Bar Rolando
di
mare_di_beaufort
genere
pulp
Il pomeriggio lo passo al bar insieme al Crippa e a pochissimi avventori. Alla radio c’è ‘Tutto il calcio minuto per minuto’, ma nessuno sembra prestargli troppa attenzione. Verso le quattro e mezza il Gianni ci chiede se vogliamo provare qualcosa di speciale. Vada per ‘sto qualcosa di speciale, gli dico.
Il barista tira fuori un frullatore, tre banane, un limone, cubetti di ghiaccio e una bottiglia di rum. “Rum vecchio della Martinica, e banane di quelle piccole, le migliori”, dice mentre inizia a sbucciarle e a tagliarle a fette sottili che mette nel bicchiere del frullatore. Le pale le aggrediscono e le riducono a polpa. Poi aggiunge una stessa quantità di rum insieme a succo di limone e a qualche cubetto di ghiaccio. Scuote lo shaker in maniera discreta senza quella gestualità da barman da discoteca strafatto di coca. Infine versa la miscela color avorio in due bicchieri di vetro opaco e ce li porge un tot professionale.
“Ecco!”, ci fa mentre appoggia i bicchieri sul tavolo.
“Cos’è questa delizia?”, gli chiedo.
“Banana Daiquiri. Nella mia gerarchia dei cocktail classici viene dopo solo il Martini Dry e il Manhattan. Senti solo la poetica del nome”.
“Mah! Per me l’unica poetica è quella del palato. Gli alcolici non meritano neanche di essere guardati. Via, giù e pronto un altro subito”, gli ribatte il Crippa mentre svuota il bicchiere in due sorsate, con una pausa fra l’una e l’altra che gli serve per masticare i residui della banana. Io, invece, procedo più lentamente con sorsate brevi per gustare la solidità dolce ed aspra dell’intruglio prima in tutta la bocca sino alle estremità superiori della mascella e poi anche giù nelle viscere. Ed intanto osservo la parte solida della soluzione che scende lentamente verso il basso e si deposita sul fondo del bicchiere.
Gianni sta contemplando gli effetti del suo lavoro sui nostri volti con un sorriso tutto nicotina. Gli chiedo se si siede con noi a bere un goccio, con gli amici. Lui ghigna duro e fa: “Con gli amici che ho? Con il mestiere che faccio?”, mentre si batte le dita su una tempia, “Te l’immagini se bevesi anch’io, che apocalisse qua dentro ..” e senza aggiungere nulla offre un altro giro al Crippa che continua a sorseggiare con calma apparente.
Aspetto che mandi giù, poi parto: “Allora?”, gli chiedo, certo del fatto che l’alcool l’ha portato su di giri.
“Allora cosa?”, risponde il Crippa con un sorriso a mezza bocca che sa già dove voglio andare a finire.
“Allora un cazzo .. con la tipa, quella la, come si chiama? Hai fornicato o no, figliolo? A me lo puoi dire”.
“La Sonia. E’ stato carino”, mi risponde usando un tono e ‘sto termine ‘carino’ che quasi quasi lo guardo e non credo ai miei occhi. Il Crippa che dice ‘carino’. Incredibile!
“Sì, in fondo è carina, però calma. E’ tutta pelle e ossa che se la scopassi garantito le costole della tipa mi farebbero a fette”.
“Ma va là, che davi corda alla Sara che era sì e no quarantadue chili”.
“Ma però aveva un’anima”, mi ribatte con tono intellettuale tirando su il sopraciglio destro. Poi ghigna di brutto: “Questa pseudo passera secca e mascolina, ti stupisci che gli interessava al Landozzi? Sempre pensato che lui è un culattone in incognito ma senza i coglioni per andare sino in fondo, perché si chiava dei cessi che sembrano maschi. Probabilmente glielo sbatte in culo godendosi quel budello stretto che da soddisfazione agli uomini con il cazzo in miniatura”.
Mi guarda e righigna ancora: “Però, ‘sta Sara, un colpetto mi sa che ho fatto bene a darglielo”.
“Dici?”.
“Sì”.
“Se lo dici tu. Per me ha solo la figa”.
