Storie di mostri - Il serpente

di
genere
pulp

ATTENZIONE: in questo racconto c’è una scena di un aborto abbastanza violenta. Se vi reputate persone sensibili sull’argomento, non continuate con la lettura di questo racconto.

— - —

Mi chiamo Melissa.
Ho 35 anni.
Unn marito che mi ama.
Una casa meravigliosa.
Un lavoro che mi soddisfa.
Un cane di nome Fido.
E anche una bellissima bambina...

...ma non è mia.

La amo da impazzire. Lei è mia figlia, il mio cuore, la luce dei miei occhi, la mia vita. Ma non è mia MIA. Capite?
Non l’ho fatta nascere io.
Non l’ho tenuta in grembo per nove mesi.
Non ho sentito i dolori del parto.
Non ho provato la gioia di tenere quel piccolo fagotto d’amore in braccio per la prima volta.
Non l’ho allattata.
Non le ho dato un nome.

Questo perché non mi è stato concesso.
Perché qualcuno mi ha rubato il dono di ogni donna.
Qualcuno mi ha tolto la libertà di avere figli.

Tutto accadde un venerdì...

—— - - - - ——

Avevo 19 anni. Ero uscita con il mio ragazzo, Emanuele. Era passata da poco l’ora di pranzo e io e lui avevamo deciso di gustarci una crêpes.
Mi ricordo che io l’avevo presa con doppio strato di nutella e tanto zucchero a velo.
Daniel, con il mascarpone.
È strano come funzioni la memoria: di quel pomeriggio ricordo pochissimo.
Mi ricordo la crêpes, il suo sapore, il suo profumo, come Daniel mi avesse presa teneramente in giro per i miei baffi di nutella, la sua stretta di mano, i suoi teneri baci. Ma non ricordo cosa avessimo fatto nello specifico.
Nella mia memoria siamo sempre stati in quella creperia, coccolati da un amore giovane e spensierato, dove l’unica preoccupazione era avere quei 2 euro e 50 per mangiare.
Lui, invece, continua a dirmi che in realtà lui era dovuto scappare a casa, perché suo fratello piccolo aveva quasi bruciato la cucina per farsi un toast.
E io avevo deciso che avevo comunque voglia di stare ancora un po’ in giro prima di tornare a casa.
Dopotutto era estate.
E a Castro, in Puglia, faceva un caldo allucinante.
Eppure la mia mente non ricorda questa decisione.
Forse è non lo ricordo perché desidero fosse andata diversamente, perché vorrei tanto essere andata a casa anche io o non essere mai uscita da quella creperia.

Non ricordo come sono arrivata in quel parchetto.
Ricordo solo il cane.
Era un Beagle. A me piacciono i Beagle. Il mio cane di nome Fido è un Beagle.
Mi venne incontro e cominciò a farmi le feste. Mi leccava, mi saltava addosso, abbaiava in modo giocoso.
Giocai con quel cane per circa dieci minuti, prima di accorgermi che aveva una medaglietta: “Ariel? Come La Sirenetta! Sei bellissima!”
Ero impazzita alla vista di quel cane.
Giocavamo sotto il sole e io sentivo il sudore colarmi sulla schiena, sulla fronte, tra il naso e il labbro superiore
Ariel sembrava instancabile!

“Fa così solo con le persone che le piacciono!” era stata la voce di un uomo a parlare. Mi fermai e Ariel corse verso il suo padrone: un quattrocchi con la piega dei capelli a sinistra, spiaccicata sul cranio come se, al posto del gel, avesse avuto la bava del suo cane.
Mi sembrava vagamente familiare, ma io sono uno schifo nel ricordare nomi, facce o quant’altro.
“Salve. È un amore!”
“Oh, lo so! Ma ci sono dei giorni in cui mi fa dannare! Non sta ferma un secondo, vuole sempre giocare!”
“Beh è socievole! Ci sono cani che sono molto aggressivi e per niente amichevoli.”
“Sono d’accordo.”
Continuai a fare qualche carezza ad Ariel, prima che lui parlasse di nuovo: “Sei Melissa, vero?”
“Sì, perché? Ci conosciamo?”
“Oh...non proprio. Sono il commesso della pasticceria sotto casa vostra. Quella da dove passate sempre te e tua madre.”
Di colpo mi venne in mente. Dietro al bancone, con il grembiule.
“Ahh sì! Non l’avevo riconosciuta senza grembiule! Come sta?”
“Tranquilla! Io sto benissimo! A parte questo caldo! E anche Ariel dovrebbe mettersi all’ombra. Anzi, dovremmo tornare a casa, i cuccioli avranno nostalgia!”
Che merda. All’epoca non mi era passato neppure per l’anticamera del cervello che fosse una stronzata.
Dovevo notare tutti quei dettagli che mi vengono in mente adesso: lo sguardo affamato, la lingua umida che si era leccata il labbro.
Ma io avevo fatto caso solo ad una cosa: “Cuccioli?”
Quella parola è stata la mia rovina.
“Oh sì! Ariel ha avuto una bella cucciolata un paio di mesi fa!”
“Oddio che bello! Che carini!”
“Se ti interessa, posso regalartene uno.”

