saprai da solo quale sarà la scelta giusta per me. D’altra parte, se sono Medusa, la scelta non ha importanza perché tra non molto diventerai pietra.”
La guardo perplesso.
“Non sono sicuro di quello che hai detto…”
“Perché?”
“Perché mi hai appena detto che qualsiasi scelta farò non avrà importanza. Non è una cosa molto carina, secondo me.”
Medusa sorride. Un sorriso tenero, dolce, pieno di significato. Si allunga in avanti e mi sfiora la mano con la sua. Ha la pelle morbida. E fresca come una giornata primaverile.
“Ti ho appena detto che qualsiasi scelta farai andrà bene perché l’avrai fatta con me, per me e la condivideremo.”
“Oh.”
Medusa si ricompone e mi guarda con quei suoi occhi splendidi. Io vorrei sotterrarmi dopo aver appena collezionato una bella figura di merda.
“Non so cosa dire…”
“Puoi ordinare.”
Lo dice con una naturalezza e una semplicità meravigliose.
Alzo gli occhi sulla cameriera.
“Due kwak.”
“Piccole o medie?”
“Medie.”
“Che birra è?”
Mi appoggio allo schienale, ci guardiamo negli occhi.
“Una birra speciale.”
Mi guarda sospettosa. E io penso che, in quel momento, su quel tavolino di legno scuro, con quelle luci soffuse, assaggerei volentieri le sue labbra. Un pensiero che corre troppo esplicito sul mio volto a giudicare da come mi guarda a sua volta.
“Credo sia stata una scelta giusta mettere questo tavolino tra noi.”
Silenzio. Imbarazzo. Desiderio. Arrivano le birre.
Medusa tira indietro il collo e sgrana gli occhi.
“E queste? Come si bevono?”
Sorrido, divertito. Non nego che un po’ speravo nell’effetto sorpresa di questa birra servita in un bicchiere con il fondo tondo e che, per star dritto, ha bisogno di un supporto di legno.
“Così.”
Prendo il bicchiere, lo sfilo dal supporto e lo allungo verso di lei, aspettando che mi segua in un brindisi.
“Alla pioggia!”
Dice Medusa mentre i bicchieri si toccano.
“Agli angeli custodi!”
Beviamo. Chiacchieriamo. Ci raccontiamo di noi. Ridiamo di scemenze. Torniamo seri su argomenti importanti. Le birre diventano due. Mi racconta di lei. Ridiamo di noi stessi. Le racconto di me. Il tempo si ferma. O almeno vorrei che lo facesse. Invece scorre inesorabile senza alcuna intenzione di regalarci un poco di tempo in più.
E quando restiamo gli ultimi due avventori, con i calici vuoti, forse è il momento di levare le tende.
Siamo alticci. Entrambi. Le cingo la vita con un braccio e la stringo a me mentre lei regge l’ombrello.
L’auto è troppo vicina.
“Vuoi che guidi io?”
“Pensi che non sia capace?”
“No ma…”
Mi interrompe senza lasciarmi finire la frase.
“Pensi che sia sbronza?”
“No ma…”
Stessa scena.
“E allora…”
Mi guardo attorno. Alla fine, per avere una certezza occorre rischiare un’incertezza. O forse non era proprio così… colpa del vino che sto sorseggiando, portate pazienza.
Ad ogni modo, se lei mi ha interrotto due volte, ora tocca a me. E prima che pronunci la terza parola la mia lingua è nella sua bocca.
Sa di birra, di kwak.
Le sue labbra sono meravigliosamente morbide.
La sua lingua è terribilmente invitante.
Sa di buono.
Mi tiro indietro.
Mi guarda seria, non mi sembra molto contenta della mia iniziativa.
“Scusa?”
Ho fatto una cazzata. Mi sto già pentendo. Sorrido.
“Non mi stavi lasciando parlare.”
“Non ho capito.”
“Ho detto che non mi stavi…”
“Non ho capito.”