“Mah, forse non hai mica tutti i torti. Di certo non è Miss Italia e mica solo per il fatto della ciccia che non ha. Ora che ci penso aveva anche una striscia di capelli grigi, dietro, sopra la nuca. Quando gliel’ho messo in mano, la stronza si è messa sulle ginocchia e ha iniziato a darci di bocca. Me la sono tirata verso la pancia e ‘sta qua ha alzato i suoi occhietti a fessura per vedere, per essere sicura se mi piaceva o no. Ce la metteva tutta per accontentarmi perché è quel tipo di troia lì, di quelle lesionate che vogliono sempre accontentarti anche se non ce la fanno mai. Quando la testa l’ha riabbassata ti vedo ‘sta striscia di capelli grigia e mi si ammoscia. Poi, dico, merda, se fosse solo dieci anni più giovane”.
Si ferma il Crippa, come a pensarci su mentre si scola le ultime gocce del cazzo di Banana Daiquiri. Prende fra i denti la fettina di limone per masticarla e non ci vuole una gran fantasia per vedere in quel povero trito di limone l’immagine del suo arnese depresso dalla capigliatura della stronza.
Succhia fino all’ultima goccia, la sputa nel bicchiere e poi esclama: “Se fosse dieci anni più giovane, cazzo, lascerei anche correre questa storia dei capelli grigi. Ma così, no. Dopo i trent’anni la fica non è più fica. E’ un residuato fossile! E’ da buttare. Rottami sbiaditi che vivono nel ricordo di quando erano ancora guardabili”.
Ci siamo. Siamo allo stadio in cui l’ebbrezza alcolica prende il sopravvento sulle maglie della logica, in cui l’alcol ti fa saltare da palo in frasca in maniera del tutto disinvolta e in cui le idee, idee con la ‘I’ maiuscola vanno e vengono senza alcun nesso. Questo mi viene in mente o qualcosa del genere mentre me ne sto seduto lì coi muscoli del collo flosci. “In che senso?”, gli chiedo.
“Vedi, per una fica come quella, a ‘sto punto, ogni anno conta. L’anno prossimo può anche iniziare a perderli, i capelli. Che me ne faccio io di una di trentacinque anni con un principio di chierica?”.
“Te la sbatti, regolare, no? A proposito, com’è andata a finire? Mi pareva che ti tampinasse mica male”.
“Le avevo promesso che saremo usciti e sapevo che aveva voglia che la chiavassi. Merda, se avesse dieci anni di meno! Andrebbe benissimo se fosse appena un poco più giovane. Una figa giovane non importa se spara anche le sue cazzate hippie. Ma una fica vecchia, anche se ha cervello, non conta”.
“E poi?”.
“Siamo andati a Fiesole, un paio di venerdì fa. All’inizio ero un po’ ubriaco, anzi, ero ubriaco duro e me la volevo fare in mezzo alle rovine, su un capitello di marmo”.
“Una scopata classica”, aggiungo. Roberto coglie l’allusione, ma non sorride più di tanto.
“L’idea mi prendeva bene. Poi la porto su, baracchiamo un po’ e quando si spoglia indovina un po’ cosa ha combinato, la stronza? Se l’era rasata. Prima la storia dei capelli grigi e poi .. sotto non aveva più nemmeno uno stracazzo di pelo. Non l’hai mai vista una passera pelata?”.
“Nooooo”, gli faccio tirando indietro la testa in un moto di ribrezzo. Devo fare eco al suo scandalo. Serve a fargli capire che partecipo al suo schifo.
“Una roba da vomitare. Quando si è tolta le mutande, non credevo ai miei occhi, lì con quel taglio che non capivo manco cosa fosse. Mi sembrava”, continua arrotando di brutto la sua ‘erre’ moscia quasi come il suo cazzo, “una di quelle che vedi all’ospedale, quelle col cancro che la chemio gli sta divorando tutto. Non sembrava più neanche una figa. Stava lì ad occhi chiusi e a gambe aperte e pareva una rana morta, di quelle scorticate che usavano alle medie per gli esperimenti di anatomia. Ti giuro che me la sono fatta per inerzia, forse per compassione, credo”, e al contempo fa una faccia che è il disgusto in persona.
