Gaia
di
Semiramis
genere
masturbazione
Gaia o Gea. Dalla Terra per la terra.
Gaia era figlia di una contadina di Ciaulà, ed era figlia della terra e della campagna. Raccoglieva nei campi la mattina e la sera metteva la gonna larga. Non conosceva che i misteri della terra, era bella, primigenia nella sua innocenza. La madre le ricordava che i campi non le coloravano la pelle perché lei aveva il sangue dei signori nel corpo, quello che ti protegge dal sole delle montagne e ti fa sempre essere bianca. Ma Gaia aveva anche dei segreti. Io la osservavo, c'era aria di città da un po' in lei. Non era colpa mia, io ho fatto i miei danni ma su Gaia non ne avevo di influenze. L'unica ed indiretta era sui suoi seni gonfi e sudati di ritorno dai campi, la vita che le esplodeva dal corpo sano e vivave come un colmo bicchiere di vino fresco e moscato, il chiarore del sudore rifletteva la luce come le gocce del bicchiere appannato dal fresco. Mi fermavo a guardare le tette mature che le sbocciavano quando la madre si fermava a salutarmi sotto il sole, il beneficio di conoscere una di città che corre per stare in forma piuttosto che per lavorare. Ma era mio il beneficio, quella natura mi dava l'ennesima certezza che qualche mondo doveva ancora scoprire, che non tutti riuscivano ancora a resistere al rintocco di una campana.
Gaia andava alle messe puntuale e precisa, dopo il lavoro. Profumata di palmolive e certezze si perdeva tra le voci troppo roche per la sua rossa e calda lingua. Un segreto, un segreto lo aveva e certamente non era il solo. Andava a bere alla sorgente giù alla collinetta della Monca, lì beveva e si era anche bagnata un vestitino della festa in un giorno di maggio. L'acqua che le scendeva dalle gambe però non era fredda e non era troppa per essere della sorgente. Un dolore o forse no, era tornata a casa e aveva visto qualcosa che non le apparteneva. Si asciugava tra le gambe ma continuava a restare calda e umida e quella pelle sottile voleva essere asciugata, ancora, ancora...poi con le mani e la vergogna. Un rossore... un senso di sbagliato, i campi, il profumo, il denim fresco, ancora umidità, cosce serrate e senso di calore alla gola, dita dei piedi arricciate, l'asciugamano che fa male, non la stava più asciugando era una cosa diversa. Basta, basta, o forse no, ancora no, si lisciava il pelo... via questa!
Le mani.
Tante volte le mani lì e poi un senso di caldo dalla pancia a scendere fin giù. Il volto di Fabrizio e poi un senso di bene e subito dopo di sporcizia.
Un pianto, di gioia o di benessere?
Fabrizio, fabrizio e quel suo dopobarba scadente, di quelli che hanno solo i barbieri dei villaggi ormai. Si vergognava dei barbieri Gaia ma quel giorno era andata a comprarlo. Un bel pacchettino, era per un amico, un pensiero gentile per un ragazzo che doveva partire per tornare in città.
Torna a casa, oggi cucina lei perché non è andata ai campi. Sale le scale e il marmo la accompagna quasi sollevandosi, lo sente di nuovo, è brutto, è brutto, non deve farlo.
Scarta il pacchetto e nasconde la carta nel primo cassetto poco vuoto e sente di nuovo quel calore, prende un fazzoletto di cotone, lo spiega. È bianco, candido e puro e lei? Lei lo guarda e lo vede rosso, lo stringe tra le gambe dopo aver sollevato goffamente la gonna leggera. Si inizia ad asciugare, l'ha già fatto, e le si bagna ancora e lei asciuga e asciuga. Stringe, serra, chiude.
Apre la narici alla bottiglia di denim e lo manda fino alla testa e le cresce quel dolorino giù.
Vede Fabrizio, lo vede di nuovo.
Spinge il fazzoletto tra le cosce e sente lui, si stende e chiude gli occhi.
Questa volta il fazzoletto è troppo bagnato, ha bisogno di altro, guarda il legno laccato dei mobili troppo vecchi. Una spalliera liscia e chiara, ci stende poco il lenzuolo.
Bianco.
Stringe con le cosce e le muove, dalla lingua le esce fiato sonante, libera i seni...
È come quando ha freddo, bello, li vede dritti e le piacciono così e struscia il suo Fabrizio tra le cosce.
Alla gola, alla bocca secca, lo sente.
Le ragazze che vanno di sera alla collinetta della Monca, anche lei andrà...
Di nascosto...
-Ah sì, ci andrò- si dice.
Come se avesse detto cazzo o fica o qualcosa di brutto come sesso e preservativo. Pensa cose sporche come non ha mai fatto.
Si farà toccare da Fabrizio, lui le tocca le altre, ma come fa a crescere questo senso di bene col solo pensiero, si chiede. Lei chiude gli occhi, pensa le cose che le hanno detto sempre di non fare ed una scarica le giunge lì, quanto le piace!
Bello, bello, fin troppo, non mi fermo, no... ancora poco, poco, poco...
Di nuovo, ma non le è bastato. Si rimette in sesto e si annusa. I seni pian, piano le tornano lisci e morbidi, come quando è caldo.
Chiude il suo Fabrizio nel cassetto.
Adesso non ha ancora meno voglia di andare alla collinetta della Monca. Sente bussare.
-Chi è?-
In fretta e furia si rimette in sesto.
Apre e sono tornati tutti ma il pranzo non è pronto e lei è rossa in viso. Prenderà qualche rimprovero ma poi tornerà col suo Fabrizio, aspettando l'altro.