Mi ha interrotto di nuovo. Sbuffo.
“Ho detto…”
“Non capisco cosa dici.”
Sorride.
E cosa volete farci… sono tonto…
Mentre lei regge l’ombrello io le metto la lingua in bocca.
Questa volta non ci sono freni, non ci sono timori, non ci sono paure.
È un bacio. Vero. Semplice. Bello.
Mi perdo tra le sue labbra.
Si stringe a me e mi appoggia la testa sulla spalla, infilando il naso nella curva del collo. Le cingo le spalle e le accarezzo la schiena.
“Sai... pensavo che non avresti capito…”
“Come mio angelo custode pensavo sapessi che necessito dei cartelli a caratteri luminosi…”
Allunga il collo, mi posa un piccolo bacio proprio sotto la mandibola, strappandomi un brivido.
“Eh… lo so… ma noi angeli siamo sempre ottimisti e ci piace sperare che i nostri protetti, a volte, ci stupiscano…”
“Temo di averti deluso allora…”
Si stringe a me e respiro il suo profumo.
“Solo un pochino… la birra era buona!”
“Solo un pochino…”
Vorrei restare lì per un tempo indefinito. Così, semplicemente abbracciati mentre il mondo annega i suoi problemi nella pioggia.
Le bacio la fronte.
“Tu domani lavori.”
Alza il viso e mi guarda.
“Anche tu, Bella.”
“In diretta da Zelig?”
Mi mostra la lingua. E io gliela rubo con un bacio.
Ci baciamo ancora.
“Ti porto a casa?”
“A dire il vero sono io a portare a casa te.”
Annuisco col capo.
“Vero. Ma fino a casa mia posso guidare io, così, caso mai volesse la sfiga che ci fermassero, non ti porterebbero via l’auto.”
“No… la mia puntina…”
“Eh…”
Si stacca (con mio sommo dispiacere) da me e fruga nella borsa. Ecco le chiavi.
L’autoradio passa The passenger, di Iggy Pop. Per fortuna che non ascolta Rovazzi!
C’è silenzio, un silenzio strano, a cui non ero più abituato da tempo. Da una parte carico di energia positiva per questo strano, fortuito incontro. Dall’altra un silenzio triste perché presto ci lasceremo. È quasi certo che ci incontreremo ancora. Ma il non sapere come, quando o dove rende tutto così… malinconico…
Svolto nella mia.
Il mio civico si avvicina.
Rallento.
“Fanculo.”
Si vive una volta sola, no? Magari, a volte, due, ma questa è un’altra storia.
Ingrano una marcia e riparto.
Medusa mi guarda senza capire.
“Che fai?”
“Vado.”
“E di grazia… posso sapere dove?”
“Presto.”
“Presto cosa?”
“Lo vedrai presto.”
Spengo la radio.
“Tutto bene?”
“Sì, perché?”
“Sei strano.”
Sorrido. Parla come se mi conoscesse da una vita.
“Sto bene.”
Sorride. Si slaccia la cintura e si accoccola sulla mia spalla.
“Mi fa piacere…”
Restiamo così, in silenzio.
È così bello che lei si lasci guidare e non mi riempia di domande sul dove la stia portando.
Lei accarezza la mia mano sul cambio e io guido.
Mi lascio la città alle spalle.
La strada piega verso l’alto, verso le colline.
Le luci della città alle nostre spalle.
La pioggia che ancora non ha smesso di tempestare il mondo.
Svolto in una stradina secondaria.
Accosto.
Spengo il motore.
Le bacio la fronte.
“Vieni.”
“Ma piove…”
“Lo so.”
Scendo dall’auto. Saranno due ore, forse tre ore, ormai, che piove con un’intensità da stagione delle piogge tropicali. Non mi interessa.
La osservo innamorato mentre scende dall’auto e apre l’ombrello. Mi viene vicino ma, in quel momento, le prendo l’ombrello dalle mani e lo chiudo.