“Poi è il pelo che mi fa arrapare, è quasi come ci fosse una gonna con gli spacchi, che delle volte mi viene voglia di sdraiarmi a terra per vedere qualcosa di più. Non ci hai pensato a come suona bene il termine ‘sorca’”. Alza gli occhi al cielo e fra sé ripete ‘la sorca’, cercando di cogliere la consistenza sonora del termine. Glielo leggo sulle labbra e mi torna in mente una domenica sera di tanti anni fa in metrò a Milano quando sghignazzavo di queste cose con Luigi e Stefano che, con un sorriso che gli arrivava sino alle orecchie, raccontava delle gesta di Gabriel Pontello e delle sorche che si faceva a mille. Ma non era mica il fluido erotizzante che mi esaltava. Era il modo in cui diceva ‘sorca’ e l’enfasi che gli dava.
“L’importante, però, è che tenga gli occhi chiusi ed abbia il volto sconvolto dal piacere, appena la sfiori”.
“Come la Sara?”.
“La Sara? Sfiorarla un cazzo, se avessi avuto sotto mano un preservativo, me lo sarei messo, maledizione”.
“Sarebbe stato un bell’affronto. Fossi stato io ti avrei guardato storto”.
“E che pensi, che gliel’ho picchiato nel culo senza gommino? Ce l’aveva lei in mezzo al casino cosmico della sua borsetta”. Sbuffa un poco e prosegue: “Quando abbiamo finito credevo si fosse addormentata. Il flash dell’orgasmo pensavo l’avesse fatta crollare. L’ho guardata stesa su un fianco, la testa coperta da un braccio smunto. Ho sentito che respirava troppo forte, che stava lì bella vigile e che voleva qualcosa ancora. M’ha chiesto se il poster con Sandinista è dei Ramones. Dei Clash, gli ho detto a mezza bocca come dovessi spiegargli l’abc. Tutto per attaccare bottone invece di stare zitta a storpidarsi in santa pace. Ha provato a fare la donna emancipata ma la parte non l’ha mica retta. Ed infatti il muso è partito rapido. Si va ad una festa, dico io, conosci qualcuno, ti fai scopare e poi che pretendi? Che ti fidanzi, che ti sposi, che metta su famiglia? Non c’è il minimo problema ma non col sottoscritto, chiaro? Se vieni su da me, io, nella mia semplicità bergamasca suppongo che tu ne abbia voglia. Che c’è da aggiungere ancora?”.
Sfilo una paglia dal pacchetto e gliela offro. La stringe fra le labbra. La accende con una fiamma altissima e poi mi restituisce il bic. Ci da ancora di erre arrotata: “M’ha chiesto pure se non avessi pensato a lei, se per caso non mi fossi messo nei suoi panni di donna? Di donna, le ho detto tutto interrogativo? Gli ho risposto che a me delle sue insicurezze non me ne fregava niente. Che avevo da pensare ai miei casini che se ne stavano a cuccia ad aspettarmi. Che se avesse pensato di essersi lasciata andare troppo ed poi si fosse pentita, va bene, l’avrei capito. Se sul suo diario avesse scritto che l’alcool è stato eccessivo e di non essere stata troppo lucida, andava altrettanto bene ma questo non gli dava ulteriori prerogative. Gli ho chiesto se mi stava presentando il conto, se me la stava facendo pagare? Non ha detto nulla di preciso, ha solo fatto la vocina rotta da attrice non protagonista, i gemiti da persona con deficit comportamentali. Eppure non era difficile capire che mi bastava non farmi rompere il cazzo. Eppure in fondo per togliermela di torno non ho saputo fare altro che sbattermela di nuovo. Non mi veniva altro per dargli il foglio di via. Questa volta ho fatto alla svelta e poi le ho voltato la schiena. Sì, ho preso un libro di Schumpeter, mi sono messo a leggere e siamo stati mezz’ora senza aprire la bocca. Il bello è che non me ne fregava un cazzo”, e, mentre finalmente inizia a rilassarsi un poco, “Mi era venuta voglia di farmi una canna, ma ho aspettato che la stronza se ne andasse fuori dalle balle perché lo sapevo che non ne aveva e non mi passava neanche per l’anticamera del cervello di fargli fumare i miei chignoli”.
