Tra Vecchio e Nuovo - Zia e Nipote - Capitolo I

di
genere
incesti

Matteo finì di mettere gli ultimi vestiti in valigia con una certa malinconia, in quel giorno di inizio settembre che sembrava ancora richiamare un’estate che aveva un conto in sospeso con quell’angolo di mondo. Era un momento fondamentale nella sua vita, quello. Lasciare tutto e partire non è mai facile per nessuno, specialmente per uno come lui, molto attaccato alla sua terra, ai suoi cari e alle sue tradizioni. Nel profondo del suo cuore, sapeva che quelli erano per lo più impedimenti dovuti ad un suo retaggio culturale dovuto all’insegnamento che aveva ricevuto, ma era sempre difficile trovare il confine nel proprio animo tra la personalità e ciò che invece viene imposto dalla società.

‘La famiglia prima di tutto’, gli avevano insegnato. E lui ci credeva fermamente a quella massima, ma ci credeva per sua convinzione o perché glielo avevano ripetuto così tante volte da far sì che si cementificasse in lui quella regola? A questo Matteo non sapeva rispondere. Si consolava con il fatto che non sarebbe rimasto completamente senza famiglia, nella fredda Milano.

Al termine del liceo a Matteo si erano palesate due possibilità: andare all’università o andare a lavorare nel bar del padre, in quel paesino in provincia di Bari nel quale vivevano, dimenticato da Dio e dallo Stato. Per fortuna entrambi i genitori di Matteo erano furbi. Non colti, istruiti o particolarmente intelligenti, ma erano dannatamente furbi. Quando il governo riformò il sistema agrario italiano negli anni del dopoguerra, a suo padre Peppino e sua madre Anna andarono di diritto una quindicina di ettari non coltivati che prima lavoravano per il padrone del posto e dai quali non ricavavano che un’esigua somma per farli tirare a campare. La coppia li vendette tutti di nuovo al padrone che li ricomprò ad una cifra generosa, ovvero l’indennizzo che lo Stato gli aveva dato per l’espropriazione. Con quei soldi comprarono un bar e guadagnarono bene negli anni del boom economico e anche in quel momento in cui in realtà le fortune italiane andavano rallentando inesorabilmente, in quel 1968 nel quale Matteo era pronto a trasferirsi nella grigia ma vivissima città lombarda che sembrava poter garantire fortune infinite, stando ai racconti degli emigrati fin lassù.

Uno di questi era la zia Rita, sorella della madre di Matteo, che con la sua parte di denaro ricavata dalla vendita dei terreni, aveva deciso piuttosto, di tentar la fortuna nell’industriale e avanzato nord. E ce l’aveva fatta, inaspettatamente, aveva fatto veramente la fortuna, ben più di sua sorella Anna. I primi anni erano stati difficili, fatti di sacrifici, notti insonni trascorse nel pianto, pasti saltati e turni di straordinari in fabbrica. Ma alla fine aveva trovato un lavoro migliore, come segretaria per un noto avvocato penalista milanese. Sapeva leggere, scrivere e far di conto, lo aveva imparato a scuola ed era la prima della classe, aveva quel che bastava per essere una segretaria, senza contare la bella presenza essendo una donna di una certa eleganza, disinvoltura e spigliatezza, qualità che in un mondo ancora così maschilista erano indispensabili. Rita era veramente una bella donna, anche se non era più nel fiore dei suoi anni, la provvidenza l’aveva ben fornita di una quarta di seno su un fisico in carne ma bilanciato, più tendente alla dolcezza ed armonia delle forme che ad un semplice ammasso di carne. Era nera di capelli come era nera di occhi ed entrambi i colori erano intensi e profondi, dando una bellezza quasi selvaggia al suo viso segnato dal trascorrere del tempo che lo rendeva comunque ancora di una non trascurabile attrattività. Tutte queste doti non erano nulla in confronto a ciò che l’aveva veramente fatta sopravvivere. Se sua sorella Anna era furba, Rita lo era altrettanto. Inoltre, aveva la capacità di cambiare, di evolvere, di adattarsi alle situazioni. Oltre ad essere innate, queste abilità si acquisiscono quando si emigra, quando ci si lascia il proprio mondo alle spalle volgendo lo sguardo verso nuovi orizzonti, aprendo la mente a nuove realtà. La mente di Rita era veramente aperta, non solo nei confronti del contesto culturale nel quale era cresciuta di un arretrato paesino di campagna, ma addirittura per la moderna città dei consumi che esplodeva in quegli anni.