“Ehi…”
La guardo negli occhi.
Infilo le mani sotto il maglioncino e lei non si oppone quando glielo sfilo.
“Che stiamo facendo?”
La bacio.
Diluvia, siamo già fradici.
“L’amore.”
I pedali si sono bloccati di colpo, con mio sommo disappunto. Provo a muoverli, ma nulla da fare. La catena è caduta. Alzo gli occhi al cielo, cerco Dio. Vorrei chiedergli cosa ci trova nell’essere così dispettoso, a volte. L’unica risposta che ottengo è un fulmine che, in lontananza, rischiara le ombre della notte.
“Fantastico.”
Mi viene da imprecare, ma per cosa poi?
Un altro lampo. Questa volta non così lontano come mi era sembrato il precedente. Si è alzato il vento, c’è aria di pioggia. E io sono ancora troppo lontano da casa. Come se non bastasse, poi, la catena si è incastrata tra il pignone e il telaio. La giro, postandola sulla sella e sul sellino, ruote al cielo.
“Va bene. Questa sera hai proprio voglia di essere simpatico. Grazie Dio.”
Mi rimbocco le maniche della camicia e con pazienza (E tanta morchia sulle mani) rimetto la catena a posto.
Devo darmi una mossa, o finisce che prendo il diluvio.
Monto in sella, spingo sui pedali, ma qualcosa non va. Sto facendo troppa fatica. Mi viene l’illuminazione e no, non ci voglio credere.
Mi fermo.
Faccio un respiro profondo.
“Dio? Ce l’hai un momento?”
So già cosa avrei trovato quando abbasso lo sguardo. La gomma è completamente è terra.
“Perché? Ti prego, dimmi perché!”
Guardo il cielo. Una massiccia ombra nera sempre più vicina, attraversata da fulmini e saette, con tanto di secchiate d’acqua dall’alto. E io sono in maniche di camicia a mezz’ora da casa. Fantastico. Prendiamola con filosofia, in fondo la pioggia mi piace.
E, come nelle migliori pellicole, tempo neanche cinque e le prime gocce, grandi come albicocche, cadono con una violenza che nemmeno in guerra. Sorrido, divertito. Voglio dire, a cosa serve l’auto… tanto ho tutto a portata di bicicletta!
In capo a dieci minuti sono totalmente fradicio.
L’aria si è rinfrescata, le strade sono deserte e il profumo della pioggia, nonostante l’infilata di sfighe, mi fa sorridere. La pioggia, con questo suo potere di portare via tutti i mali e alleggerirti lo spirito…
Due colpetti di clacson, ma nemmeno ci faccio caso.
Un altro colpetto, proprio di fianco a me.
“Chi cazzo sei che cazzo vuoi” è il mio primo pensiero, ma metto da parte il lato guerrafondaio e mi fermo, girandomi verso l’auto, una vecchia punto grigia un po’ ammaccata. Il finestrino si abbassa. A fatica. Dentro è buio, ma arrivano le note dei Pink Floyd. Wish you were here, se non sbaglio. Al volante una ragazza, con un maglioncino bianco di cotone e un sacco di braccialetti al polso destro. Un’anella al naso. I capelli lunghi, ma rasati da un lato. La conosco? No… mi pare proprio di no.
“Tutto bene?”
Sorrido.
“Perché? Qualcosa ti fa pensare il contrario?”
La ragazza guarda la bicicletta.
“Non mi sembra il tempo ideale per passeggiare.”
“Non sto passeggiando…”
Mi guarda come se fossi matto. E forse, tutti i torti non li ha.
“Stavo andando a prendere posto sull’arca.”
Per un momento pare che voglia ridere, ma poi si trattiene.
“Senti, Arca, lo vuoi un passaggio?”
“E se fossi un serial killer?”
“Ma tutte ste cazzate ti vengono spontanee o te le eri preparate in anticipo?”
“Spontanee… assolutamente spontanee.”
La ragazza sospira.