Il barista tira fuori un frullatore, tre banane, un limone, cubetti di ghiaccio e una bottiglia di rum. “Rum vecchio della Martinica, e banane di quelle piccole, le migliori”, dice mentre inizia a sbucciarle e a tagliarle a fette sottili che mette nel bicchiere del frullatore. Le pale le aggrediscono e le riducono a polpa. Poi aggiunge una stessa quantità di rum insieme a succo di limone e a qualche cubetto di ghiaccio. Scuote lo shaker in maniera discreta senza quella gestualità da barman da discoteca strafatto di coca. Infine versa la miscela color avorio in due bicchieri di vetro opaco e ce li porge un tot professionale.
“Ecco!”, ci fa mentre appoggia i bicchieri sul tavolo.
“Cos’è questa delizia?”, gli chiedo.
“Banana Daiquiri. Nella mia gerarchia dei cocktail classici viene dopo solo il Martini Dry e il Manhattan. Senti solo la poetica del nome”.
“Mah! Per me l’unica poetica è quella del palato. Gli alcolici non meritano neanche di essere guardati. Via, giù e pronto un altro subito”, gli ribatte il Crippa mentre svuota il bicchiere in due sorsate, con una pausa fra l’una e l’altra che gli serve per masticare i residui della banana. Io, invece, procedo più lentamente con sorsate brevi per gustare la solidità dolce ed aspra dell’intruglio prima in tutta la bocca sino alle estremità superiori della mascella e poi anche giù nelle viscere. Ed intanto osservo la parte solida della soluzione che scende lentamente verso il basso e si deposita sul fondo del bicchiere.
Gianni sta contemplando gli effetti del suo lavoro sui nostri volti con un sorriso tutto nicotina. Gli chiedo se si siede con noi a bere un goccio, con gli amici. Lui ghigna duro e fa: “Con gli amici che ho? Con il mestiere che faccio?”, mentre si batte le dita su una tempia, “Te l’immagini se bevesi anch’io, che apocalisse qua dentro ..” e senza aggiungere nulla offre un altro giro al Crippa che continua a sorseggiare con calma apparente.
Aspetto che mandi giù, poi parto: “Allora?”, gli chiedo, certo del fatto che l’alcool l’ha portato su di giri.
“Allora cosa?”, risponde il Crippa con un sorriso a mezza bocca che sa già dove voglio andare a finire.
“Allora un cazzo .. con la tipa, quella la, come si chiama? Hai fornicato o no, figliolo? A me lo puoi dire”.
“La Sonia. E’ stato carino”, mi risponde usando un tono e ‘sto termine ‘carino’ che quasi quasi lo guardo e non credo ai miei occhi. Il Crippa che dice ‘carino’. Incredibile!
“Sì, in fondo è carina, però calma. E’ tutta pelle e ossa che se la scopassi garantito le costole della tipa mi farebbero a fette”.
“Ma va là, che davi corda alla Sara che era sì e no quarantadue chili”.
“Ma però aveva un’anima”, mi ribatte con tono intellettuale tirando su il sopraciglio destro. Poi ghigna di brutto: “Questa pseudo passera secca e mascolina, ti stupisci che gli interessava al Landozzi? Sempre pensato che lui è un culattone in incognito ma senza i coglioni per andare sino in fondo, perché si chiava dei cessi che sembrano maschi. Probabilmente glielo sbatte in culo godendosi quel budello stretto che da soddisfazione agli uomini con il cazzo in miniatura”.
Mi guarda e righigna ancora: “Però, ‘sta Sara, un colpetto mi sa che ho fatto bene a darglielo”.
“Dici?”.
“Sì”.
“Se lo dici tu. Per me ha solo la figa”.