Dovevo dire di no.

“Davvero?”
“Oh sì! È un peccato darli via, ma non ho lo spazio in casa per poterli tenere. Così sto chiedendo un po’ in giro se a qualcuno farebbe piacere un cane in casa.”

Dovevo dire: “No, cazzo! Non mi interessano i tuoi cani immaginari! E ora vai via!”
O anche non così drastico: “Mi dispiace, ma no grazie, nemmeno io ho spazio in casa. Arrivederci.”

E invece andò diversamente.

La sua macchina era troppo profumata. A livello quasi nauseabondo. Piena zeppa di Arbres Magiques tutti uno diverso dall’altro.
Il cane era stato relegato nel bagagliaio.
Per tutto il tragitto mi ero sentita a disagio. Il silenzio regnava l’abitacolo.
Lui mi lanciava occhiate strane, accompagnate ogni tanto da una risatina quasi infantile.
Cominciai a pensare che avesse qualche problema.
Ogni tanto allungava una mano grassoccia per toccarmi. Una volta una ciocca dei miei capelli castani, una volta il portachiavi appeso alla mia borsetta, un’altra volta il ciondolo a forma di casetta del braccialetto che avevo fatto con mia mamma.
Erano strani quei contatti.
Era come se si stesse pregustando un pasto succulento.
Ma arrivammo a casa sua.

Non c’era nessun cucciolo. Nessun altro cane.

Mi ero ritrovata legata con una catena al muro.
Il sangue mi usciva da una ferita sul sopracciglio.
E i miei vestiti erano spariti.
Ero entrata nel panico. Il mio carceriere mi guardava dall’alto.
Io rannicchiata a terra come un cerbiatto appena nato e lui in piedi di fronte a me.
Avevo provato a fargli delle domande. Domande banali. Domande stupide. Domande disperate.
Cosa ci faceva lì? Perché ero nuda? Perché ero incatenata al muro?
Lui non aveva risposto a nessuna di queste.
Aveva cominciato a parlare a vanvera di quanto gli piacessi, di quanto si sentisse solo, di quanto voleva un cucciolo tutto per sé.
E io pensavo ai cuccioli di cane.

La cosa che più mi aveva lasciata basita e inorridita era il fatto che nonostante io piangessi, lui non si fermava. Né quella prima volta, né le centinaia che seguirono.

Sì era abbassato la zip dei pantaloni e mi aveva penetrata con forza, senza alcuna tenerezza o accortezza.
Talmente ero secca, mi sembrò che fosse entrato un ferro rovente dentro di me.
La sua pelle sudaticcia e umida scivolava sulla mia.
Avevo la sua lingua che mi leccava le lacrime che solcavano le guance.
Non era un gesto d’affetto, semplicemente mi voleva leccare, sgranocchiare come un cane con l’osso.
La dermatite che aveva nei capelli mi ricadeva sul corpo come tante scaglie di pelle morta.
Ogni vota venivo stuprata da un serpente che fa la muta.

Mi ricordo che la prima volta provai un dolore pazzesco. Era come se mi stesse squarciando il ventre.
Continuavo a chiamare inutilmente Emanuele, la mamma, il papà. Chiunque. Volevo che mi sentissero.
Urlavo a squarciagola. Urlai così tanto da farmi male.

A volte mi tappava la bocca con la sua mano grassoccia, la stessa mano che mi aveva dato i dolci in pasticceria per così tanto tempo.
Avevo provato a mordergliela, ma come unico risultato mi ritrovai una manica di botte.

Quando non facevo la brava, come lui voleva, mi picchiava.
Mi picchiava anche mentre mi scopava. Avevo lividi neri e viola ovunque.
La mia faccia era diventata quasi irriconoscibile talmente era gonfia.
Diceva che dovevo essere obbediente, come Ariel.