Era stata proprio lei a convincere Matteo, suo nipote, a fare altrettanto e seguire il suo esempio. Per spronarlo a proseguire gli studi, gli aveva addirittura offerto vitto e alloggio presso il suo appartamento in città. Un’occasione che solo uno stupido, o un babbalusc' come si diceva nel loro dialetto, si sarebbe fatto scappare.

E così Matteo ora era lì, in camera sua, a finire di riempire quella valigia marrone che suo padre aveva preso al mercato il sabato precedente. Gli amici li aveva già salutati e una ragazza da salutare invece non c’era mai stata, quindi il problema non gli si poneva nemmeno.

Con l’amaro gusto della tristezza si mise in viaggio. Prima un autobus di linea fino a Bari e poi un treno, diretto, pieno di migranti e sradicati come lui, fino alla città della nebbia e dalla strana parlata. Per scacciare la malinconia, Matteo decise di prendere quell’avventura come una missione di riscatto famigliare e del resto era così che i suoi genitori l’avevano presa. Un figlio laureato era un sogno che si avverava. Loro contadini e lui laureato; non c’era modo migliore di poter far felici due genitori. E non una laurea qualsiasi, ma in legge, per farlo diventare avvocato. La zia Rita parlava sempre di quanto si guadagnasse bene con quel mestiere.
“Anche solo essere un calzino di un avvocato, ne varrebbe la pena, date retta a me. Potresti studiare legge.”

Vista l’insistenza della famiglia, Matteo aveva deciso di iniziare veramente quel percorso. L’idea di vivere con la zia poi, non gli dispiaceva affatto. Ben poche persone aveva incontrato che sapevano emanare un fascino magnetico del genere. Una donna elegante, sensuale, forte, indipendente, così in contrasto con tutto quello che aveva imparato del genere femminile, così contraddittoria nei confronti della cultura dominante e dal suo classico circondario. Rita era veramente una persona fuori da ogni schema e in qualche modo, Matteo l’aveva presa anche a modello e punto di riferimento.

C’era solo un’imperfezione nella vita di quella donna, un qualcosa che effettivamente sfuggiva alla famiglia intera, di cui però solo Matteo se ne infischiava, causando invece enorme turbamento negli altri. Tutti colpevolizzavano Rita di non essersi trovata un uomo nella propria vita, un marito che la sposasse, qualcuno che la prendesse con sé. Era un gran disonore essere arrivati alla soglia dei quarantacinque anni scapoli e soli. Quando durante le riunioni di famiglia in occasione delle festività qualcuno inevitabilmente apriva il discorso con Rita, lei andava in escandescenza e si finiva quasi sempre in litigio.

Sull’intercity che stava tagliando da sud a nord lo stivale, Matteo si addormentò più volte, con la valigia ben stretta tra le gambe e un libro aperto in mano, tenuto con debole presa e sempre in procinto di cadere. Nel perenne stato di dormiveglia il ragazzo pensava alla vecchia vita che si lasciava alle spalle e alla nuova che gli si schiudeva davanti. Tutto ciò lo turbava ed eccitava al tempo stesso, il gusto del nuovo che avanza ma la nostalgia del vecchio che seduce la memoria, debole alle tentazioni del passato quanto curiosa nei confronti dell’avvenire futuro.