“Mah, forse non hai mica tutti i torti. Di certo non è Miss Italia e mica solo per il fatto della ciccia che non ha. Ora che ci penso aveva anche una striscia di capelli grigi, dietro, sopra la nuca. Quando gliel’ho messo in mano, la stronza si è messa sulle ginocchia e ha iniziato a darci di bocca. Me la sono tirata verso la pancia e ‘sta qua ha alzato i suoi occhietti a fessura per vedere, per essere sicura se mi piaceva o no. Ce la metteva tutta per accontentarmi perché è quel tipo di troia lì, di quelle lesionate che vogliono sempre accontentarti anche se non ce la fanno mai. Quando la testa l’ha riabbassata ti vedo ‘sta striscia di capelli grigia e mi si ammoscia. Poi, dico, merda, se fosse solo dieci anni più giovane”.
Si ferma il Crippa, come a pensarci su mentre si scola le ultime gocce del cazzo di Banana Daiquiri. Prende fra i denti la fettina di limone per masticarla e non ci vuole una gran fantasia per vedere in quel povero trito di limone l’immagine del suo arnese depresso dalla capigliatura della stronza.
Succhia fino all’ultima goccia, la sputa nel bicchiere e poi esclama: “Se fosse dieci anni più giovane, cazzo, lascerei anche correre questa storia dei capelli grigi. Ma così, no. Dopo i trent’anni la fica non è più fica. E’ un residuato fossile! E’ da buttare. Rottami sbiaditi che vivono nel ricordo di quando erano ancora guardabili”.
Ci siamo. Siamo allo stadio in cui l’ebbrezza alcolica prende il sopravvento sulle maglie della logica, in cui l’alcol ti fa saltare da palo in frasca in maniera del tutto disinvolta e in cui le idee, idee con la ‘I’ maiuscola vanno e vengono senza alcun nesso. Questo mi viene in mente o qualcosa del genere mentre me ne sto seduto lì coi muscoli del collo flosci. “In che senso?”, gli chiedo.
“Vedi, per una fica come quella, a ‘sto punto, ogni anno conta. L’anno prossimo può anche iniziare a perderli, i capelli. Che me ne faccio io di una di trentacinque anni con un principio di chierica?”.
“Te la sbatti, regolare, no? A proposito, com’è andata a finire? Mi pareva che ti tampinasse mica male”.
“Le avevo promesso che saremo usciti e sapevo che aveva voglia che la chiavassi. Merda, se avesse dieci anni di meno! Andrebbe benissimo se fosse appena un poco più giovane. Una figa giovane non importa se spara anche le sue cazzate hippie. Ma una fica vecchia, anche se ha cervello, non conta”.
“E poi?”.
“Siamo andati a Fiesole, un paio di venerdì fa. All’inizio ero un po’ ubriaco, anzi, ero ubriaco duro e me la volevo fare in mezzo alle rovine, su un capitello di marmo”.
“Una scopata classica”, aggiungo. Roberto coglie l’allusione, ma non sorride più di tanto.
“L’idea mi prendeva bene. Poi la porto su, baracchiamo un po’ e quando si spoglia indovina un po’ cosa ha combinato, la stronza? Se l’era rasata. Prima la storia dei capelli grigi e poi .. sotto non aveva più nemmeno uno stracazzo di pelo. Non l’hai mai vista una passera pelata?”.
“Nooooo”, gli faccio tirando indietro la testa in un moto di ribrezzo. Devo fare eco al suo scandalo. Serve a fargli capire che partecipo al suo schifo.
“Una roba da vomitare. Quando si è tolta le mutande, non credevo ai miei occhi, lì con quel taglio che non capivo manco cosa fosse. Mi sembrava”, continua arrotando di brutto la sua ‘erre’ moscia quasi come il suo cazzo, “una di quelle che vedi all’ospedale, quelle col cancro che la chemio gli sta divorando tutto. Non sembrava più neanche una figa. Stava lì ad occhi chiusi e a gambe aperte e pareva una rana morta, di quelle scorticate che usavano alle medie per gli esperimenti di anatomia. Ti giuro che me la sono fatta per inerzia, forse per compassione, credo”, e al contempo fa una faccia che è il disgusto in persona.