Una delle cose che mi faceva più schifo era il suo sperma. Sborrava dove più gli piaceva. Una volta pure nell’occhio! A momenti diventavo cieca!
Mi sentivo sporca, puzzolente, brutta.
Non mi lavava quasi mai, solo una volta a settimana mi portava un catino con dell’acqua.
Mi lavavo via il suo sperma secco dal corpo, dalle cosce, dalla faccia, dai capelli.
Sperma di un viscido serpente con gli occhiali e dei capelli di merda.
E quello sperma era tanto.

Così tanto che un giorno, mi accorsi che il ciclo non mi arrivava.

No, no, no, no!

Non potevo essere incinta! Non in quel luogo! Non in quello schifo! Non da quel serpente!
Avrei dato alla luce mio figlio su un pavimento freddo e polveroso di una buia cantina, con i polsi incollati al muro da catene arrugginite.
Avrebbe dovuto succhiare anche lo sperma oltre al latte!

Eppure. Era mio figlio. L’unico sprazzo di gioia che avrei mai potuto provare. Un amore che cominciava a crescere. Una scintilla, sì. Ma quanto è importante una piccola scintilla nel nero cosmico?

Non gli dissi niente. Mi lasciai violentare come più gli pareva. Anche nel culo.
Una parte di me, ingenuamente e stupidamente, pensava di poter nasconderlo.
Ma dopo un paio di mesi, non avevo più la pancia così piatta. Non era così evidente, ma si vedeva.
Un pancino piccolo piccolo.
Fu una sera che lui lo scoprì. Scese in cantina come tante altre volte, si tolse i vestiti, si mise sdraiato dietro di me e cominciò a penetrarmi come al solito.
Ormai io non urlavo neanche più. Mi lasciavo spupazzare, stremata dalle grida e dalle botte. Non potevo rischiare di farmi menare, il mio bambino sarebbe stato male.
Il mio corpo sobbalzava ad ogni colpo e lui mi grugniva come un maiale nell’orecchio.
Il suo alito caldo veniva accompagnato dal
*PAF*
*PAF*
*PAF*
che produceva il suo scroto sbattendo sulla mia pelle.
Speravo non lo notasse: “Ma che cazzo! Com’è che stai ingrassando solo da un lato?! Eppure non mangi così tanto!”
“...non è grasso...”
Non so come mi uscì. Forse perché tanto, prima o poi, l’avrebbe scoperto da solo.
“No, cazzo! Non puoi essere incinta!”
“E invece lo sono per forza, perché continui a venire dentro come vuoi e la pillola non l’ho più presa da quando mi hai trascinata in questo buco di merda!”
Lui sgusciò via in un secondo, dirigendosi verso un angolo della cantina.

In mano aveva un manubrio.

“Adesso fatti andar via quella cosa!” sibilò lui minaccioso, dirigendosi verso di me. Teneva il manubrio così stretto da avere le nocche bianche e le vene in rilievo.
“Non provarci nemmeno! Non provare a toccarmi!” gli urlai contro.
Provai ad evitarlo.
Ma ero affamata.
Stanca.
Sfinita.

Lui fu più veloce.

Un colpo secco.

Dritto.

Doloroso.

Mi morì un urlo in gola. Fuoriuscì un gemito strozzato di dolore.

Mi lasciò lì a terra. Rannicchiata in posizione fetale, con le lacrime agli occhi e il sangue che dilagava per terra. Su quel pavimento freddo e polveroso su cui avrei dovuto partorire.

Volevo solo morire.

—— - - - - ——

Mi ritrovarono proprio grazie ad Ariel.
Quella santa, quella cagnetta santa!
Aveva deciso di usare il mio braccialetto come giochino.
Lo mordeva e lo leccava, portandolo in giro.
E in uno dei suoi giri, si era imbattuta in Emanuele e mia mamma.
Lo avevano riconosciuto subito.

Venni liberata una settimana dopo.

Lui andò in prigione.

Io feci tutto ciò che era in mio potere per riprendere in mano la mia vita.

E ci riuscii.

Emanuele e io ci sposammo.
Realizzai il mio sogno e divenni una giornalista.
Andammo a vivere in una bella casa in riva al mare.
Adottammo un cane e lo chiamammo Fido.
E la bambina la adottammo anche lei.

Perché per colpa di un serpente, non posso avere figli.
scritto il
2018-10-19
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