“Mi stai annegando l’auto. Vuoi un passaggio o me ne vado?”
Incateno la bicicletta al primo palo che trovo e salgo. Nonostante l’aspetto un po’ scassato, l’interno è tenuto in ordine, pulito e profuma di… miele?!
Tira su il finestrino, freccia, e riparte. Le spiego dove abito, sembra capire.
Sì, i capelli sono rasati su tutto un lato. Gli altri sono lunghi. Il maglioncino bianco ha le maglie larghe e lascia vedere un reggiseno nero. Completano il quadro una gonnella di jeans e le calze. Ah sì, le unghie smaltate di nero, come il filo di matita intorno agli occhi. La cintura di sicurezza si insinua tra i suoi seni, mettendoli in evidenza.
Sono fradicio. Letteralmente. Sento l’acqua colarmi lungo la schiena e la camicia farmi da seconda pelle.
“A cosa devo questa cortesia?”
“Sono il tuo angelo custode.”
Lo dice così dannatamente seria che, per un momento, quasi ci credo.
“La prossima volta dì al tuo Superiore di infilare un po’ meno sfighe in una volta sola allora.”
“Perché?”
“Così evito di cercare l’arca.”
“Ma se è l’arca ad essere venuta da te.”
La osservo mentre scala due marce per rallentare nei pressi di un “dare la precedenza”.
“Seriamente, perché ti sei fermata? Non mi pare ci conosciamo.”
“No, non ho idea di chi tu sia.”
“Quindi?”
C’è un attimo di silenzio. Ho l’impressione che voglia dire qualcosa ma che cambi idea all’ultimo istante.
“Ti ho visto in difficoltà.”
“Mi stai dicendo che sono stato salvato dall’ultimo buon samaritano del pianeta?”
“Qualcosa del genere.”
I Pink Floyd lasciano spazio ai Queen.
“Piacere, Perseus.”
Lei gira il capo, mi guarda perplessa e ben poco convinta.
“Sul serio?”
“No, ma se ti dicessi il mio vero nome lo saprebbe anche chi leggerà questo racconto per cui…”
“Cosa stai dicendo?”
Rido.
“Lascia stare.”
“Quindi se il tuo è un nome fittizio farò lo stesso anche io.”
“Legittimo.”
“Allora, se tu sei Perseo, io sono Medusa.”
La guardo. In quell’istante svolta nella strada dove abito.
“Questo non è carino.”
“Perché?”
“Perché vuol dire che devo tagliarti la testa.”
Medusa ride, poi si gira verso di me e stringe gli occhi guardandomi minacciosa.
“Non cantare vittoria troppo presto. Potrei farti diventare di pietra.”
Eh no, non l’hai detto veramente!
Non ce la faccio.
È più forte di me.
La mia faccia assume ogni possibile sfumatura maliziosa davanti alla sua sempre più esterrefatta. Se fosse che è buio, qui dentro, credo che vedrei le sue guance diventare rosse.
“NO! NO! Non è quello che intendevo! Dai! Ma sei proprio...!”
Cerca di picchiarmi con la mano libera (la destra, per chi di voi facesse mai confusione) e, mentre rido come un cretino (ed è proprio il caso di dirlo), mi difendo dai suoi assalti.
“Frena! Frena! Questa è casa mia!”
“Sei proprio un vigliacco!”
Freddy sta cantando Don’t stop me now.
Accosta. Si ferma. È serissima. Mi sta guardando malissimo. A me piace.
“La malizia sta in chi ascolta…”
“Ti prego… non scadermi nelle frasi fatte…”
La sua faccia, in questo momento, non ha prezzo!
Alzo le mani.
“Allora Medusa, io sono arrivato. A questo punto mi vien da dire che ti convenga andar per la tua strada, ma sappi che dovrò darti la caccia.”
“Perché?”
“Perché devo tagliarti la testa. Scusa, ma l’idea che tu vada in giro a far diventare di pietra tutti quelli che incontri… non so… non è che mi convinca molto…”
Medusa ride.