“Poi è il pelo che mi fa arrapare, è quasi come ci fosse una gonna con gli spacchi, che delle volte mi viene voglia di sdraiarmi a terra per vedere qualcosa di più. Non ci hai pensato a come suona bene il termine ‘sorca’”. Alza gli occhi al cielo e fra sé ripete ‘la sorca’, cercando di cogliere la consistenza sonora del termine. Glielo leggo sulle labbra e mi torna in mente una domenica sera di tanti anni fa in metrò a Milano quando sghignazzavo di queste cose con Luigi e Stefano che, con un sorriso che gli arrivava sino alle orecchie, raccontava delle gesta di Gabriel Pontello e delle sorche che si faceva a mille. Ma non era mica il fluido erotizzante che mi esaltava. Era il modo in cui diceva ‘sorca’ e l’enfasi che gli dava.
“L’importante, però, è che tenga gli occhi chiusi ed abbia il volto sconvolto dal piacere, appena la sfiori”.
“Come la Sara?”.
“La Sara? Sfiorarla un cazzo, se avessi avuto sotto mano un preservativo, me lo sarei messo, maledizione”.
“Sarebbe stato un bell’affronto. Fossi stato io ti avrei guardato storto”.
“E che pensi, che gliel’ho picchiato nel culo senza gommino? Ce l’aveva lei in mezzo al casino cosmico della sua borsetta”. Sbuffa un poco e prosegue: “Quando abbiamo finito credevo si fosse addormentata. Il flash dell’orgasmo pensavo l’avesse fatta crollare. L’ho guardata stesa su un fianco, la testa coperta da un braccio smunto. Ho sentito che respirava troppo forte, che stava lì bella vigile e che voleva qualcosa ancora. M’ha chiesto se il poster con Sandinista è dei Ramones. Dei Clash, gli ho detto a mezza bocca come dovessi spiegargli l’abc. Tutto per attaccare bottone invece di stare zitta a storpidarsi in santa pace. Ha provato a fare la donna emancipata ma la parte non l’ha mica retta. Ed infatti il muso è partito rapido. Si va ad una festa, dico io, conosci qualcuno, ti fai scopare e poi che pretendi? Che ti fidanzi, che ti sposi, che metta su famiglia? Non c’è il minimo problema ma non col sottoscritto, chiaro? Se vieni su da me, io, nella mia semplicità bergamasca suppongo che tu ne abbia voglia. Che c’è da aggiungere ancora?”.
Sfilo una paglia dal pacchetto e gliela offro. La stringe fra le labbra. La accende con una fiamma altissima e poi mi restituisce il bic. Ci da ancora di erre arrotata: “M’ha chiesto pure se non avessi pensato a lei, se per caso non mi fossi messo nei suoi panni di donna? Di donna, le ho detto tutto interrogativo? Gli ho risposto che a me delle sue insicurezze non me ne fregava niente. Che avevo da pensare ai miei casini che se ne stavano a cuccia ad aspettarmi. Che se avesse pensato di essersi lasciata andare troppo ed poi si fosse pentita, va bene, l’avrei capito. Se sul suo diario avesse scritto che l’alcool è stato eccessivo e di non essere stata troppo lucida, andava altrettanto bene ma questo non gli dava ulteriori prerogative. Gli ho chiesto se mi stava presentando il conto, se me la stava facendo pagare? Non ha detto nulla di preciso, ha solo fatto la vocina rotta da attrice non protagonista, i gemiti da persona con deficit comportamentali. Eppure non era difficile capire che mi bastava non farmi rompere il cazzo. Eppure in fondo per togliermela di torno non ho saputo fare altro che sbattermela di nuovo. Non mi veniva altro per dargli il foglio di via. Questa volta ho fatto alla svelta e poi le ho voltato la schiena. Sì, ho preso un libro di Schumpeter, mi sono messo a leggere e siamo stati mezz’ora senza aprire la bocca. Il bello è che non me ne fregava un cazzo”, e, mentre finalmente inizia a rilassarsi un poco, “Mi era venuta voglia di farmi una canna, ma ho aspettato che la stronza se ne andasse fuori dalle balle perché lo sapevo che non ne aveva e non mi passava neanche per l’anticamera del cervello di fargli fumare i miei chignoli”.
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