Gaia era figlia di una contadina di Ciaulà, ed era figlia della terra e della campagna. Raccoglieva nei campi la mattina e la sera metteva la gonna larga. Non conosceva che i misteri della terra, era bella, primigenia nella sua innocenza. La madre le ricordava che i campi non le coloravano la pelle perché lei aveva il sangue dei signori nel corpo, quello che ti protegge dal sole delle montagne e ti fa sempre essere bianca. Ma Gaia aveva anche dei segreti. Io la osservavo, c'era aria di città da un po' in lei. Non era colpa mia, io ho fatto i miei danni ma su Gaia non ne avevo di influenze. L'unica ed indiretta era sui suoi seni gonfi e sudati di ritorno dai campi, la vita che le esplodeva dal corpo sano e vivave come un colmo bicchiere di vino fresco e moscato, il chiarore del sudore rifletteva la luce come le gocce del bicchiere appannato dal fresco. Mi fermavo a guardare le tette mature che le sbocciavano quando la madre si fermava a salutarmi sotto il sole, il beneficio di conoscere una di città che corre per stare in forma piuttosto che per lavorare. Ma era mio il beneficio, quella natura mi dava l'ennesima certezza che qualche mondo doveva ancora scoprire, che non tutti riuscivano ancora a resistere al rintocco di una campana.
Gaia andava alle messe puntuale e precisa, dopo il lavoro. Profumata di palmolive e certezze si perdeva tra le voci troppo roche per la sua rossa e calda lingua. Un segreto, un segreto lo aveva e certamente non era il solo. Andava a bere alla sorgente giù alla collinetta della Monca, lì beveva e si era anche bagnata un vestitino della festa in un giorno di maggio. L'acqua che le scendeva dalle gambe però non era fredda e non era troppa per essere della sorgente. Un dolore o forse no, era tornata a casa e aveva visto qualcosa che non le apparteneva. Si asciugava tra le gambe ma continuava a restare calda e umida e quella pelle sottile voleva essere asciugata, ancora, ancora...poi con le mani e la vergogna. Un rossore... un senso di sbagliato, i campi, il profumo, il denim fresco, ancora umidità, cosce serrate e senso di calore alla gola, dita dei piedi arricciate, l'asciugamano che fa male, non la stava più asciugando era una cosa diversa. Basta, basta, o forse no, ancora no, si lisciava il pelo... via questa!
Le mani.
Tante volte le mani lì e poi un senso di caldo dalla pancia a scendere fin giù. Il volto di Fabrizio e poi un senso di bene e subito dopo di sporcizia.
Un pianto, di gioia o di benessere?
Fabrizio, fabrizio e quel suo dopobarba scadente, di quelli che hanno solo i barbieri dei villaggi ormai. Si vergognava dei barbieri Gaia ma quel giorno era andata a comprarlo. Un bel pacchettino, era per un amico, un pensiero gentile per un ragazzo che doveva partire per tornare in città.
Torna a casa, oggi cucina lei perché non è andata ai campi. Sale le scale e il marmo la accompagna quasi sollevandosi, lo sente di nuovo, è brutto, è brutto, non deve farlo.
Scarta il pacchetto e nasconde la carta nel primo cassetto poco vuoto e sente di nuovo quel calore, prende un fazzoletto di cotone, lo spiega. È bianco, candido e puro e lei? Lei lo guarda e lo vede rosso, lo stringe tra le gambe dopo aver sollevato goffamente la gonna leggera. Si inizia ad asciugare, l'ha già fatto, e le si bagna ancora e lei asciuga e asciuga. Stringe, serra, chiude.
Apre la narici alla bottiglia di denim e lo manda fino alla testa e le cresce quel dolorino giù.
Vede Fabrizio, lo vede di nuovo.
Spinge il fazzoletto tra le cosce e sente lui, si stende e chiude gli occhi.
Questa volta il fazzoletto è troppo bagnato, ha bisogno di altro, guarda il legno laccato dei mobili troppo vecchi. Una spalliera liscia e chiara, ci stende poco il lenzuolo.
Bianco.
Stringe con le cosce e le muove, dalla lingua le esce fiato sonante, libera i seni...
È come quando ha freddo, bello, li vede dritti e le piacciono così e struscia il suo Fabrizio tra le cosce.
Alla gola, alla bocca secca, lo sente.
Le ragazze che vanno di sera alla collinetta della Monca, anche lei andrà...
Di nascosto...
-Ah sì, ci andrò- si dice.
Come se avesse detto cazzo o fica o qualcosa di brutto come sesso e preservativo. Pensa cose sporche come non ha mai fatto.
Si farà toccare da Fabrizio, lui le tocca le altre, ma come fa a crescere questo senso di bene col solo pensiero, si chiede. Lei chiude gli occhi, pensa le cose che le hanno detto sempre di non fare ed una scarica le giunge lì, quanto le piace!
Bello, bello, fin troppo, non mi fermo, no... ancora poco, poco, poco...
Di nuovo, ma non le è bastato. Si rimette in sesto e si annusa. I seni pian, piano le tornano lisci e morbidi, come quando è caldo.
Chiude il suo Fabrizio nel cassetto.
Adesso non ha ancora meno voglia di andare alla collinetta della Monca. Sente bussare.
-Chi è?-
In fretta e furia si rimette in sesto.
Apre e sono tornati tutti ma il pranzo non è pronto e lei è rossa in viso. Prenderà qualche rimprovero ma poi tornerà col suo Fabrizio, aspettando l'altro.
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