“Sei proprio sciocco, lo sai?”
“Ci provo. A volte mi riesce bene, a volte meglio.”
“E modesto.”
“Touché…”
“L’alternativa alla caccia qual è?”
“Salgo, mi faccio una doccia calda, mi metto qualcosa di asciutto e mi sdebito offrendoti una birra.”
“Ti aspetto qui?”
“Oppure sali, ma proportelo così alla prima sera mi pareva un po’ affrettato.”
Ci guardiamo mentre lei pensa cosa fare.
“Potrei salire. Ma se allunghi anche solo un dito io ti pietrifico.”
Sto per parlare ma Medusa alza un dito.
“No, non dire nulla. Non ti permettere!”
Rido.
“Come angelo custode non sei affatto male.”
Scendo dalla punto. Non ha nemmeno provato a diminuire l’intensità del diluvio. Per fortuna Medusa ha un ombrello. Che ha ben cura di non condividere, lasciandomi a prendere ancor più acqua mentre apro il portone di casa.
“Benvenuta nella mia reggia!”
La precedo accendendo le luci e le chiudo la porta alle spalle. Fa due piccoli passi nell’ingresso e si guarda attorno con educazione. L’accompagno in cucina/sala e le porgo una sedia.
“Ecco l’antro del mostro…”
“Vorrei farti notare che, stando alla leggenda e ai ruoli che abbiamo (hai) scelto, in questo momento il mostro sei tu.”
Si siede, appoggia la schiena e accavalla le gambe. Collant. Sono quasi certo che indossi collant. Mi guarda con aria di vittoria. Mi ci vuole un momento per capire.
“Quindi, sei io sono la Bestia… tu sei la Bella?”
Merda. La signorina mi ha messo in castagna.
“Facciamo che fingo indifferenza battendo in ritirata e torno tra un momento?”
“Vai mio eroe, vai!”
Sparisco in camera, mi tolgo tutto di dosso alla velocità della luce e getto a terra, in un angolo. Ci penserò poi. Afferro l’accappatoio al volo e mi chiudo in bagno.
Ora, visto che questo è un racconto erotico e quando l’avete iniziato (ammesso poi che siate arrivati fin qui) l’avete fatto in cerca di sesso, vi aspetterete che Medusa si dimostri trasgressiva oltre misura e si infili nella doccia insieme a me. No via, non ditemi che vorreste una scena così banale e scontata. Vero?
Esco dalla doccia che non succede nulla di straordinario e la ritrovo esattamente dove l’avevo lasciata.
“Perdona l’attesa.”
Alza le spalle. È proprio carina.
“Sei pronto?”
“Quando vuoi andiamo.”
È ipnotico osservare le sue ginocchia che si muovono e si accostano per farla alzare. Resto ad osservarla fin quando non mi sfila davanti per uscire dall’appartamento. Mentre scendiamo le scale ci accordiamo sul locale.
In auto gira Smoke on the water.
“Quindi Dio sta mandando il diluvio universale per farmi incontrare il mio angelo custode?”
“Proprio così.”
“Questo complica le cose.”
“Tu dici?”
“Certo. Se sei mio angelo custode non posso tagliarti la testa.”
Medusa esplode in una risata che presto mi contagia e ci troviamo a ridere come due scemi.
Nel locale non c’è molta gente. Senza dubbio complice la pioggia. I ragazzi ci accolgono con la loro solita cordialità.
“Cosa vuoi da bere?”
“Fai tu.”
“Ma… non conosco i tuoi gusti.”
“Questo rende il gioco più interessante”, e sorride maliziosa.
“Illuminami.”
“Se sono il tuo angelo custode saprai da solo quale sarà la scelta giusta per me. D’altra parte, se sono Medusa, la scelta non ha importanza perché tra non molto diventerai pietra.”
La guardo perplesso.
“Non sono sicuro di quello che hai detto…”
“Perché?”