E poi, sua zia Rita che lo avrebbe aiutato e ospitato. Molte persone si lasciavano guidare dalle catene migratorie: parenti e amici emigrati prima che si stabiliscono sul territorio portandosi dietro la famiglia, fornendo quell’aiuto e quella conoscenza del territorio che invece loro non avevano avuto la fortuna di trovare. Quindi non c’era nulla di strano nel fatto che per i prossimi cinque anni della sua vita Matteo avrebbe vissuto dalla zia, eppure un po’ di imbarazzo lo sentiva, nonostante ci fosse comunque grande confidenza con Rita.

Dopo il lungo viaggio con il treno, Matteo arrivò finalmente alla stazione centrale di Milano, grande e caotica per un diciannovenne che non era mai uscito dalla Puglia. Una fiumana di persone e bagagli che si muovevano come formiche in quel dedalo di binari d’acciaio e sbuffanti treni. Come prestabilito al telefono, Matteo doveva uscire dalla stazione e cercare il ristorante Miradoni che sarebbe dovuto trovarsi esattamente davanti all’entrata principale della stazione. Quello era il luogo designato per l’incontro. Dopo qualche peripezia e un po’ di informazioni raccolte dai passanti, il ragazzo riuscì a recarsi fin lì.

Rita era seduta su una panchina proprio di fronte al ristorante. Aveva un vestito di stoffa tendente ad un giallo vivace, che la copriva fino ad appena poco più giù delle ginocchia, lasciandole il resto delle gambe bianche scoperte. Il petto imponente della donna reclamava una scollatura che però era abbottonata quasi fino al collo, ingabbiandole il prosperoso seno. Sul capo invece aveva un cappello di paglia, con il quale Matteo l’aveva vista fin dalla sua più tenera età. Appena vide sua zia, non poté fare a meno di pensare a quanto sembrasse radiosa e in forma. Quando poi anche lei riconobbe il nipote, i due si andarono incontro per unirsi in un amorevole abbraccio.
“Ma quanto sei cresciuto!” Fece Rita con entusiasmo guardando dalla punta dei piedi fino alla testa il ragazzo.
“Ti trovo bene zia. Come stai?” Replicò Matteo un po’ imbarazzato dopo l’essere stato così tanto a contatto con le forme della donna.
“Io bene, come al solito. Finalmente sei arrivato! Questi treni, sempre in ritardo, eh?”
“Sì. Poi il viaggio è durato un’eternità, non finiva più.”
“Sarai stanco. Ora ce ne andiamo a casa, così disfi la valigia.” Annunciò Rita facendogli cenno di avvicinarsi ad un taxi.
Anche l’autobus sarebbe andato bene per lui, ma Rita preferì il taxi, potendoselo permettere. Ed effettivamente fu ben più comodo, dato che raggiunsero l’appartamento in meno di venti minuti evitando contatti indesiderati con puzzolenti passeggeri dei mezzi pubblici.

Matteo si sistemò in quella che sarebbe stata la sua camera nei prossimi anni, proprio affianco a quella di sua zia. Il ragazzo respinse dentro di sé quella nostalgia che lo stava già tediando e per distrarsi, si affacciò alla finestra per guardare la città dall’altezza del quinto piano di quella palazzina così nuova e moderna rispetto alle vecchie e lugubri costruzioni che vedeva nel suo paese. Da lassù la città sembrava vibrare di vita, come un organismo vivente. Il sole cominciava già a nascondersi dietro l’orizzonte e colorava d’arancione il cielo e il riflesso dei vetri delle case del quartiere.
“Forza Matteo, vieni a cenare!” Lo chiamò sua zia dall’altra stanza.
“Ma non sono nemmeno le otto ancora!” Rispose stupito.
“Ormai mi sono abituata così, qui si mangia presto.”
-Beh, devo cominciare una nuova vita, dopotutto.- Pensò il ragazzo abbandonando alle sue spalle il sole che a sua volta, concludeva un ciclo della sua esistenza.
scritto il
2019-02-15
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