“Perché mi hai appena detto che qualsiasi scelta farò non avrà importanza. Non è una cosa molto carina, secondo me.”
Medusa sorride. Un sorriso tenero, dolce, pieno di significato. Si allunga in avanti e mi sfiora la mano con la sua. Ha la pelle morbida. E fresca come una giornata primaverile.
“Ti ho appena detto che qualsiasi scelta farai andrà bene perché l’avrai fatta con me, per me e la condivideremo.”
“Oh.”
Medusa si ricompone e mi guarda con quei suoi occhi splendidi. Io vorrei sotterrarmi dopo aver appena collezionato una bella figura di merda.
“Non so cosa dire…”
“Puoi ordinare.”
Lo dice con una naturalezza e una semplicità meravigliose.
Alzo gli occhi sulla cameriera.
“Due kwak.”
“Piccole o medie?”
“Medie.”
“Che birra è?”
Mi appoggio allo schienale, ci guardiamo negli occhi.
“Una birra speciale.”
Mi guarda sospettosa. E io penso che, in quel momento, su quel tavolino di legno scuro, con quelle luci soffuse, assaggerei volentieri le sue labbra. Un pensiero che corre troppo esplicito sul mio volto a giudicare da come mi guarda a sua volta.
“Credo sia stata una scelta giusta mettere questo tavolino tra noi.”
Silenzio. Imbarazzo. Desiderio. Arrivano le birre.
Medusa tira indietro il collo e sgrana gli occhi.
“E queste? Come si bevono?”
Sorrido, divertito. Non nego che un po’ speravo nell’effetto sorpresa di questa birra servita in un bicchiere con il fondo tondo e che, per star dritto, ha bisogno di un supporto di legno.
“Così.”
Prendo il bicchiere, lo sfilo dal supporto e lo allungo verso di lei, aspettando che mi segua in un brindisi.
“Alla pioggia!”
Dice Medusa mentre i bicchieri si toccano.
“Agli angeli custodi!”
Beviamo. Chiacchieriamo. Ci raccontiamo di noi. Ridiamo di scemenze. Torniamo seri su argomenti importanti. Le birre diventano due. Mi racconta di lei. Ridiamo di noi stessi. Le racconto di me. Il tempo si ferma. O almeno vorrei che lo facesse. Invece scorre inesorabile senza alcuna intenzione di regalarci un poco di tempo in più.
E quando restiamo gli ultimi due avventori, con i calici vuoti, forse è il momento di levare le tende.
Siamo alticci. Entrambi. Le cingo la vita con un braccio e la stringo a me mentre lei regge l’ombrello.
L’auto è troppo vicina.
“Vuoi che guidi io?”
“Pensi che non sia capace?”
“No ma…”
Mi interrompe senza lasciarmi finire la frase.
“Pensi che sia sbronza?”
“No ma…”
Stessa scena.
“E allora…”
Mi guardo attorno. Alla fine, per avere una certezza occorre rischiare un’incertezza. O forse non era proprio così… colpa del vino che sto sorseggiando, portate pazienza.
Ad ogni modo, se lei mi ha interrotto due volte, ora tocca a me. E prima che pronunci la terza parola la mia lingua è nella sua bocca.
Sa di birra, di kwak.
Le sue labbra sono meravigliosamente morbide.
La sua lingua è terribilmente invitante.
Sa di buono.
Mi tiro indietro.
Mi guarda seria, non mi sembra molto contenta della mia iniziativa.
“Scusa?”
Ho fatto una cazzata. Mi sto già pentendo. Sorrido.
“Non mi stavi lasciando parlare.”
“Non ho capito.”
“Ho detto che non mi stavi…”
“Non ho capito.”
Mi ha interrotto di nuovo. Sbuffo.
“Ho detto…”
“Non capisco cosa dici.”
Sorride.
E cosa volete farci… sono tonto…
Mentre lei regge l’ombrello io le metto la lingua in bocca.
Questa volta non ci sono freni, non ci sono timori, non ci sono paure.
È un bacio. Vero. Semplice. Bello.
Mi perdo tra le sue labbra.
Si stringe a me e mi appoggia la testa sulla spalla, infilando il naso nella curva del collo. Le cingo le spalle e le accarezzo la schiena.
“Sai... pensavo che non avresti capito…”
“Come mio angelo custode pensavo sapessi che necessito dei cartelli a caratteri luminosi…”
Allunga il collo, mi posa un piccolo bacio proprio sotto la mandibola, strappandomi un brivido.
“Eh… lo so… ma noi angeli siamo sempre ottimisti e ci piace sperare che i nostri protetti, a volte, ci stupiscano…”
“Temo di averti deluso allora…”
Si stringe a me e respiro il suo profumo.
“Solo un pochino… la birra era buona!”
“Solo un pochino…”
Vorrei restare lì per un tempo indefinito. Così, semplicemente abbracciati mentre il mondo annega i suoi problemi nella pioggia.
Le bacio la fronte.
“Tu domani lavori.”
Alza il viso e mi guarda.
“Anche tu, Bella.”
“In diretta da Zelig?”
Mi mostra la lingua. E io gliela rubo con un bacio.
Ci baciamo ancora.
“Ti porto a casa?”
“A dire il vero sono io a portare a casa te.”
Annuisco col capo.
“Vero. Ma fino a casa mia posso guidare io, così, caso mai volesse la sfiga che ci fermassero, non ti porterebbero via l’auto.”
“No… la mia puntina…”
“Eh…”
Si stacca (con mio sommo dispiacere) da me e fruga nella borsa. Ecco le chiavi.
L’autoradio passa The passenger, di Iggy Pop. Per fortuna che non ascolta Rovazzi!
C’è silenzio, un silenzio strano, a cui non ero più abituato da tempo. Da una parte carico di energia positiva per questo strano, fortuito incontro. Dall’altra un silenzio triste perché presto ci lasceremo. È quasi certo che ci incontreremo ancora. Ma il non sapere come, quando o dove rende tutto così… malinconico…
Svolto nella mia.
Il mio civico si avvicina.
Rallento.
“Fanculo.”
Si vive una volta sola, no? Magari, a volte, due, ma questa è un’altra storia.
Ingrano una marcia e riparto.
Medusa mi guarda senza capire.
“Che fai?”
“Vado.”
“E di grazia… posso sapere dove?”
“Presto.”
“Presto cosa?”
“Lo vedrai presto.”
Spengo la radio.
“Tutto bene?”
“Sì, perché?”
“Sei strano.”
Sorrido. Parla come se mi conoscesse da una vita.
“Sto bene.”
Sorride. Si slaccia la cintura e si accoccola sulla mia spalla.
“Mi fa piacere…”
Restiamo così, in silenzio.
È così bello che lei si lasci guidare e non mi riempia di domande sul dove la stia portando.
Lei accarezza la mia mano sul cambio e io guido.
Mi lascio la città alle spalle.
La strada piega verso l’alto, verso le colline.
Le luci della città alle nostre spalle.
La pioggia che ancora non ha smesso di tempestare il mondo.
Svolto in una stradina secondaria.
Accosto.
Spengo il motore.
Le bacio la fronte.
“Vieni.”
“Ma piove…”
“Lo so.”
Scendo dall’auto. Saranno due ore, forse tre ore, ormai, che piove con un’intensità da stagione delle piogge tropicali. Non mi interessa.
La osservo innamorato mentre scende dall’auto e apre l’ombrello. Mi viene vicino ma, in quel momento, le prendo l’ombrello dalle mani e lo chiudo.
“Ehi…”
La guardo negli occhi.
Infilo le mani sotto il maglioncino e lei non si oppone quando glielo sfilo.
“Che stiamo facendo?”
La bacio.
Diluvia, siamo già fradici.
“L’amore.”
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